Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 27 marzo 2019

In mezzo a un verde ben pettinato


Porta con una sua casetta
FRANCESCO PORTA COSTRUISCE

CASE DI LEGNO PER GLI UCCELLI.


Abita a Castiglione d’Intelvi, sulle
colline del Comasco. Realizza volpi,
cinghiali, cervi, lumache, pipe usate
un tempo nella zona; falcetti che
servivano ai contrabbandieri per
liberarsi delle bricolle alla vista delle
“fiamme gialle”.









Franco Presicci

Molti uccelli non hanno alloggio, e d’inverno non sanno dove ripararsi dal freddo, dalla pioggia, dalla neve. A Castiglione d‘Intelvi - un paesino sulle colline di Como, riposante, tranquillo, poche anime e una chiesetta con un bel campanile, un’ora e mezza da Milano - ci pensa Francesco Porta, 83 anni, ex autista di pullman, radicato in quest’oasi di pace per amore della moglie Mariuccia, ma nato a Lanzo, luogo ameno che festeggia la Madonna Nera ed è ritratto da Antonio Fogazzaro nelle pagine del “Mistero del Poeta”.
Case sotto il monte
Lo si attraversa andando alla Sighignola, il balcone d’Italia, al confine con la Svizzera. Nel suo laboratorio pieno di attrezzi e di oggetti desueti, tra cui una caldaia appena regalatagli da un’amica, Francesco costruisce casette rifinite in ogni dettaglio: il comignolo, la staccionata con il cancelletto, le finestre con posatoio, fregi sulla facciata, il beccatoio, il pluviale e ogni altro elemento che rende bella l’opera, eseguita con pazienza e passione. ”Gli uccellini qui dentro dormono, fanno il nido, svezzano i piccoli…”, spiega Francesco, e sorride mentre mi congratulo con lui. “Queste creature hanno anche loro diritto ad avere ogni ‘confort”, puntualizza. E non si limita a venire incontro alle loro esigenze: scolpisce in legno (frassino, nocciolo, faggio) lumache, cinghiali, volpi, cervi, daini, pipe di fattura particolare… di cui gli anziani hanno forse soltanto memoria. 
Il cinghiale
“L’hobby si è rivelato 30 anni fa e l’ho iniziato realizzando giochi di una volta, pestelli piccolissimi, topini (‘murtèe’, nel nostro dialetto’)… “, a cui Mariuccia ha riservato un posto d’onore: la mensola del camino, in cucina, dove ci ha fatto sedere, con cordiale ospitalità. Il “serraglio”… inanimato popola gli scaffali in ferro nell’officina, dove signoreggia, su un ripiano a parte, una civetta, che al comando di Francesco agita le ali. “Dovevano buttarla via, io l’ho recuperata, rimessa a nuovo ed ora è lì a fare la sua figura”. Non si vanta di questa sua produzione, che non ha mai commercializzato. “Non chiedo soldi; e, se qualcuno insiste per pagare, rimpolpo il gruzzolo che mando in Uganda per beneficenza”. Solidarietà da seguire. Ma è un argomento da evitare: Mariuccia è fedele ai versi della “Pentecoste” manzoniana: “Doni con volto amico, con quel tacer pudico che accetto il don ti fa”. Non ammette deroghe, neppure per il giornalista curioso e impiccione. Francesco è d’accordo. Me lo confida con voce bassa e calma francescana. “Fuori ho visto delle gabbie, Francesco, a che cosa servono?”. Torniamo all’aperto. “Quella è una voliera, che ho fatto per le gazze. Adesso è deserta. Quello sulla destra è il ricovero dei conigli, che vi passano la notte e quando il cielo s’imbroncia.
Il pavone con la ruota
