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mercoledì 28 aprile 2021

Il Covid ha ucciso un poeta

 

SI E’ SPENTA LA VOCE DI NICOLA

DE COMITE CHE CANTAVA TARANTO E

LE SUE BELLEZZE


Per il suo compleanno, il 30 marzo, gli

amici di “Memorie tarantine” avevano

postato su Facebook fotografie della città

com’era una volta, in segno dell’affetto e

della stima che tutti gli tributavano.


 

Franco Presicci  

La voce di un poeta si è spenta. Per colpa del Covid, che sta flagellando il mondo. Gli appassionati non potranno più ascoltare i versi di Nicola De Comite, già operaio dell’Enel, da lui recitati con semplicità in “Memorie Tarantine” o in “Taranto com’era”, gruppi molto seguiti su facebook.

Nicola De Comite
Lo ascoltavo anch’io, puntualmente. Appena lo vedevo comparire con i suoi baffi folti, bianchi, ben curati, e i suoi capelli ondulati e argentati gli davo tutta la mia attenzione. Ho sentito l’ultima sua poesia in un video realizzato in occasione della giornata del dialetto. Non solo di quello della Bimare, ma di tutti, dal napoletano, noto in tutto il mondo, dal barese al friulano, al siciliano. Scriveva versi emozionanti, a volte struggenti, Nicola De Comite, con una passione profonda, autentica per la sua città e l’orgoglio di appartenerle. Ho ancora nelle orecchie “La torre dell’orologio” di piazza Fontana, in cui il contatempo che sta lì in alto come su un trono gli confida la sua pena per essere stato privato delle campane; per il restauro della fontana, che a suo dire è malfatto, anche se realizzato da un artista di portata nazionale, Nicola Carrino (partecipò anche a qualche Biennale di Venezia), avendo voluto tra l’altro un bel giardino con alberi e fiori tutt’intorno agli zampilli d’acqua.
 
De Comite legge una poesia

Altro lamento per gli anni in cui è stato trascurato: non dal poeta Diego Marturano - da tanto scomparso - che gli aveva dedicato una poesia toccante, coinvolgente: “’U relògge d’a chiàzze”. Nicola De Comite aveva sempre l’occhio vigile verso i cambiamenti “d’a nàche”, la sua culla: ai pezzi perduti o stravolti, a quelli ignorati. Rileggo o riascolto alcune sue opere nei momenti più sereni per apprezzare meglio i suoni della parlata della terra amata, che, come diceva lui, “rumànene ssèmbe indr’a le vène”. Lo sa chi dovette prendere il treno della speranza per trasferirsi altrove e non ha la possibilità di esprimersi nella parlata dell’anima. E anche al cecchino che gli ha tolto la vita “e ha messo in ginocchio i popoli del mondo intero e sta mietendo ancora vittime”, aveva riservato altri suoi versi. E’ brutale, vile, questo Covid, che non si arrende, scriveva Nicola, in vernacolo. Ricordo un’altra sua poesia per il padre, “Cicce ‘u bregatière”, uomo d’altra epoca, “tutte càse e fatje, e me decève ssèmbe a ‘sta vìte nesciune te riàle nìende”: con il sudore della fronte si acquista un piatto di minestra; e “Cicce ‘u bregatière” di camicie ne aveva sudate tante e camminava fiero, la schiena dritta e la testa alta. Faticava anche di notte, come pescatore, per portare il pane alla famiglia. Era per Nicola un esempio, un modello da imitare. 

Ponte girevole

De Comite si esprimeva con delicatezza: della sua città; dei suoi mari legati dal canale navigabile; del borgo antico (la via di mezzo, la chiesa di San Domenico, il ponte di pietra e quello di ferro; e delle figure caratteristiche, tra cui Marche Poll, l’ometto basso e magro, volto pieno di rughe profonde, che andando in giro per la città con le scarpe sfondate vendeva “‘U Panarjìdde” (“quidde piccine ca no làsse de pède a nesciùne”: sottotitolo), giornale satirico fondato nel 1902 da Vincenzo Leggeri, dialettologo e tipografo, nato ad Altamura nel 1873 e morto a Taranto nel ‘24, lasciando il periodico ai figli. Qualche notizia sulle “panarìjdde”? La fornisce lo stesso De Comite. Tantissimi anni fa erano ragazzi che vivevano praticamente per strada e per riuscire a racimolare qualche soldo e un pezzo di pane andavano per i mercati con il paniere e aiutavano gli avventori a portare il peso della spesa; e per aggiudicarsi i clienti facevano chiasso e spesso venivano alle mani, quindi erano ritenuti pericolosi.

Nicola De Comite

In tempi successivi – aggiunge – veniva attribuito questo titolo a “tutti i ragazzi che giocavano in strada, ma questi non avevano niente a che fare con i loro predecessori”. “’U Panarjìdde aveva dunque in Marche Poll un insostituibile strillone. “Na, accattète ‘U panarìjdde; a vuè ‘a schedìne?” (che era quella del Totocalcio). Nessuno nella Bimare ha dimenticato quelle parole né la figura di Amedeo Orlolla, il vero nome del personaggio che proponeva quell’organo mille volte al giorno, dalla mattina alla sera, a volte spingendosi fino a Statte e a Crispiano, a piedi o con qualche passaggio offerto da automobilisti generosi. In una poesia De Comite descrive “’na pòste de perdùne: “scazàte sus’a nnà frèdda chiànca/ ammuskàte, pàsse lijnde nazzecàte/ vestùte cu camesòne viànche/ spàlle cu mazzètta pànna accummieccàte/ mmàne ‘u burdòne cappijdde pellegrine ‘ncape…”. E in un’altra racconta: “Mi domandano il motivo della mia passione per il dialetto, e io colgo l’occasione “pe’ cundà’ ‘nu fàtte”. Eccolo. “Eravamo per le vacanze di Natale a Piancavalle, un luogo di montagna veramente bello; ma con persone diverse da noi, che amiamo le feste, lo stare insieme in allegria, il conversare spassionatamente.

