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mercoledì 30 dicembre 2015

LEALE, ACUTO, COLTO...UN VERO SERVITORE DELLO STATO


 
VITO PLANTONE, UN POLIZIOTTO GALANTUOMO





Franco Presicci 
Sembrano tempi assai lontani. A Milano intere zone hanno cambiato fisionomia. A Piazza Tirana, al Lorenteggio, la famosa bisca clandestina all’aperto davanti alla stazione ferroviaria di San Cristoforo non c’è più: l’arredo urbano ha sepolto l’enorme cerchio disegnato sul selciato attorno al quale dalle 14 fino all’alba si assiepavano i giocatori più accaniti.
Irruzione della polizia nella bisca di Piazza Tirana
Anche la bisca di via Palmanova, una roccaforte imprendibile, è un ricordo. E tale la “mala” di allora, dominata da “boss” molto determinati, incalzati da poliziotti inflessibili e infaticabili. Un esempio? Vito Plantone, che aveva lavorato con Mario Nardone, un mito. Vito allora dirigeva la sezione antirapine e si avvaleva di uomini preparati, che lo adoravano.
Da sx: il maresciallo Ferdinando Oscuri,  il questore di Milano Allitto Buonanno,    Gino Cervi all'epoca in cui l'attore girava alcune scene di Maigret sul Naviglio Grande, il capo della Mobile Enzo Caracciolo e Vito Plantone (entrambi poi diventati questori).                                                      In fondo Achille Serra, all'epoca giovane vice commissario.
Poliziotto alla Maigret, rispettoso anche delle pellacce, che quando si trovavano dinnanzi a lui non alzavano mai i toni. Non per paura, ma per riguardo. All’epoca la malandra aveva un altro codice. Per descriverla, Plantone raccontava di una sera in un ristorante in pieno centro: “Entrammo accompagnati dalle nostre mogli e dopo pochi minuti un gruppo di cinque o sei “duri”, che avevamo notato subito, si alzò e imboccò la porta. Per delicatezza. Infatti poco dopo un ragazzo venne a deporre sul nostro tavolo un fascio di rose per le signore”. Era così la “malandra” di una volta. Lui la conosceva bene. Conosceva gli ambienti, le alleanze, le rivalità, le tecniche “professionali”, i personaggi. Ma quando veniva intervistato raccontava i fatti che poteva raccontare, senza mai fare i nomi delle persone. I cronisti, avidi, incontentabili, curiosi, indagatori, lo sollecitavano, ma Vito Plantone, era irremovibile.
Da sx:  il questore Plantone e il prefetto Mario Jovine ai lati del generale durante  una cerimonia a Palermo
Plantone con Borsellino


Nell ’85 andai a trovarlo a Catanzaro, dove era questore, e lo bombardai di domande per una delle pagine che mi erano state affidate dal vicedirettore Guido Gerosa, intitolate “La polizia racconta”. Rispose a tutte, dettagliando, precisando, circostanziando, ma niente nomi. E mi spiegò che quelle persone avevano pagato o stavano pagando il conto o avevano cambiato vita o avevano figli che studiavano magari all’università o addirittura erano passati a miglior vita, e non era giusto tenerle sempre sui giornali. Gli feci osservare che quei nomi li sapevo, sapevo la storia di boss e gregari, e aprii l’archivio della mia memoria. “Sì, lo so, ma i nomi io non li faccio”. Così era anche Mario Nardone. Lo intervistai nella sua casa di via Tortona, mi raccontò una valanga di fatti, ma alla richiesta dei nomi teneva chiusa la bocca. Vito Plantone, il poliziotto gentiluomo. Lo ammiravano tutti. Era leale, acuto, colto. E un vero servitore dello Stato. Perseverante. Nel ’71 un’agguerrita “gang” milanese fece una “binda” a Roma a un furgone portavalori e Plantone seguì le indagini, che lo portarono lontano. Partì dal capoluogo lombardo, fece sosta nelle città in cui, secondo gli elementi che via via emergevano, i rapinatori avevano trovato rifugio momentaneo, perquisì abitazioni, ascoltò chi aveva qualcosa da dire e alla fine arrivò a Taormina, dove, sul bordo della piscina di un hotel, sorprese i ricercati, convincendoli, senza minacce, ad arrendersi. Erano i suoi metodi. Anche con gli ossi più duri. Ha avuto a che fare con tanti di loro, tutti alla guida di “batterie” organizzate, anche nell’Hinterland: quelle dei “bravi ragazzi di Angera”, che agivano soltanto il lunedì; “della dolce vita” (donne e champagne dopo ogni colpo); dei Tir, che svuotava i “bisonti della strada”; del Mec e via dicendo. Milano fu teatro di assalti clamorosi: a un’oreficeria di via Montenapoleone, il 25 aprile del ’64; ad un’agenzia bancaria il 25 settembre ’67, che scatenò un mezzogiorno di fuoco con morti e feriti, compreso un maresciallo della polizia; la sparatoria di largo Tel Aviv, il 13 dello stesso mese e dello stesso anno, per il controllo delle bische; il conflitto a fuoco in corso Sempione, obiettivo “la bisca della contessa”, il 14 febbraio del ‘79…
Da sx: Alberto Berticelli de Il Corriere della Sera, Franco Presicci, de Il Giorno, il questore Vito Plantone, Arnaldo Giuliani, capocronista de Il Corriere della Sera e Alberto Tivulzio dello stesso giornale in  una cerimonia