Di solito sgambettano o si rincorrono attorno a Luigi”, il pavone che fa una ruota spettacolare. Francesco gli chiede di girarsi e di aprire a ventaglio il piumaggio, che cambia colore, e Luigi obbedisce, offrendosi al mio obiettivo come un attore della tivù. Il padrone gioisce; I roditori l’osservano e poi riprendono avidamente a mangiare l’erba. Non si lasciano avvicinare dagli estranei; si lasciano convincere da frammenti di pane. Che pace! La taglia il rumore della motosega che sta facendo i ciocchi a pezzi per il camino. Domando spiegazioni su una serie di falcetti conficcati in una base di legno. “Sono una sorta di coltelli: i contrabbandieri, che trasportavano merce attraverso i valichi alpini, se ne servivano per tranciare gli spallacci abbandonando le bricolle in vimini o in tela alla vista dei finanzieri. Nella zona gli spalloni erano molti, e dovevano ben guardarsi dalle ‘Fiamme Gialle’ accasermate a una certa distanza l’una dall’altra.
Falcetti
I falcetti venivano adoperati anche dai contadini per recidere corde, rametti, quant’altro”. “Faticavano tanto, i contadini – interviene Mariuccia, non per correggere il marito, bensì per integrare la narrazione e contestualizzarla, mentre prepara il caffè – “Nei primi del ‘900 le feste delle Madonne si celebravano nei mesi invernali, quando gli uomini, che lavoravano in Svizzera, rientravano in famiglia. Allora, in assenza dei mariti, le donne nei campi facevano tutto quello che c’era da fare: zappavano, aravano, seminavano il granturco, raccoglievano le castagne, che erano cibo per le persone e per gli animali (ogni famiglia aveva polli, mucche, conigli…). Per ogni castagno si pagava una tassa comunale. Mio padre, scavando un fosso profondo 1 metro e lungo 340 dalla provinciale, portò l’acqua fino alla nostra abitazione”. Mariuccia snocciola notizie a spizzichi e bocconi: “Quelli che rimanevano a piegare la schiena nei campi a Castiglione (‘Castion’ in vernacolo, patrono Santo Stefano: n.d.a.) sfruttavano i boschi. I taglialegna salivano da Argegno”; e furono protagonisti anche di qualche leggenda. Come quella del lupo con gli occhi dalla luce sinistra che forava il buio e si scoprì che erano buchi in un tronco fradicio. Mariuccia, cortese, intelligente, determinata, figlia di contadini, parla per esperienza personale. E lo fa con proprietà di linguaggio senza assumere l’aria di chi sta in cattedra. Ha lavorato per 30 anni come impiegata nella clinica di Lanzo. E’ precisa, sintetica, chiara. La sollecito e lei non si tira indietro. E’ evidente che apprezza l’hobby del marito e lo descrive con sapienza.
Il museo
Poi intuisce il mio intento di conoscere brani di storia di Castiglione, come del resto quella di tutta la Val d’Intelvi, e mi indica il museo etnografico della civiltà contadina delle arti e dei mestieri, inaugurato il 5 novembre del 1995 nel vicino borgo di Casasco; e tira fuori da una pila di libri un nutrito catalogo di questa interessante istituzione, che contiene anche foto e piante geografiche della zona. Lo sfoglio: è un libretto prezioso. Vi si susseguono la ricostruzione di una camera da letto risalente all’alba del ‘900; una cassapanca e una culla in noce antico; l’abito di uno spallone, categoria ormai scomparsa; una radio degli anni ’30; una nevera; un’uniforme del regio esercito italiano di epoca umbertina; il percorso della memoria del Sasso Cadorna, reperti della Prima Guerra Mondiale… Testimonianze custodite in un fabbricato rurale che conserva l’architettura originale. Il discorso quindi prende tutt’altra piega. Francesco se ne sta in silenzio, attento alle parole di Mariuccia che per vezzo chiama mamma. “Qui di fianco c’è il campeggio, che prima era nostro.