Abbàsci'a marine
Gli autoctoni invece imbacuccati (“accufanàte”) e sempre “cu ‘a càpe sòtte”. “Un giorno notai un signore che stava sempre ai margini della nostra comitiva e alla fine gli domandai il motivo. Era un capitano dell’aviazione, di Taranto, a Pordenone dal ’60”, affascinato dai suoni e dalle armonie, dalle onomatopee del nostro idioma, che era anche il suo”. Il dialetto è una calamita “ca n’auànde e no’nge ne làsse cchiune”, tenendoci legati saldamente alla nostra terra, così ricca di bellezze: i tramonti che catturerebbero la tavolozza di Constable, il lungomare, il Castello Aragonese, il ponte che si apre per il transito delle navi, un evento che attira ogni volta folle di tarantini e di turisti, che applaudono festosamente. De Comite era un cultore del dialetto; il dialetto era un suo gioiello; ‘u dialètte jèsse da indr’o core, Necò’”. I suoi video su Facebook s’imponevano.
 
De Comite legge una poesia

Nicola era chiaro, semplice, davanti al suo leggìo come un sacerdote che legge il Vangelo alla Messa della domenica. “La casa a Taranto vecchia, dove sono nato, è affacciata sulla marina e sono tanti anni che l’ho lasciata, ma il bene che le porto non si esaurisce. Passando ogni tanto da quelle parti guardo con nostalgia quella finestra e mi ricordo quando la mattina con il naso attaccato ai vetri guardavo il sole che accarezzando il mare spandeva luce d’oro e d’argento, regalando a Mar Piccolo un incanto…” (in dialetto suona meglio). Un grande atto d’amore per il borgo antico, i suoi abitanti, “le pescatùre”; “chidde ca vònne mmìjenz’a mmàre cu le le lambàre” soprattutto. E mi viene in mente un poeta di altri tempi, Alfredo Nunziato Majorano (“L’èrva salvàgge e ddò pummedòre appìse hònne cangellàte sècule de stòrie”), dialettologo, demopsicologo, amico di Gerhard Rohlfs, noto anche per la sua Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti; autore di teatro in vernacolo (“A Sànda Mòneche”, “’U fìgghie d’a Madònne”, “A trucculesciàte de fratèlle Spiridione”, “’A Stutàte”, che andò in scena la prima volta sul palcoscenico del Dopolavoro Ferroviario, ottenendo una bella recensione dell’autorevole critico Antonio Rizzo, direttore de “La Voce del Popolo” e in quei giorni incerto se accettare l’invito di critico teatrale fattogli dal “Giornale d’Italia”. Nicola De Comite era molto stimato a Taranto.

'Nu strìttele
I suoi lbri
 
 
”In occasione del suo compleanno, il 30 marzo - mi riferisce Carmen Adamo, poetessa, innamorata anche lei del teatro, guida per i turisti che a fiotti vengono a visitare la città, organizzatrice di eventi nei luoghi storici, sfiorando il dialetto - alcuni amici, poeti legati al gruppo “Memorie Tarantine”, per omaggiarlo avevano postato su Facebook immagini di Taranto com’era, conferma dell’affetto e della stima che tutti avevano per lui, che con Carmen ed altri aveva partecipato a molti concorsi di poesia, vincendone tanti tra i più accreditati, come altri del gruppo, compresa Carmen Adamo. Aveva anche pubblicato libri. In dialetto (scriveva anche in lingua). Adesso Nicola De Comite è oltre le nuvole. Aveva 64 anni.Lascia tante sue perle, versi, video e foto: piazza Maria Immacolata, una volta intitolata a Giordano Bruno; la marina; la ringhiera; via D’Aquino del tempo in cui aveva un’altra fisionomia”; il ponte girevole attraversato dal tram che dalla stazione ferroviaria andava a Solito, con binario di scambio in via Di Palma, di fronte al cinema Odeon, chiuso da anni, come il Rex, il Paisiello… I guai per Taranto non finiscono mai. Adesso la sta falciando il Covid, che ha ucciso anche Rosanna Di Bello, sindaco dal 2000 al 2006, cogliendola nella sala di terapia intensiva dell’ospedale Moscati, dove era stata ricoverata il 24 marzo. La Di Bello era di Forza Italia e Berlusconi diceva di lei che era la più bella. Laureata in Biologia, nel 1993 aveva fondato in Puglia il primo sodalizio della compagine del ”dominus” di centro-destra. SI E’ SPENTA LA VOCE DI NICOLA DI COMITE CHE CANTAVA TARANTO E LE SUE BELLEZZE Per il suo compleanno, il 30 marzo, gli amici di “Memorie tarantine” avevano postato su Facebook fotografie della città com’era una volta, in segno dell’affetto e della stima che tutti gli tributavano.

mercoledì 21 aprile 2021

Persone e cose di una volta

 

UN VIAGGIO NELLE VIE DI TARANTO

DAL BORGO ALLA CITTA’ VECCHIA


La parrocchia del “Sacro Cuore”,

le voci degli ambulanti scomparsi,

i personaggi, i luoghi, i mari Picce

e Granne, piazza Fontana, i vicoli:

“’na passiàte d’a mamòrie”

 

 


Franco Presicci

Da ragazzo frequentavo la parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, che aveva un’entrata secondaria in via Giusti, mentre la facciata era in via Giovan Giovine. Don Pietro, l’economo, mi preferiva nel compito di accompagnare i morti; e una volta mi tirò le orecchie perché avevo disobbedito alla sua raccomandazione di portare con me soltanto la Croce e non anche l’asta, che nelle altre occasione la sosteneva. L’avevo nascosta sotto la veste nera e la cotta bianca da chierichetto, estraendola all’avvio del corteo. 

La chiesa del Sacro Cuore

La croce sull’asta mi dava più visibilità. Eravamo, credo, nel ’43. Mi piaceva andare in parrocchia. V’incontravo gli esploratori, gli aspiranti, un gruppo di fedeli più grandi; giocavamo a ping-pong, facevamo le prove delle recite… E servivamo messa. A volte compariva “’nu ‘ndrascione” (ragazzo filiforme), “’na ‘ndicchie muccùse”, cioè col muco che gli colava, che non assisteva mai alle funzioni: palleggiava in un angolo del sagrato; per divertimento tirava a corda delle campane, che era subito dopo la porta di un corridoio che dal sagrato portava anch’esso alla sacrestia e inventava storie che raccontava a due fedeli zitelle, bassine, capelli innevati, carine, brave, simpatiche e ingenue, non interessate “a le zelamìende”, quale che fosse la fonte. Avevo più che il sospetto che “u uagnungìedde” facesse galoppare “’a fànfere” proprio per prendere in giro le due donne. Una sera don Giovanni, un santuomo, appreso che avevo la febbre e stavo a letto, venne a farmi visita. Un amico, cercandolo in chiesa, incontrò il burlone, e quello gli disse che era da me a darmi l’estrema unzione. Non reagii con gesti apotropaici nè affrontando il soggetto. Me ne potevo uscire con una battura, per esempio: “Stòch’angor’acquà”, ma decisi di lasciar perdere. Tutte le domeniche e qualche volta la sera veniva una persona in giacca e cravatta, riservata, solitaria, sempre con la testa in giù e – mi disse chi abitava vicino a lui -, con parecchi problemi in casa e fuori, una sorta di monsù Travet, il protagonista del film del ’45 di Mario Soldati con Carlo Campanini, Gino Cervi e Alberto Sordi, tratto da una commedia di Vittorio Bersezio. 