Plantone con l'attrice Annamaria Rizzoli fra questori e vicequestori

La criminalità si era fatta aggressiva, spietata. Milano non dormiva sonni tranquilli. Sequestri di persona, omicidi (nell’80 a volte tre in una sera).anche per colpa della droga. E il terrorismo. Vito Plantone, il 15 dicembre del ’76, visse ore tremende a Sesto San Giovanni davanti ai corpi di due poliziotti crivellati dai proiettili di un brigatista, rimasto a sua volta ucciso mentre tentava la fuga calandosi da una finestra. Dell’episodio preferiva non parlare. Per i giornalisti, che passavano notti insonni, divorando pane salame davanti al portone della questura in attesa di poter captare una notizia al termine di un interrogatorio, aveva molta considerazione. Era spesso assediato da quei cani da tartufo. Flemmatico, voce bassissima, sorriso discreto, riservato, li informava con il contagocce. “Accontentatevi di quello che vi riferisco. Quello che non dico è protetto dal segreto istruttorio”. E poi, se lo stomaco era inquieto, andavano a mangiare un piatto caldo insieme. Gli interlocutori, soprattutto quelli della vecchia guardia (Arnaldo Giuliani, Max Monti, Giancarlo Rizza, Fabio Mantica, Patrizio Fusarr, Gaetano Gadda, Salvatore Conoscente, Mario Mercuri, Falletta…), lo veneravano. Un cronista novello privo di tatto e un tantino arrogante, un giorno, in tempi più recenti, chiamò Plantone al telefono, e non avendo dimestichezza con la sua voce pacata, sottile, gli disse bruscamente di alzarla perché lui non riusciva a sentirlo. Risposta, con tono garbato: “Sarà che il filo è difettoso, si attacchi bene alla cornetta”. Figura esemplare. Aveva un’“èquipe” di ferro, in cui spiccava il maresciallo Ferdinando Oscuri, pugliese doc e investigatore dal fiuto finissimo. E tanti amici. Fra questi, Enzo Caracciolo, Mario Jovine, Antonio Pagnozzi, Francesco Colucci, diventato prefetto dopo essere stato questore a Bergamo, a Lecce, a Genova, lo stesso Oscuri. E altri, anche tra artisti, giornalisti, liberi professionisti, magistrati. Lo esaltavano per le sue capacità professionali e per le sue straordinarie doti umane, per la sua rettitudine. Trattava i subalterni con i guanti gialli; e chiedeva loro di essere cortesi con i cittadini che si rivolgevano ai loro uffici, “ perchè la polizia è al servizio della gente”.
Da sx:  il prefetto Achille Serra, il questore Umberto Catalano, il prefetto Mario Jovine, il questore Vito Plantone, il questore Enzo Caracciolo, lo scrittore giallista Renato Olivieri e il prefetto Antonio Pagnozzi
Era nato a Noci, e parlava spesso del centro storico, delle masserie fortificate, della Madonna della Scala, abbazia benedettina, della bella villa comunale del suo paese. Ed esortava gli amici ad andarlo a visitare. Aveva un grande senso dell’ospitalità; amava la compagnia.
Una sera, a cena nella casa milanese del pittore barese Filippo Alto (di lui e della sua arte hanno parlato i critici più consacrati), spruzzò del peperoncino sulla pasta con i ceci e ne ingerì uno intero. Io lo imitai e invocai l’intervento dei vigili del fuoco. Mentre lui rideva.
Vito non c’è più. Se n’è andato il 2 aprile ’98. Lo avevo conosciuto. nel ’70. Ricordo la mia chiacchierata nel suo ufficio, interrotta da una segnalazione da Roma: tre rapinatori erano appena partiti dalla capitale per Milano. Vito convocò immediatamente la sua squadra, la informò, impartì gli ordini. I banditi vennero intercettati al loro arrivo, seguiti, il giorno dopo acciuffati, in un’azione molto movimentata, sulla soglia di una banca di via Palmanova, dove, armi in pugno, stavano facendo irruzione.