Porta con giochi antichi


Lo abbiamo ceduto da poco. Fino a qualche anno fa ci veniva la scrittrice Vivianne Lamarque, affabile, simpatica, disponibile, che amava ascoltare”. Affascinata dai racconti che le faceva Mariuccia. “Spesso mi ha esortato a mettere nero su bianco i miei ricordi. Mi dette anche un quaderno raccomandandomi di riempirlo. Non l’ho più vista. L’avrei voluta accontentare, ma il tempo era avaro e dovevo pensare al lavoro, alla figlia, al marito, alla casa”. Quando arriva il momento di salutare mi dispiace, ma per ora ho immagazzinato una buona dose di informazioni. Mi soffermo sulla soglia della palazzina: il paesaggio m’inebria. Guardo le case sotto il monte di fronte; la terra di Francesco, sinuosa, ben modellata. Adocchio un cervo, forse di latta, che signoreggia su un poggio. “Anche quello doveva essere rottamato, io l’ho recuperato e messo su quella gobba”. Ha l’atteggiamento del soldato di guardia nella garitta. Prima di andare, ancora una visita agli animaletti di legno. Francesco aziona il tornio per mostrarmi come dalle sue mani nasce un cinghiale, levigato come il marmo, come gli altri in posa non aggressiva. Quanti animali possiede? Di quelli in carne ed ossa, intendo. “Due pecore, mamma e figlia; otto conigli, tutti arzilli; una decina di galline scatenate; il pavone. 
Porta tra le galline
Le galline mi saltano addosso, mi fanno il girotondo mentre sono disteso sulla sdraio nei pomeriggi di sole… Io le accarezzo, faccio loro le coccole, le chiamo per nome. Anche i conigli ne hanno uno… Dico: ‘Non allontanatevi, loro drizzano le orecchie e mirano alla scodella. Io parlo con le mie bestiole”. Come mai non ne ha riprodotta una per il suo zoo di legno? “E’ un caso, soltanto un caso… Ma no, se vede bene, c’è un gallo”. La popolazione è così fitta che il “play-boy” del pollaio mi era sfuggito. Mi rimetto in auto, raggiungo la via Case Sparse, che ho percorso un paio di ore prima scortato da Francesco. Incontro tre o quattro auto appena, forse perché è sabato. Mi dirigo verso casa, a Laino, una località deliziosa di 300 abitanti, che d’estate con l’arrivo dei turisti diventano 3000. Mi propongo di consultare meglio il catalogo del Museo, magistralmente curato da Chiara Boldorini e Alfredo Zecchini, entrambi nati a Milano e appassionati di storia, la prima laureata in Scienze filosofiche, il secondo prevalentemente impegnato in campo industriale; e ripenso alle storie di Mariuccia di oltre un secolo fa e alla sua rappresentazione della Val d’Intelvi, “da sempre terra di contadini, costruttori e artisti”, abili soprattutto nel lavorare la pietra, caratteristica che li ha resi famosi, come “picapreda”, anche in Europa, oltre che nel resto d’Italia. Avevo incontrato Francesco nel negozio di ferramenta di San Fedele. Ricordando che cercavo qualcuno di quelli che fanno casette per gli uccelli, “Eccone uno”: la voce di Rodolfo Patriarca, il titolare, che ha un diploma di perito industriale, un carattere gioviale ed è prodigo di suggerimenti per chi come me non ha molta dimestichezza con l’uso degli attrezzi di cui ha bisogno. Cercavo un artigiano e ho trovato un artista.






mercoledì 20 marzo 2019

Gli orologi di Jader Barracca


Jader Barracca
UNA COLLEZIONE PREZIOSA

CURATA CON VERO AMORE



Abruzzese, titolare a Milano
di due ristoranti, amava la
pesca subacquea. Conservava
oggetti di una volta, tra cui un
braciere che usavano i nonni
della sua terra. Era figlio di un
maresciallo dei carabinieri. Lo
incontrai nel 1972.









Franco Presicci
Già covavo un notevole interesse per gli orologi quando visitai il Museo Poldi Pezzoli, a Milano. Accompagnato dalla direttrice, ammirai i pezzi più belli, tra cui quelli donati qualche anno prima da Bruno Falk. Ricordo la sfera armillare del 1568 e gli smaltati settecenteschi… Prima di quel giorno avevo incontrato collezionisti di figurine, ricordi di viaggio, ex libris, segnapagine, distintivi, bambole, bottoni, tarocchi e cavatappi… E sognavo il Museo di La Chaux-de-Fonds, la cui inaugurazione risale al 1865, e il Museo svizzero, di cui a suo tempo mi aveva informato un grande esperto di circo e di raccolte prestigiose pubbliche e private, Massimo Alberini, che scriveva sul “Corriere della Sera”.