Filippo Alto
Beh, improvvisamente era stato visto vestito in modo dimesso mentre con un bastone dotato di una specie di chiodino all’estremità inferiore mentre raccoglieva “le mezzùne” delle sigarette. La fonte? Lui, “’’u berbànde”, che oggi vedrei fra i cinque amici del film di Mario Monicelli con Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin…, che facevano scherzi a volte anche crudeli. Neppure un cinquantenne basso e magro che marciava verso la merceria che stava all’angolo tra le vie Giovan Giovine e D’Alò Alfieri (non lo avevo mai visto in parrocchia), si salvò dai ghiribizzi “de ’stu malalènghe”. “Ma quìdde jè scritte ‘a cunghrèche de san Martine”, disse sottovoce a poca distanza da me. Ignoravo questa istituzione e, curioso com’ero, chiesi notizie in giro senza avere risposte. Alla fine un conoscente anzianotto, che aveva un negozio in via Mazzini, m’illuminò: “La moglie lo ha sostituito e così lui è entrato a far parte del sodalizio, nella realtà inesistente, che accoglie quelli che sono venuti a trovarsi nella stessa condizione. “E più non dimandare”. Al termine della cerimonia serale, deposi l’incensiere nell’armadio e mentre mi toglievo veste e cotta, raccontai ad un amico quest’altro chiacchiericcio. Don Franzoso, altra pasta d’uomo, colse al volo le mie parole e mi dette una lezione: “Se nel tuo cammino trovi un sasso aggiralo”. E mia madre, che la sapeva lunga: “Se pìgghie de pònde tutte le pètre, no t’acchie cchiune”. Da allora per me tutte le parole “de le dìcia-didìce” sono “farfùgghie”, quelle falde di legno che escono dalle feritoie delle pialle e volando si arricciano nei laboratori dei falegnami.

L'assucapànne
A proposito, ce n’era uno, “mèste Fiorènze, nell’androne del palazzo vicino al nostro. In un localino di fianco a lui lavorava “mest’Andonie”, un calzolaio con il deschetto, che mi è rimasto nel cuore, anche se burbero, lagnone e dispettoso. Non ci voleva attorno. Appena ci vedeva mettere sulla strada le pietre a mo’ di porta per il gioco con la palla di pezza, urlava. “Scè’ sciucàte a ‘n’òtra vànne. Acquà no ve vògghie, vacabònde!”. A volte urlava anche se le “’semenzelle” gli cadevano a terra; o se non trovava “a sùgghie”, uno degli attrezzi del suo mestiere. “Ce jè, Andò’, ssèmbe ‘nguiatàte stè’?”, gli domandava una brava donna, paciosa e sempre indaffarata per i suoi cinque figli, che abitava dirimpetto, sull’altro lato della strada. E lui brontolava: “Cum’a ciucculatère sus’u fuèche”, la macchina per il caffè, quando la bevanda arriva quasi all’orlo. Di gente che gridava allora ce n’era tanta, ma per motivi diversi.

Il poeta Alfredo Petrosillo
Per esempio, quelli che esercitavano un mestiere ambulante, come il calderaio; lo stagnigno; “’u conzagraste”; l’”ammuèlafuèrbece”, l’arrotino; “’u ‘mbagghiasègge”, il riparatore di sedie; “’u ‘mbrellàre” e quello che vendeva le pampanelle, quagliato che veniva consegnato avvolto nei pampini: si presentava alle 7 del mattino e cominciava il giro dall’angolo con via Dante della mia strada, all’epoca silenziosa e tranquilla, senza tutte quelle auto che la occupano oggi, riducendola a “’nu strìttele”. “Pampanè’, accattàteve le pampanèdde!”. E le massaie accorrevano, comperandone due, tre, quattro, tanto erano buone. Un paio di volte la settimana compariva “’u ‘nghiappacàne”. Appena lo vedevamo con il suo trabiccolo, se c’era nei dintorni una bestiola cercavamo di nasconderla, senza mai fare in tempo. Quello gli infilava la testa nel cappio e lo metteva nella gabbia. Allora noi battevamo le mani, per dirgli: “Bel coraggio hai avuto!”, e lui faceva il braccio ad ombrello. “’U conzalùme” e il venditore di petrolio a 12 soldi al litro non passavano più: era arrivata la luce elettrica e i lumi erano diventati soprammobili o oggetti da barattare “c’u pezzàre”. Che tempi, quelli! D’inverno si subiva un freddo cane e durante il giorno stavamo vicino al braciere; e chi non aveva il braciere usava un vecchio bacile. Ma bisognava stare attenti per evitare che la vicinanza esagerata allo scaldino poteva provocare “le jàmm’a sazìzze”.

Braciere
Prima di andare a dormire si sistemava sotto le coperte “’u scarfalìette”. Per volere di mia madre, non parlavo mai il dialetto, perché da lei e da tantissimi altri era considerato volgare. Quando i miei anni si sono moltiplicati, mi sono accorto di aver perduto un tesoro. E ho cercato di ritrovarlo. A stimolarmi fu un lontano parente che ogni tanto veniva a farci visita. Aveva fatto la terza elementare, era nato nella città vecchia, dove viveva, e diceva “schife” per barca, “’mbòte” per petto, “pezzetìdde” per piccola pizza; “pezzecarèdde” per bambina. Intuì che non capivo e mi chiese: “Ma tù’ sì’ de Tàrde o nòne?”. Se il vernacolo mi era quasi estraneo, non meritavo di dirmi tarantino. Lo diventati come “’na còzze ‘nguraddàte”, leggendo i poeti (splendide, fra le tante toccanti la poesia di Diego Marturano “’U relògge d’a chiàzze”; e quella di Alfredo Lucifero Petrosillo “’U travàgghie d’u màre”), la grammatica di Claudio De Cuia e tutti gli altri libri necessari, rimanendo incantato dai suoni, dalle armonie della parlata della mia città. E continuai anche quando venni al Nord per fare il mestiere che avevo sognato. 