Milano, 30 dicembre 2015

domenica 20 dicembre 2015

Guglielmo MIANI - Dino ABBASCIA' - Peppino STRIPPOLI - Guido LE NOCI

          I pugliesi che hanno fatto la storia di Milano


(Franco PRESICCI) Una volta si diceva che se a Milano ci fosse il mare, sarebbe una piccola Bari. Lo si diceva nel dialetto della città di San Nicola. Oggi l’adagio è quasi dimenticato. Ma è vero che i pugliesi nel capoluogo lombardo sono un paese. Siano tarantini o foggiani, leccesi o brindisini, hanno dato, e continuano a dare, il meglio di sé. Molti di loro sono anche diventati importanti, in qualunque settore: il giornalismo, l’imprenditoria, la libera professione, l’editoria... Qualche esempio? Guglielmo Miani. Venne a Milano nel 1922 da “Andria felix”, come la chiamava Federico II, che l’amava, iniziò confezionando abiti su misura, distinguendosi per l’eccellenza dei risultati, tanto che la sua clientela diventò sempre più illustre, annoverando Buster Keaton, Totò, Charlie Chaplin, Walter Chiari, Gino Bramieri... Inaugurò un nuovo filone, quello degli impermeabili, scelse come logo”Larus”, traduzione latina di gabbiano… E non si limitò a vestire tante personalità, aprì negozi nel centro di Milano, in via Montenapoleone; in via Manzoni…; avviò il commercio dei tessuti, facendo venire stoffe pregiate dall’Inghilterra; rilevò il Camparino in Galleria Vittorio Emanuele…Nel ’49 fu tra i fondatori del Salotto di Milano, l’associazione dei titolari delle aziende più prestigiose… Non c’era gente che potesse dire di non conoscere almeno di nome il commedator Miani, che tra l’altro organizzò una settimana inglese a Milano e per l’occasione fece installare davanti al suo negozio a un passo da piazza Cavour una cabina telefonica londinese. Ospitò a casa sua Filippo di Edimburgo, che per i suoi alti meriti lo premiò con l’Ordine della Giarrettiera; ed ebbe tante altre onorificenze, Nel ’70, quella di ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico. I giornalisti lo corteggiavano. Il “Giorno” affidò un lungo articolo su di lui a Nantas Salvalaggio. Geniale, intelligente, lungimirante, uomo di buon gusto, era anche un filantropo: vinse due volte il Premio della Bontà.