Osvaldo Menegazzi nel suo negozio
Uscendo dalla sua abitazione, mi rimase in mente il “notturno” con la sua scena di Armida tra i pastori, del 1630, conservato, in quel tempio di gioielli. E fui felice quando, nel giugno del 1972, prima Osvaldo Menegazzi, autore di tarocchi stimato anche da Kaplan – esperto mondiale del ramo - e poi Giuseppe Rossicone, ceramista di Scanno trapiantato a Milano da cinquant’anni e vincitore del premio di Gualdo Tadino, mi promisero di farmi conoscere Jader Barracca, abruzzese, titolare dell’”Osteria del Vecchio Canneto” e della “Taverna del Gran Sasso”, l’una e l’altra a quattro passi da piazza della Repubblica e dall’”Hotel Principe e Savoia”. Felice perché Barracca non era soltanto un ottimo ristoratore e un appassionato di pesca subacquea, ma anche un collezionista di orologi, quindi il personaggio ideale per le interviste che andavo pubblicando sul “Giornale del Mezzogiorno”, diretto da Paolo Cavallina, noto per la sua conduzione del programma Rai “Chiamate Roma 31 31”. Barracca mi invitò a cena al “Canneto”, dove il cameriere mise il bavaglino a me, a mia moglie e agli altri ospiti (una ventina, tra cui la consorte, il figlio, la cognata, Menegazzi e signora…), comunicandoci il menù, a base di pesce. Il primo piatto, spaghetti alla chitarra.
Jader Barracca (1°a sx. l'autore di tarocchi Menegazzi)
Per salutare la compagnia alzò il calice e tutti si aspettavano un discorso; invece si limitò a regalare un sorriso e una parola: “Grazie”. Quando si rimise a sedere, gli chiesi notizie dell’orologio a campanile che campeggiava all’ingresso del locale, ricevendo questa risposta, in modo cortese: “Adesso godiamoci la tavolata, poi andiamo ad ammirare i miei tesori, che per l’occasione ho prelevato dalla banca…. Ci ripensò. ”E’ un orologio fatto per una villa sulla Costa Azzurra nel 1850, unico esemplare per un tale che lo teneva in un salone, con un sistema di bacchette snodate, che andavano fino alla “torre”, sistemata al piano superiore attraverso un buco nel pavimento, con le campane che battevano le ore. A differenza dei suoi ‘parenti’, che sono grezzi perché solo funzionali e non costruiti per essere visti, questo è rifinito in ogni particolare ed è fatto come un orologio da tasca, ha lo scappamento su rubini, la forza costante, un pendolo compensato, snodato, ecc.”. I convitati invocarono la sua attenzione, e lui si concesse parlando di un pesce da lui pescato in Sardegna, così grosso, che per mostrarlo in posizione verticale dovette salire su un tavolo.

Osvaldo Menegazzi
Barracca mentre suona
Lo trovai simpatico, comunicativo, l’occhio svelto, la barbetta, la prontezza del cavallo di razza al segnale dello ‘starter’, ricco di idee e di iniziative. Gli rivelai il mio desiderio di trascorrere una notte in mare con i pescatori e mi assicurò che potevo considerarmi già su una barca. Aveva amici anche in quel campo. Era legatissimo alla sua terra. In un angolo del “Canneto” aveva bracieri con cui si scaldavano i nonni in Abruzzo (erano usati anche in Puglia, mancando i sistemi di riscaldamento di oggi, da tutta la famiglia), conchiglie giganti e tante altre cose. Terminata la cena, si avviò verso la sua abitazione, nel centro della città, seguito da me e da mia moglie; ci fece accomodare in cucina (un salone), tutta in rame; ci offrì un whisky e cominciò ad aprire le valigie piene di esemplari stupendi. “Questo è un orologio moderno”: splendido, scendeva su un piano inclinato lungo una settantina di centimetri. Per andare da un’estremità all’altra impiegava due giorni. Poi tirò fuori un anello, dove un orologio in miniatura era nascosto sotto una “pietra” (almeno così ricordo). Parlò per ore, inoltrandomi in una selva di rubini, spirali, bilancieri, castelli, ruote-cannone, calotte, chiavistelli, fusti… Dei suoi orologi conosceva, oltre alla storia, le particolarità tecniche. Raccontava senza enfasi, mentre l’argomento mi catturava senza farmi pensare alle ore che scorrevano. “Sono passato attraverso varie fasi: prima preferivo l’orologio di una certa forma estetica; poi mi sono rivolto a quello antico; infine, mi sono lasciato prendere dalla tecnica, dalla macchina, dallo scappamento. Prima d’incontrarlo, avevo avuto notizie della sua biografia. Lui la integrò spesso senza attendere le mie domande. Testa dura come la bicornia, dinamico, affabile, impastato del calcare del Gran Sasso, era partito per la conquista del camice bianco del chimico industriale e si infilò la giacca bianca del cameriere. Figlio di un maresciallo dei carabinieri, si era diplomato al liceo scientifico e iscritto all’università per maneggiare alambicchi, alcalimetri, becchi di Bunsen serpentini e imparentarsi con i protossidi.