Il cav. Antonio Mandese
Piero Mandrillo
Il detto “lontano dagli occhi lontano dal cuore” a me non si addice, non avendo mai voltato le spalle “al mio luogo dell’anima; anzi, all’età di ottant’anni, cioè sette anni fa, ho preso a scrivere, bene o male non so, filastrocche in vernacolo raccogliendone parte in un libro, in cui tra l’altro scorrono tanti personaggi da me conosciuti, da “ze’ Necole”, che passava con il carretto carico di frutta e verdura, a Catàvete, “ca vennèv’u gràtta-gràtte”, ridendo e sorridendo; a Marche Poll, Amedeo Orlolla, che faceva non so quanti chilometri al giorno, arrivando anche a Crispiano con qualche passaggio, proponendo “’U Panarjidde”, un periodico satirico pubblicato dalla tipografia Leggeri (sede di fronte a piazza coperta) e in alternativa la schedina del totocalcio.
E mentre scrivevo s’imponevano tanti autori di teatro (Bino Gargano, per esempio, Marturano, Majorano, lo stesso Petrosillo…), scrittori: Giacinto Peluso, professore di lingue straniere e autore di opere importanti; lo scultore Nicola Carrino, che prese parte anche alla Biennale di Venezia e restaurò la fontana dell’omonima piazza, nella città vecchia; Nicola Caputo, i cui libri sulla storia, le tradizioni, gli usi, i costumi, le feste…della Bimare sono letti e riletti; Piero Mandrillo, docente d’italiano, giornalista e saggista; Franco Sossi, direttore del periodico “Il Rostro” e consacrato critico d’arte, che aveva la stima di Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d’arte moderna di Roma.
E pensavo anche all’Oratorio dei Salesiani, davanti al quale si apriva uno spazio polveroso e accidentato che scendeva verso il mare, dove sulla scogliera catturavo i granchi. Un giorno, in una delle mie rimpatriate, domandai a un passante notizie di quel sentiero e la risposta mi colpì: “Stè’ sott’a quidde palàzze, addà”. Di Taranto, spesso mi vengono in mente i venditori ambulanti, le due fedeli del “Sacro Cuore”, le “cozzarùle indr’a le vàrche a Mare Picce”; la Fiera del Mare, il Premio Taranto e il Premio Rinascita, le ronde in via D’Aquino; il cavalier Antonio Mandese, papà di Nicola, titolari della “Casa del Libro” nella via dello struscio, oggi un salotto; l’onorevole Agilulfo Caramia, che abitava nel fungo di cemento che si erge maestoso sul lungomare; don Stefano Ragusa, di Martina Franca, che era parroco della chiesa di “Saneminghe”, da dove esce la Madonna il Giovedì Santo; l’amabile, generoso, eccezionale professor Alfonso Pesiri, direttore di una scuola per corrispondenza per marinai che si affacciava sul ponte girevole… E ricordo la volta che Mario Mazzarino, undici anni più di me, mi volle come protagonista in una commedia, “Il ribelle”, rappresentata nel teatrino della chiesa di San Francesco. Rividi Mario una sera di oltre una quarantina di anni fa nella casa di campagna di Filippo Alto, a Figazzano. E qui mi fermo, altrimenti il viaggio nel tempo non finirebbe più. Quando parlo della mia città, del mio dialetto, dei miei concittadini di una volta divago, mi dilungo, perdo il filo e mi commuovo.












mercoledì 14 aprile 2021

Conosce la storia dell’Atm e dintorni

Luigi Bazzani

LUIGI BAZZANI, OGGI IN PENSIONE

HA GUIDATO PER ANNI LA TALPA

In azienda ha fatto molte esperienze

prima di realizzare il sogno di conducente

di una vettura del metrò. Per lui ogni corsa

era una gioia. Adesso si fa una passeggiata

attorno allo stabile e non va più a vedere

i treni alla stazione di Greco con i nipoti

Bazzani in sala operativa

Franco Presicci 

Quando era ragazzo andava alla stazione del suo paesino, Buvolone, in provincia di Verona, una manciata di abitanti, e osservava i treni che andavano e venivano; e anche i passeggeri, che salivano o scendevano e il capostazione che con il berretto rosso in testa dava il fischio per la partenza. Molti convogli non si fermavano e passavano a velocità ridotta. Era incantato dal movimento e si domandava perché quella gente partisse e perché quell’altra arrivasse. E gli veniva voglia di fare domande a quelli, singoli o gruppi, che stavano in attesa di un parente o di un amico in ritardo. C’è parecchia gente che ama questi pellegrinaggi: il treno affascina, seduce, fa sognare.

Treno senza conducente

A lui, Luigi Bazzani, oggi residente a Milano, in zona Bicocca, interessavano anche i binari, gli scambi, le marmotte, i locomotori di servizio: tutto quello che apparteneva allo scalo. E immaginava di essere alla guida di una macchina che trainava tutti quei vagoni da un capo all’atro del Paese. All’epoca era ancora in servizio la “Caffettiera” o “Ciucculatera”, la locomotiva a vapore insomma, che correva ansimando emettendo nuvole di fumo. E lui, Luigi Bazzani, pensava anche di essere seduto in uno scompartimento vicino al finestrino e guardare gli alberi che corrono, le case, le cascine, le fabbriche, la campagna, i covoni, rulli di paglia sparsi sulla stoppia giallastra, soggetti per pittori come l’inglese John Constable, che nel 1821 dipinse il bellissimo quadro “Il carro di fieno”. Tornato a casa, Luigi, oggi ottantenne, si accontentava di dare la corda al trenino di latta che gli aveva regalato il nonno. Il tempo è volato e il sogno si è realizzato: la “Tartaruga”, la motrice elettrificata, costruita negli anni ’60 dalla Ercole Marelli per mettere sui binari treni più veloci, non l’ha mai guidata, ma la talpa, che sfreccia nel ventre di Milano, quella sì. E per diverse ore al giorno, per tantissimi anni.