Dino Abbascià in una sosta durante la costruzione di una scuola in Kenia
Altro esempio: Dino Abbascià. Lasciò Bisceglie quando aveva appena 13 anni. Sceso dal treno alla stazione Centrale, si sentì come Pinocchio nel ventre della Balena che aveva già ingoiato Geppetto. Nel Transatlantico rimase stupito davanti all’enorme sagoma della “Michelangelo”, una delle regine del mare, poi smantellata come un giocattolo. Fuori della Galleria delle Carrozze, determinato e volitivo com’era, pensò che doveva darsi da fare subito. Come? Veniva da un centro ortofrutticolo che inviava le sue prelibatezze in tutt’Europa? Bene, quella era la via da imboccare. Si fece assumere da un fruttivendolo e gradino dopo gradino arrivò in cima alla scala, facendosi stimare da tutti. Fu lui a far conoscere agli italiani i kiwi, i manghi, i meloni dei tropici. Era acuto, lavoratore infaticabile, creò un’azienda, i cui furgoni percorrevano Milano con il suo nome scritto in grande sulle fiancate. Era presidente o vice di vari organismi nazionali o regionali; un pilastro dell’Unione Commercianti. Sua la “Boutique della frutta” di fronte all’ospedale Fatebenefratelli. Quando parlava in pubblico e nei consigli di amministrazione lo ascoltavano con piacere e interesse: sapeva accompagnare il concetto profondo con la battuta di spirito. Se n’è andato, prematuramente, per un male vigliacco, ed è stato commemorato in Comune, che gli ha conferito l’Ambrogino d’oro alla memoria. Il ceramista grottagliese Giuseppe Fasano gli ha fatto un ritratto. Anche Abbascià aveva un cuore d’oro: tra l’altro costruì a proprie spese una scuola in Kenia. Lo ha ricordato, fra i tanti, Dely Gatti, dell’Inner Weel International di Merate.
Da sx: Nicola Vernola, Peppino Strippoli e Filippo Alto
Peppino Strippoli, nato a Cerignola, ma barese d’azione, piantò le tende a Milano, dove tra gli anni 50 e 80 creò ristoranti, cantine, trattorie. Uno, “’Ndèrr’a la lànze”, in piazza Santo Stefano, vicino all’Università Statale. Serviva orecchiette al sugo o con le cime di rapa, patate e cozze, “fave e fògghie”…Tra i suoi clienti, i pittori Filippo Alto e Francesco Speranza, i giornalisti Salvatore Giannella e Vittorio Notarnicola, il commendator Guglielmo Miani, il regista Gillo Pontecorvo….Luigi Veronelli, enologo e scrittore coltissimo, (aveva anche una rubrica sul vecchio “Giorno”) lo teneva in grande considerazione. Strippoli, detto l’appulo-milanese, inaugurò poi il supermercato del vino a Saronno, dove un pomeriggio fece installare un grande contenitore, affidando a cinque o sei ragazze il compito di pigiarvi l’uva con i piedi nudi, come facevano i contadini nel palmento al tempo della vendemmia. L’appulo-milanese amava parlare dei colori della sua terra, dei suoi vini, dei suoi cibi e degli ulivi dal tronco robusto. E di Trani, che “ha la campagna più ricca di grappoli”. Moni Ovada disse che aveva amato Bari prima di andare a visitarla, grazie a Peppino, che non perdeva occasione per decantare questa città, la Puglia e la sua gente.
A sx Elio Greco, a dx Guido Le Noci
Un grandissimo personaggio, noto e apprezzato non soltanto a Milano, ma in Europa, Guido Le Noci E’ stato anche un editore molto importante. Nel ‘68 pubblicò il bellissimo volume “Martina Franca” di Cesare Brandi, che ebbe un enorme successo. Poi altri: su Apollinaire, Quasimodo, Montale. Era amico di Ungaretti, Pierre Restany, padre dell’Art Nouveau”, Dino Buzzati, Raffaele Carrieri, Paolo Grassi... Approdato a Milano nel ’25, fece ogni mestiere; nel 27. acquistò i primi disegni; nel ’43 aprì la sua prima galleria, la “Borromini, a Como, dove organizzò una mostra che schierava Picasso, Modigliani... Il regime, che non amava l’arte non tradizionale, la segò, facendo eliminare i nomi non graditi; ma Le Noci non si perse d’animo e tutte le opere “colpite” trovarono un compratore. Dopo il conflitto mondiale trasferì la “Borromini a Milano, dove il 17 dicembre del ’54 a Brera accese le luci dell’”Apollinaire”, in cui negli anni espose i maggiori rappresentanti delle correnti contemporanee. Andava spesso a Parigi, per incontrare artisti, critici, collezionisti, scopriva talenti…Fece conoscere all’Europa Soldati e Meloni; sostenne Christo Javaceff, che impacchettava i monumenti.
Foto storica: Guido Le Noci, a sinistra, con Christo Javaceff, in piazza Duomo. Alle loro spalle, a destra, il pittore tarantino Elio Santarella e, impacchettato, il monumento equestre
Realizzò progetti che l’Italia intera non potrà dimenticare, compresa una grandiosa manifestazione di arte e spettacolo nel cuore della città, alla quale assistette una folla inimmaginabile. Uomo pieno di idee, geniale, un prezioso protagonista della cultura e dell’arte, fu il propulsore di quella astratta, che grazie a lui s’irradiò a Rom e in altre città. Aveva in mente di varare un Premio “Apollinaire Sud” dedicato alla Regione Puglia, con segreteria a Milano “ed epicentro a Martina”, dove era nato. Uomo tenace, determinato, mercante eccezionale. Su Guido Le Noci e sulla sua attività si potrebbero scrivere volumi. Se lo spazio fosse di gomma, qui potremmo riuscire a sintetizzare ciò che ha fatto e ciò che ha rappresentato per il capoluogo lombardo. E’ stato uno di quelli che hanno fatto grande Milano .