Rossicone e Pomodoro
Un amico ristoratore lo fece dirottare, chiedendogli di dargli una mano nel proprio locale, dove si dovevano incolonnare delle sfere; ma lui capì che se voleva racimolare qualche lira in più doveva prestarsi a servire gli avventori, che pagavano 350 lire a pasto, tutto compreso. “La prima sera si sentivo avvampare, ma dopo una decina di giorni superai l’imbarazzo”. Ben presto diventò una colonna. Vent’anni, universitario, faceva lo “slalom” fra i tavoli, ma anche altro: il lavapiatti, il cuoco, il direttore. Diventò un apprezzato “gourmet”, tenendo d’occhio il portone dell’ateneo. “L’amico mi offrì la partecipazione agli utili; ma gli odori degli arrosti erano ormai come il canto delle sirene. Lasciai l’amico e me ne andai per conto mio”. Il maresciallo dell’Arma aveva restituito le chiavi della caserma e Jader lo fece venire a Milano. Sottrasse anche un fratello al rango di ufficiale dell’esercito, allargando così la sua organizzazione, alla quale si aggiunse una bellissima fanciulla che, innamorata di lui, lasciò il pianoforte per seguirlo nei suoi ristoranti e all’altare. Il suo prestigio lievitò, e la notorietà anche. Raccolse frutti a “Italia 61”, a Torino. Nell’ambito della mostra delle regioni, alla celebrazione dell’unità d’Italia, furono organizzati dei ristoranti, la cui gestione venne affidata a lui; rilevò un locale di piazza Cavour nel grattacielo svizzero.
Barracca nel suo ristorante
Nella “Guida d’Italia piacevole” Luigi Veronelli espresse questo giudizio: “L’oste Barracca sa il fatto suo, punta sul folklore d’Abruzzo: pesce al ‘Canneto’, carni alla ‘Taverna’, e ha successo, meritato da che ha cura nei rifornimenti e attenzione alle cucine”, assaporate anche da Gronchi, Segni, Moro, giornalisti come Gianni Brera, e tante altre personalità, i cui nomi venivano vergati sullo schienale delle sedie”. Della sua passione per gli orologi sapevano in pochi, perché lui per carattere l’assecondava in modo riservato. In materia aveva una competenza profonda. Delineò le caratteristiche e la storia di un orologio francese smaltato dei primi decenni dell’Ottocento e un gioiello in astuccio, Cartier del 1920. E affrontò l’origine degli orologi da tasca che si diffusero grazie alla ferrovia: gli addetti ai convogli dovevano averne uno per fare bene il loro lavoro; le grandi marche si attrezzarono per rispondere alle richieste delle compagnie, inserendone sul quadrante il nome e l’emblema. Fu una nottata molto istruttiva. Barracca accennò anche ad orologi che non aveva, senza annoiare con gli aspetti tecnici dei vari tipi. Concluse con quelli da polso apparso durante la prima guerra mondiale. “Io amo i miei orologi, e quando lei mi ha detto che voleva vederli ho intuito che non era spinto soltanto da motivi professionali. Stasera ho notato che era incantato mentre glieli illustravo”. Niente mi avrebbe schiodato da quella sedia, se non il timore di dargli l’impressione di approfittare della sua disponibilità. Quando imboccai l’uscio erano più delle quattro del mattino. Milano cominciava a svegliarsi: alcune finestre erano illuminate.



mercoledì 13 marzo 2019

Nanni Svampa l’antesignano del cabaret

I Gufi




FONDO’ I GUFI E CANTO’ LA MILANO

CHE AVEVA CAMBIATO FISIONOMIA



Nanni Svampa e Presicci
                                                        
Nato nel ’38 in un quartiere popolare di Porta Venezia, aveva una laurea in economia e commercio e veniva spesso rimproverato dal padre ragioniere: “Ti ho fatto studiare e tu perdi tempo”.


Lui invece diventava ogni giorno più grande nel mondo dello spettacolo: traduceva Brassens e scriveva canzoni, testi per il teatro e per la televisione e recitava al Piccolo Teatro, al Gerolamo su altri palcoscenici di prestigio.