Un treno
Entrato nell’Atm, nel ’73, divenne macchinista, dopo il concorso e il periodo di addestramento. Due anni dopo entrò in funzione il tronco della linea 1 del metrò, lungo 1315 metri, da piazzale Lotto al QT8. La ricorda molto bene, la storia della metropolitana, Bazzani: a cominciare dalla sera del 24 gennaio 1963, quando il cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano e futuro Paolo VI, nonostante il freddo cane, visitò la stazione Amendola-Fiera, alle 21, accompagnato dalle autorità, fra cui il sindaco di allora, Gino Cassinis, il presidente dell’Atm Ezio Vigorelli e l’ingegnere Pastorelli della Ercole Marelli. Il cardinale scese giù, entrò nella cabina di guida del treno, che, a grande velocità, partì verso la stazione Conciliazione. Il capocronista de “il Corriere della Sera”, Ferruccio Lanfranchi, dedicò ovviamente molto spazio all’avvenimento, come anche gli altri quotidiani. Bazzani mi mostra con soddisfazione una foto della vettura prototipo della linea 1, costruita dalle Officine Meccaniche di Milano, quindi la guarda con nostalgia. Non ha tanta voglia di parlare. Lo stuzzico e qualcosa racconta sul suo lavoro di macchinista sottotraccia.

La vetrata è chiusa, il treno parte
Ora è in pensione da tanto tempo e passa le giornate a leggere dalla prima all’ultima pagina il “Corsera”, e a fare qualche passeggiata con la moglie Luciana attorno allo stabile, “rivedendo” il tempo in cui correva in bicicletta fino al Parco Nord, l’area verde, il polmone, di Milano che comprende diversi comuni. A domanda risponde che tornerebbe volentieri in cabina. “Non puoi immaginare la gioia che ti dà quella talpa che al tuo comando parte, cambia velocità, si ferma, sgravandosi e ingoiando centinaia di persone, meneghini e non. Lasciò il paese per Milano nel ’62 e prese casa in via Padova, che allora era una zona tranquilla, piena di negozi, ben servita dai mezzi. “Mentre stavo concludendo il servizio militare a Monza, lessi su una locandina che l’Atm assumeva personale. Feci subito la domanda e a giugno ero già bigliettaio sulla linea E, che aveva una delle fermate in piazza Duomo (allora attorno alla Cattedrale si poteva circolare). Ricordo che passavamo vicino alla Baggina, dove salivano i vecchietti diretti al centro, e noi li aiutavamo a scendere e a salire”. Non ho mai sentito un bigliettaio salmodiare: “Signori, avanti c’è posto”, come Aldo Fabrizi nel famoso film del 1942 diretto da Paolo Bonnard, che accrebbe la popolarità del simpaticissimo attore romano anche oltre confine. 

L'insegna del metrò
Sono una valanga le domande che ho in mente, ma devo limitarle. Per esempio, sono curioso di sapere se anche allora ci fossero i portoghesi. “Non ce n’erano, di furbi: è stato il passare del tempo a generarli; al giorno d’oggi proliferano a dismisura. E quando sono sorpresi dai controllori, che salgono in tre, uno da ogni porta, s’inventano le scuse più banali: “Ce l’ho, mamma mia, dov’è finito?” e fruga nervosamente in tutte le tasche. Mi sarà caduto mentre salivo, mi creda”. E poi: “Eccolo!”, e mostra quello di un mese prima. ”Era il primo novembre del ’64, quando venne inaugurata la linea rossa, tratto Marelli – Lotto; e io entrai nell’Atm in veste di agente di stazione, quello che controlla i passeggeri, richiamandoli se superano la linea gialla; gli impianti della stazione (luci, scale mobili)…”. Un incarico delicato, di responsabilità.

Ancora in centrale operativa

 Poi, macchinista, dal ’73 all’85, capostazione e controllore. Infine in sala operativa. Ce n’erano due: una a San Babila e un’altra in via Monte Rosa. Bella carriera, Luigi. “Se lo dici tu”. Comunque, quando ha smesso la divisa ha lasciato un ottimo ricordo tra colleghi e dirigenti: Luigi Bazzani è persona rispettosa, cortese, sempre con un sorriso amabile e un’espressione rassicurante. Non demordo e gli chiedo se ha fatti particolari da riferire. Certo che lì ha. “Mentre guidavo vidi un tale, forse ubriaco, che faceva la pipì in galleria, con il rischio di essere travolto. Vidi anche uno di mezza età che si spogliava completamente urlando nel tronchino di manovra (il punto in cui il treno fa inversione di marcia dopo aver scaricato tutti i passeggeri al capolinea). Avvisai la centrale operativa e intervenne la polizia. E non ti dico la gente che arrivava dormendo alla fine della corsa e faceva fatica a svegliarsi”.

Il treno nel tunnel
E’ emozionante guidare un treno nel tunnel? “Molto”. Preoccupazioni? “Un po’. Nelle ore di punta si trasportano anche 1.500 persone e si pensa che ci può essere un guasto in galleria (il punto tra una stazione e l’altra); può accadere che vada via la corrente, creando il panico tra i passeggeri. Se il problema si prolunga, bisogna far evacuare attraverso la banchina di servizio, i viaggiatori, che devono raggiungere la prima stazione a piedi. Ci può anche essere un principio d’incendio con fumo”. Il lavoro com’era? “Per me anche divertente. E gratificante. In cabina mi sentivo responsabile, utile, importante. Io ero sulla linea 1, che percorre il centro. Andava da Sesto a Molino Dorino o Inganni (poi la tratta è stata prolungata). Qualche volta ho guidato anche la 2, e mi piaceva, perché a Cimiano procede in superficie; e avevo l’impressione di guidare un treno vero che fiancheggiava vari paesi e le campagne fino a Gorgonzola, poi fino a Gessate e l’altra diramazione, come ai miei tempi fino a Cologno.