Franco Presicci

Le telefonate che mi faceva Giuseppe Zecchillo nascondevano sempre una sorpresa. “Hai qualcosa da fare sabato prossimo? Ci vediamo alle 17. Se hai voglia anche prima”. E trovavo dei giovanotti che stavano finendo di allestire una mostra di uno dei grandi artisti che impreziosiscono i muri della città; o un soprano sudcoreano che cantava alla Scala: “Se ti interessa, questa mia amica gradirebbe un’intervista”. Una sera mi presentò la moglie separata del tenore Giuseppe Di Stefano” - una signora cortese, colta, intelligente, che mi promise di mandarmi in dono, il giorno dopo, un suo libro su Maria Callas – e ci invitò a cena al “Rigolo”, in largo Treves, dove ti poteva capitare di vedere seduto al tavolo accanto o di fronte un sottosegretario assiduo ai programmi televisivi; lo scrittore famoso; il grande giornalista del “Corriere della Sera”, la cui sede è proprio a un tiro di schioppo dal ristorante.

Copertina del libro di Confalonieri
Un pomeriggio, nel suo vecchio studio di via Fiori Chiari, a Brera, dove lui era insignito scherzosamente del titolo di sindaco, dato l’attaccamento che dimostrava alla vita, alla storia, alla conservazione del quartiere, riunì un gruppo di amici, compreso Giulio Confalonieri, critico e storico della musica allora al “Giorno” e amico dei “clochard”, che gli ispirarono il libro, oggi quasi introvabile, “I barboni di Milano”, per assistere a un’esibizione improvvisata e amichevole di Nanni Svampa, Gianni Magni, Roberto Brivio, Lino Patruno, che, ribattezzati con in nome di “Gufi”, fecero poi un’abbondante vendemmia di successi. Dopo averli ascoltati, Zecchillo s’infiammò: “Sono davvero bravi: avranno una carriera più che brillante”. In quell’occasione conquistarono anche il maestro. Quattro o cinque anni fa, intervistando al telefono Svampa, che viveva a Porto Valtravaglia, sul Lago Maggiore, ma veniva spesso nel capoluogo lombardo, gli accennai a quell’esordio non ufficiale, ma lui fece fatica a ricordarlo. Era così lontano nel tempo e così estemporaneo, con un pubblico così striminzito, sia pure con la presenza di un personaggio eminente come Confalonieri, che tra l’altro aveva composto e messo in scena nel ’23, a Londra, il balletto “Une nuit de Versailles”; era stato applauditissimo pianista concertista, aveva scritto una Storia della musica e composto una biografia del Cherubini vincitrice del Premio Bagutta. L’ispiratore dei “Gufi” era stato Nanni, che mi spiegò di aver avuto l’idea mentre cercava un posto in cui fare il cabaret: “Incontrai al ‘Capitan Kid’, nei pressi della Biblioteca Ambrosiana, Lino Patruno, jazzista di grande valore, e cominciai con lui e con Didi Martinaz.
Nanni Svampa e Lino Patruno
Poi all’Intra’s Derby Club, in viale Monterosa, m’imbattei in Roberto Brivio e in Gianni Magni. La Martinaz andò via e rimanemmo in quattro. Io ero il cantastorie; Lino il cantamusico; Gianni il cantamimo; Roberto il cantamacabro. Il pronostico di Giuseppe Zecchillo si avverò: il fenomeno dei “Gufi” esplose. Spettacoli celebrati dappertutto, televisione compresa. Prendevano per i fondelli i politici, i preti, la piccola borghesia… Nanni Svampa in casa di un’ex compagna di scuola aveva ascoltato alcuni brani di Georges Brassens, se n’era innamorato, e aveva iniziato a tradurli in milanese; e così luoghi e personaggi della Senna sbarcarono sui Navigli, facendo pensare alle atmosfere dell’Ortica. Nel ’68 Svampa portò l’autore francese al Piccolo Teatro, tra vasti consensi.

Piero Mazzarella

E altrettanti ne suscitò successivamente l’iniziativa della Durium, che aveva sede in via degli Osii (dal nome di una famiglia patrizia), passaggio tra piazza Mercanti e via Orefici, sfornando “La Milanese” in dodici 33 giri, un documento storico, una testimonianza di enorme interesse. Che presentò in una serata affollatissima, presenti critici, giornalisti, addetti-stampa di case discografiche… al vecchio ristorante “Cascina Abbadesse”, nell’omonima via un tempo costellata di architetture rurali che abbracciavano una Badia. In quei solchi magici Svampa cantava e Patruno suonava. “Eravamo un gruppo divertente, anche se ogni tanto si litigava”, mi disse Nanni, empatico e schietto, disponibile, milanese con il cuore in mano. Ma non tutte le cose belle durano in eterno. E così verso il 1969 le incomprensioni dovute anche alla diversità di vedute provocarono crepe irreparabili e i “Gufi” si sciolsero. Sembra sia stato Gianni Magni il primo a disertare. “Era la Milano dell’ottimismo e del fervore – mi disse Nanni - con una generazione di comici che facevano la satira della società del ‘boom’... Io proseguii gli spettacoli con Antonio Mastino alla chitarra. Dopo i ‘Gufi’ allestii il trio con Lino Patruno e Franca Mazzola, quindi il duo con Lino, senza trascurare la tradizione di Brassens. Oggi a 30 anni dalla morte del cantautore, scrittore, poeta francese, (amato anche da Fabrizio De Andrè: n.d.a.), sto portando in giro un concerto dedicato a lui, oltre al Cabaret Concerto, antologia di canzoni e storielle”. Nanni Svampa era laureato in economia e commercio. Il padre, ragioniere, lo rimproverava ogni notte, quando aspettava in piedi il suo rientro: “Ti ho fatto studiare e tu perdi tempo”. Ma Nanni di tempo non ne perdeva: passava ore e ore per fare le prove al cabaret. Si era introdotto nel mondo musicale all’università Bocconi con “I soliti idioti”.

Zecchillo nel suo studio
Il vero debutto nel ’60 con la satira musicale “Prendeteli con le pinze e macellateli”, al Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strehler e al Gerolamo, il teatro-bomboniera di piazza Beccaria, in cui si esibirono nomi prestigiosi: Piero Mazzarella, Milly, nel ’58 Edoardo De Filippo con L’Opera del Pupo” (nella seconda parte il grande attore si presentò nelle vesti di Pulcinella nella farsa in un atto di Antonio Petito “Pulcinella vedovo e disgraziato padre severo di una figlia nubile, con Felice Sciosciammocca creduto guaglione e’ n’anno”). Lo spettacolo di Nanni andò in scena con alcuni suoi colleghi di ateneo e Nuccio Ambrosoni. Due anni dopo rieccolo nei panni di Nencio ne “La cena delle beffe” con Besozzi. Nel ’69 scrisse “La mia morosa cara”, canti popolari meneghini e lombardi. Nel ’77, alla ribalta all’Odeon con “I desgrazzi di Giovannin Bongè” del Porta. Una vita sul palcoscenico e negli studi televisivi. Sempre presente e puntuale al Festival della Canzone milanese, a Inverigo, con Liliana Feldmann, Lino Patruno e Walter Valdi, che di giorno faceva l’avvocato e la sera recitava al Derby di Enrico Intra, dove sfilarono Charles Trenet, Umberto Bindi, Daisy Lumini e tanti altri, spettatori a volte Giorgio Gaber, a volte Paolo Stoppa e Rina Morelli…
Zecchillo a sinistra a Brera
Il suo primo disco fu “Nanni Svampa canta Brassens”; con “I Gufi” “Milano canta” e “I Gufi due secoli di Resistenza”… Scrisse il volume “Scherzi della memoria” edito da Ponte delle Grazie…Nato nel ’38 a Porta Venezia, Nanni conosceva molto bene i quartieri popolari di Milano e li cantava, come cantava la Milano che cambiava volto. Quando nel ’69 il gruppo si disperse i “fans” rimasero delusi. Si risollevarono nell’81, quando il matrimonio riprese fiato con la trasmissione “Meglio Gufi che mai”, ad Antennatrè Lombardia, la televisione che ebbe tra i suoi principali esponenti in plancia Enzo Tortora, giornalista dallo stile squisito (fu alla “Nazione” di Firenze), conduttore coltissimo ed elegante, gentiluomo di antico stampo e tra i conduttori Ettore Andenna (uno dei suoi programmi “la bustarella”. Nanni Svampa partecipò a film e sceneggiati molto seguiti; realizzò recital al Teatro Uomo e soggetti cinematografici e “sketches” per la Rai, e fece tante altre cose. Era infaticabile, appassionato, ricco di idee, prolifico, studioso, ricercatore di brani nati nelle campagne, tra i contadini. Se n’è andato a 79 anni due anni fa in un ospedale di Varese, suscitando tanta commozione: Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera” e de “Il Sole-24 Ore”: “Addio a Nanni Svampa, interprete di una Milano popolare, autentica, sincera”. Cordoglio anche da parte del sindaco Sala. Qualcuno ha scritto che Nanni Svampa era e continua ad essere il simbolo di Milano; e accenna ai titoli di alcune sue canzoni, tra cui                “El minestron”, “Se gh’ann de dì”, “L’era on bel fior”, “Porta Romana bella”; e le canzoni dell’osteria (“La cervellera”, “Il frate cappuccino”…). Era geniale, uno dei personaggi più rilevanti della musica italiana; antesignano del cabaret. Il tempo non potrà cancellare le sue tracce. p { margin-bottom: 0.25cm; direction: ltr; line-height: 120%; text-align: left; }