Corre il metrò senza conducente
In cabina il conducente è da solo? “Sì, ma deve sempre tenere la mano sull’uomo morto, cioè il combinatore di marcia: Se lo lascia parte immediatamente un segnale alla centrale e il treno va in frenatura d’emergenza e si blocca, perché vuol dire che il macchinista sta male. Allora interviene uno dei macchinisti di scorta, che stanno presso i capistazione: uno a Sesto, uno a Pagano”. Se ti richiamassero, risponderesti all’appello?”. “Qualche anno fa si, rivedendo i regolamenti e imparando le innovazioni tecnologiche”. Oggi vai mai nelle stazioni, per esempio alla Centrale (per arrivarci bastano una ventina di minuti con la 42) ad ammirare i treni?”. Sono nonno e fino a qualche anno fa portavo i miei nipotini alla stazione di Greco, che è alla Bicocca, poco dopo l’università. Alla Centrale mi estasiavo nel guardare la “Michelangelo”, che stava nella galleria di fronte ai binari (bella come la vera regina del mare della Società Italia di navigazione). Lo dicevo ai nipotini, ma loro preferivano la Freccia Rossa, treno elegante, veloce come il vento, con quel muso che somiglia a quello di un segugio italiano, cane molto bravo nella caccia alla volpe. Era il 6 marzo 2011, quando parlai dell’argomento per la prima volta con Luigi Bazzani, quest’uomo buono, intelligente, spiritoso, disponibile, che ama i treni come li amo io. E quando ha voglia li guarda su un libro che al momento della pensione ha ricevuto in regalo.
 
 
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La Divina Commedia: INFERNO (Pier delle Vigne-13° Canto). Relatrice Silvia LADDOMADA

mercoledì 7 aprile 2021

LE BANDIERE DI SAN SEVERO

Franco Presicci

Zio Luigi
Difficile dimenticare gli anni trascorsi a San Severo, in un quartiere periferico, con una vietta che sfociava in quella principale, diretta, a destra, alla villa e a sinistra al liceo classico Matteo Tondi. Ero ospite in casa dei miei zii Luigi e Donatina, entrambi generosi e acuti, con una grande apertura verso chi poteva spiegare il significato degli avvenimenti più rilevanti, avendo potuto frequentare solo la terza elementare. Lo zio una lettera la scriveva, ma per il destinatario, che poi era mia madre, era difficoltoso interpretarla. Mio zio aveva una sessantina d’anni, un volto duro, rugoso, segnato dalle lunghe fatiche sui campi, i capelli bianchi e bruciati dal sole, bianchi pure i baffetti, gli occhi accesi e penetranti. La zia, piccolina, paziente, ma battagliera con misura, era innamorata degli animali: aveva una gallina, Palmira, e due cani, Nerone e Ruscitto. La prima zoppicava, era quasi cieca, ma faceva ancora le uova, depositandole in un recipiente di terracotta a forma di cono mozzato (a Taranto è “’u limme”). Lo zio la esortava a metterla in pentola, e lei gli ricordava che quando stavano male Palmira se ne accorgeva e scodellava ogni giorno un uovo che doveva tenerli in forza.

Ruscitto era più vecchio del bipede: cisposo, sempre accucciato in un angolo, rantolando. La zia lo proteggeva riconoscendogli il merito di aver tirato la bicicletta per venti chilometri al giorno da casa alla Zamarra (e ritorno), il nome della zona in cui Luigino aveva la terra concessa dall’ente riforma negli anni 50: mezza versura, che aveva dovuto dissodare con enorme sforzo per mettere a dimora le barbatelle. La bici era tirata da Nerone, che aveva sostituito Ruscitto, e marciava carica anche degli attrezzi sul manubrio e di Donatina seduta dietro. Quando tornavano, verso le 19, ci sedevamo a tavola, bordata di piatti di pasta con fagioli o lenticchie o ceci, o di brodo vegetale o di “fave e fogghie”, a volte seguite dalle rane che lo zio aveva catturato nella mattinata o dalle “ciambrachelle”, le lumachine che si raccoglievano sulle festuche, o dai lampascioni dissotterrati dallo stesso zio, già troppo anziano per i caporali che all’alba sceglievano i braccianti da portare al lavoro in campagna. Lo zio si rivolgeva a loro quando alla Zamarra non aveva impegni e non doveva andare a giornata da un padrone che lo conosceva. Poi loro andavano al forno di Nicolino, che aveva sposato la figlia, mia cugina Leletta, una ragazza molto dolce, di poche parole, buona, bassina, bella.

Nicolino era cacciatore e in un locale dietro al forno teneva i conigli: quando aveva voglia di metterne uno sul fuoco si appostava e acciuffava il primo che metteva la testa fuori dal buco scavato tra le fascine dalle stesse bestiole. Dalla caccia rientrava spesso con il carniere pieno; e organizzava una cena invitando amici e parenti, ai quali faceva gola la volpe. Ed era una festa tra “recchietèdde, vino buono, battute di spirito, brindisi, barzellette mai ardite, applausi.

Zii Luigi e Donatina

Verso le 23 gli zii tornavano a casa con una panciuta ruota di pane che diffondeva profumo su tutto il tragitto. Zia Donatina, come tutte le donne del quartiere, che mi chiamavano “’mbà Franchine” o “srudè”, credeva a fatture, ectoplasmi e altre cose del genere. Una mattina mi svegliai con il mal di testa, e non dissi nulla perché soprattutto lei si sarebbe preoccupata. Ma siccome aveva un intuito fortissimo mi domandò che cosa avessi. Saputo il motivo, sentenziò: “’A fascine, Sande Martine”, il santo che veniva invocato, a mo’ di scongiuro, dopo il buongiorno, ogni volta che si metteva piede in una casa o si faceva un complimento a qualcuno. E da esperta prese un piatto, lo riempì d’acqua, vi versò due gocce d’olio, che rimasero compatte come occhi inquietanti: la prova della “fascina” che mi aveva colpito, e recitò delle frasi con il solo movimento delle labbra. ”’Na criature, incontrandoti, ha detto: ‘Quant’è bello! Vedrai che in tre giorni starai bene: tre giorni, perché con l’emicrania hai dormito”. Avrei voluto consultarmi con padre Matteo, un frate cappuccino dalla cultura immensa, che andavo spesso a visitare in convento, nella sua cella con la finestra che si apriva sulla villa e lasciava entrare gli urli dei bambini che si rincorrevano.

Qualche mese dopo, dell’emicrania rimase vittima mio cugino Michele, che era davvero un bel ragazzo, allegro, spiritoso, conquistatore. Zia Donatina avviò il procedimento di rito, ottenendo il risultato desiderato. Due coincidenze non fanno una prova, pensai. Ma tacqui per non far dispiacere a quella santa donna, che mi voleva un bene grande, tanto che se uno si permetteva di dire una parola poco gradevole su di me allora, sì, che eruttava l’Etna (senza far danni). Oggi, ricordandola, ho l’impressione che per lei fossi una specie di mito. Credendomi impermeabile a certi racconti, mi descriveva un fantasma che ogni tanto l’aveva infastidita.

Zio Luigi
Era il tardo pomeriggio di una domenica, quando, seduti sul piccolo balcone di casa, in via Venere 2,informandomi sulla storia della famiglia deviò: “La notte si metteva ai piedi del letto e mentre Luigi russava lui mi chiamava, sottovoce. Io non avevo paura e stavo zitto per non svegliare tuo zio. Lo supplicavo, premendo l’indice sul naso, di sparire e quello rimaneva lì a fare il buffone. Poi si trasformava in una specie di filo di nuvola e si dileguava”. Ma chi? Di chi stai parlando? “Di Vincenzo, diventato spirito perché morto in un incidente stradale. Una sera turnamme da ‘u furne de Necoline e Lelette, Luigino salì per primo e io stavo ancora sulla soglia del soprano, quando Vincenzo tentò di strapparmi il pane dalle mani; io gli imposi di smetterla: ‘Che te ne fai della pagnotta? I fantasmi non mangiano’”. Lo zio sentì e le domandò che cosa stesse succedendo. “Niente, Luì’, è Vincenzo ca tène ‘a capa freske”.

L’avevo sentita tante volte parlare di questo fantasma burlone, che cominciai ad averne paura. Una sera ero solo in casa a studiare e sentii un passo pesante sulle scale. “Chi è?” – chiesi ripetutamente fino ad urlare -, e non avevo risposta; mentre il passo procedeva. Allora afferrai una pertica, di quelle che bacchiano le ciliege, e mi preparai all’attacco; e quando la tenda si gonfiò ebbi l’impulso di sferrare il colpo, ma apparve la testa di uno che conoscevo, sordo come una campana, che cercava lo zio. Abbassai l’arma, da utilizzare eventualmente solo per sgomentare l’altro.

La sera di un Capodanno, credo del ’53, andai a letto presto con un po’ di malinconia; e quando smisero di crepitare e tuonare i fuochi di artificio avvertii un rumore quasi impercettibile sotto il letto. Pensai a Vincenzo e la paura m’irrigidì. E così rimasi per un bel po’, resistendo ai pruriti che si spargevano dall’alluce alla pancia, quasi a volermi costringere a rivelare la mia presenza al fantasma: perché chi poteva essere se non lui? Improvvisamente mi feci coraggio, sollevai la coperta e, sorpresa, vidi Palmira accomodata “indr’u lìmme”. Mi alzai, presi ancora il bastone, pronto a compiere un gesto inconsulto. Ma arrivò Ninuccio, un altro dei miei sette cugini, che mi fermò il braccio. “Faccio io”. Ma scoppiammo in una risata e Palmira corse con andatura ballerina verso lo sgabuzzino (né io né lui avremmo avuto l’audacia di farle fare la fine di Maria Antonietta di Francia, sposa di Luigi XVI).

Ninuccio aveva trent’anni, dieci più di me; ed era un bonaccione. Di ammogliarsi non ne voleva sapere: in ogni donna che gli veniva indicata trovava un difetto: una troppo magra, un’altra troppo grassa, un’altra ancora aveva gli occhi da pesce morto, la quarta i denti da cavallo. “Devi mettere su casa”, cantilenava papà Nicola, il padre di zia Donatina, che aveva lavorato per una vita trasportando botti senza contributi. E a 80 anni vendeva a domicilio l’acqua che succhiava dalla fontanella di uno spiazzo vicino 200 metri. Un viaggio, 10 lire. Ogni volta litigava con sua figlia sul numero dei trasporti; e poi si mettevano d’accordo.

Un pomeriggio di freddo e di neve Papà Nicola ci trovò tutti attorno al braciere con la pedana; e tra una fumata e l’altra mi pregò di scrivere al governo perché si decidesse a dargli la sospirata pensione. “A te risponderà, sei istruito e hai voce in capitolo: ie so’ pèchere”. Antonio, per scherzare, lo provocò: “Papà Necò’, che pensione ti devono dare se non hai mai lavorato?”. Il vecchietto, alto e asciutto, la faccia copiata da Thomas Milian, depose la pipa con il cannello di canna ricurvo e lo ragguagliò: “Io ho fatto “’u carreamandegna “pe’ tand’anne”, ho anche combattuto su cima 11 e cima 12 e mò faccio l’acquaiolo…”. Antonio replicò, ma il duello fu interrotto dall’arrivo di mbà’ Cicce, sosia di Bernard Blier, un pastore che a volte aveva problemi per qualche pecora anarchica che, disubbidendo ai suoi ordini, entrava nei fondi altrui brucando le foglie degli ulivi. L’uomo ventilò una frase del poeta latino Publio Ovidio Nasone; e siccome aveva scritto dei versi con evidenti orme carducciane, me li dette da leggere. Lo accontentai, mentre Antonio e papà Nicola riprendevano la schermaglia.

Li invitai al silenzio e dissi a papà Nicola: “Credimi, io non conto niente; se mando una lettera al capo del governo, o si perde in qualche ufficio sotto montagne di corrispondenza o finisce subito nel cestino. Per dimostrarti che ti voglio bene al massimo ti posso radere la barba e potarti i capelli”. “Allore tu sì’ varvìere, studè. Quande mestìere face?”’ – sbottò. Tacqui. Il giorno dopo si ripresentò e occupò una poltroncina con i braccioli monchi. Presi forbici, rasoio, sapone e pennello e mi misi all’opera. Sbagliai il taglio della chioma e Antonia venne a protestare: “C’ha fatte? Mariteme mo’ pare ‘nu sacrestane”, gridò da giù. “Perché i sacrestani so’ brutti?”, le risposi; e lei si ritirò borbottando.

Ogni venerdì un conoscente che aveva un pollice diviso in due, invitava una decina di giovani abitanti di quell’agglomerato di case basse, dalle facciate screpolate, i pavimenti con le bretelle allentate (almeno così erano i nostri, forse risalenti a prima della costruzione dell’Episcopio, nel 1633… scherzo), in un groviglio di vie strette e corte, illuminate come ai tempi del lume a petrolio, smontava il letto e metteva in moto il giradischi. In una di queste occasioni ebbi l’idea di portare con me papà Nicola, che più volte pretese di mettere sul piatto una mazurka o un valzer, mentre noi preferivamo il ballo della mattonella. Gli altri giorni eravamo piacevolmente inondati da “Buongiorno tristezza”, vincitrice nel ’55 del Festival di Sanremo cantata da Claudio Villa e Tullio Pane. Il testo era tratto dall’omonimo romanzo di Francoise Sagan.

All’epoca frequentavo l’oratorio dei salesiani e, durante una passeggiata, il parroco, don Stanco, mi affidò la creazione di una filodrammatica, visto che disponeva di un piccolo teatro. L’idea mi piacque; e, avendo acquisito qualche nozione grazie a don Lasorella ai salesiani di Taranto, m’impegnai nelle prove di una commedia che prevedeva la presenza di un vecchio che non doveva dire una parola, standosene seduto a un tavolino con un bicchiere e una bottiglia di vino. Per me l’uomo giusto per questo personaggio era papà Nicola e lo coinvolsi. Senonchè, poco prima della conclusione dell’ultimo atto, urlò: “Ma qua il vino è finito, io me ne vado”. Alzò i tacchi e uscì di scena. Il pubblico credette che la battuta facesse parte del copione e applaudì.

Città di San Severo-Sede Municipale

Per me gli anni di Sanzevire, tra l’altro città d’arte, capitale del vino, dotata di edifici storici dall’architettura leggiadra, con gente bravissima e lavoratrice, furono felici. Avevo molti amici; al liceo professori preparatissimi, fra cui Nino Casiglio, che scriveva libri, uno pubblicato da Rusconi, De Rogatis, De Gennaro, Maggi… Il preside, Mancini, era severo, ma per me aveva tolleranza e simpatia, tanto che quando al Teatro Comunale, dove si erano esibiti Giacomo Rondinella, Guglielmo Inglese e varie compagnie importanti, allestii con alcuni compagni di scuola una recita, “Mister Brandi”, autore il professor La Pietra, lui era in prima fila. Ero simpatico anche al preside dell’Istituto Magistrale, Ceci, che il sabato mi metteva a disposizione un’aula, per dar modo a studenti volenterosi e preparati di confrontarsi su temi del giorno e non solo. Feci anche un giornale, ma qualche giorno prima dell’uscita tolsi la mia firma di direttore, perché i collaboratori si erano intestarditi a pubblicare un fondo che non aveva a che fare con lo spirito del foglio.

La domenica prima delle Palme, su incarico del professore di religione, don Giuseppe Stoico, che era anche rettore del Seminario, in tutte le chiese, nelle ore di punta, feci un discorso su “Cultura e potere” di un quarto d’ora per celebrare l’Università Cattolica. All’ultimo, nella Collegiata, alle 18, assistette il vescovo Orlando.

Studiavo e leggevo molto. Quando nel ’55 uscì il libro “Baroni e contadini” di Giovanni Russo, lo divorai, colpito soprattutto dal capitolo sulle “Bandiere di San Severo”, che “indicano le cantine dove il paese custodisce la sua ricchezza, quel vino che vengono a caricare sulle grosse autobotti le ditte piemontesi che lo trasformano in vino di lusso e di esportazione. San Severo è infatti uno dei maggiori centri produttori di vino della Puglia”.

Nicola Quatela
Verso le 20 andavo in piazza, dove si aprivano l’edicola, il cui proprietario, credo si chiamasse Milone, mandava notizie sulla città alla Rai; e il cinema Patruno, dove vidi “Totò sceicco” e “Bellezze al bagno”. In piazza incontravo sempre amici o compagni di scuola, con i quali imboccavo la via che scendeva verso quella dello struscio, a quell’ora sempre affollata di persone sedute al bar o intente a fare la ronda o dirette al cinema “Excelsior”, di fianco al convento dei cappuccini.

Tra gli amici, Palmuccia e Tommaso, ottantenne lui, che abitavano nel sottano di fianco a quello di Nannina, sorella di mia zia (quasi sotto di noi), e quando passavo davanti alla loro porta mi bloccavano: “’Mbà Franchì’, salipce so, volete favorire?”. Oppure: “Guarde ce bedde ‘sti ciambracùne , racculte da me”. Entrambe le pietanze mi adescavano e qualche volta accettavo, più volentieri quando le monacelle affogavano nel sugo. Un giorno di Pasqua fui invitato a pranzo da un lontano parente che mi voleva come aiuto di suo figlio, liceale in difficoltà con la grammatica greca. E mi fece gustare l’agnello con i piselli preparato dalla moglie e la “scarcella”, ciambella costellata di coriandoli di zucchero e pennellata con tuorlo d’uovo anche sulle “sbarre” di pasta che imprigionavano due cocchi.

Mi capita spesso di pensare a San Severo, ai miei zii, ai miei cugini, dei quali è rimasto soltanto Zarino, il più piccolo, che vive in Francia; a Tonino Vassallo, che studiava con me e che per anni ho cercato invano; a padre Matteo, che mi somministrava consigli che ancora oggi tengo a mente; ai ragazzi che giocavano sulla strada al Tarantino, che si faceva lanciando ognuno una moneta di metallo verso un muro (vinceva chi si avvicinava di più alla mèta, acquisendo il diritto di prendersi tutte le altre); all’uomo con il carrettino che vendeva i fichidindia, 10 una lira, aperte al momento e da mangiare sul posto; al gatto estraneo alla famiglia che saltò sulla “scrivania” che lo zio mi aveva fatto fare da un suo amico con le tavole ricavate da alcune cassette per la frutta, e mi graffiò un paio di libri di scuola appena acquistati con i soldi mandatimi da mia madre. E gioisco per la notizia di questi giorni della cittadinanza onoraria che San Marco in Lamis ha dato al mio amico Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica.

A proposito, mio zio si chiamava Quatela; aveva smarrito la sorella, Angela, mia madre, durante il terremoto di Messina del 1908 e l’aveva ritrovata 40 anni dopo, grazie ad un reduce di guerra, per combinazione lontano parente di Taranto.

Saluto dunque con amore, San Severo, che non rivedo da tantissimi anni. Ma di questo paese che mi accolse con affetto ricevo tante informazioni, foto e video (li più recente sulla festa “d’a Madonne d’u Succurse”) da un altro Quatela, mio cugino Nicola, che faceva l’antiquario, è sposato e ha una bellissima nipotina.

FESTA DEL SOCCORSO

(Festa “d’a Madonne d’u Succurse”)



 VIDEO REALIZZATO DALL'ASSOCIAZIONE SAN SEVERO TERRA DEI FUOCHI

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La Divina Commedia: INFERNO (Ciacco-6° Canto/ Farinata-10° Canto) di Silvia LADDOMADA