SU "NOTIZIE ED EVENTI ASSOCIAZIONE" - SITO ASSOCIAZIONE MINERVA
CRISPIANO:    " I FATTORI DI RISCHIO E LA PREVENZIONE DALLE FRATTURE"
DEL DOTT. STEFANO RUBINO"


martedì 12 marzo 2019

Ricordo del pittore Alberto Amorico


Amorico esegue il ritratto


NEI SUOI QUADRI PALPITAVA LA PUGLIA 


CON TUTTI I SUOI MERAVIGLIOSI COLORI


Aveva soltanto dodici anni quando

cominciò a maneggiare la matita nella

bottega del padre barbiere a Foggia.

Dipinse la sua terra con passione vera.

Fece il ritratto del compositore Umberto

Giordano, suo amico, sul letto di morte.




Franco Presicci 
Se mi venisse in mente di stilare la biografia dei pugliesi che hanno onorato la propria terra a Milano, dovrei chiedere al direttore Michele Annese tutte le pagine del giornale. Lui, nonostante sia generoso, penserebbe a una deviazione delle mie facoltà mentali. Mi resta comunque il proposito di raccogliere in un libro la vita e le opere dei tanti personaggi che ho conosciuto. Per dirne alcuni, il pittore Domenico Cantatore, di Ruvo di Puglia, al quale Giuseppe Giacovazzo a metà anni ’70 dedicò il primo documentario a colori della televisione; i tarantini Domenico Porzio, di  Taranto (tra l’altro padre, con Edilio Rusconi, del settimanale “Oggi”), giornalista e scrittore, e il poeta e critico d’arte Raffaele Carrieri (“Epoca”, “Il Corriere”);
Guido Le Noci-a Sinistra Elio Greco
Mimmo Dabbrescia
Guido Le Noci, di Martina Franca, gallerista famoso in tutta Europa (sua la prestigiosa ”Apollinaire” in via Brera); Mimmo Dabbrescia di Barletta, impegnato come brillante fotografo di cronaca al quotidiano di via Solferino prima di dar vita alla rivista “Prospettive d’arte”, quindi all’omonima galleria d’arte dalle parti del Naviglio Grande); Peppino Strippoli, di Conversano, che fece conoscere la Puglia a Moni Ovada, musicista, cantante, scultore, nato a Plovdiv in Bulgaria e trapiantato a Milano, dove si laureò, alla Statale, in Scienze Politiche, aprì a Saronno il supermercato del vino e nella terra del Porta trattorie e ristoranti frequentati da personalità eminenti: Paolo Grassi, Luigi Veronelli, Vittorio Notarnicola, pugliese caporedattore del “Corriere”, Vincenzo Buonassisi, Folco Portinari, critico letterario, saggista, docente universitario a Torino…,Salvatore Giannella, della città di San Nicola, direttore di “Airone”… Strippoli ospitò anche la “troupe” del Bolscioi in “tournèe” alla Scala, mettendo in tavola con i primi e i secondi piatti il pane di Altamura, il vino che scopriva nei suoi pellegrinaggi in Puglia e le mozzarelle di Gioia del Colle. Erano i tempi in cui, quando la “Freccia del Sud” si fermava in quella stazione, esplodevano le voci dei venditori di quel formaggio e centinaia di mani si allungavano dai finestrini per conquistarlo. Gli altri? A uno a uno, Annese permettendo, li racconterò con gioia in questa pagina. Adesso tocca ad Alberto Amorico, che con la sua tavolozza, oltre ad eseguire ritratti meravigliosi, catturò i colori e le atmosfere della sua terra. Era nato a Foggia ed era emigrato a Rho, pochi chilometri dalla metropoli lombarda.

Filippo Alto
Catalogo mostra a Titograd di Alto
Il suo nome me lo fece Filippo Alto, barese notissimo a Milano per la sua apprezzatissima attività di pittore, durante una conversazione nel suo studio di via Calamatta alla vigilia di una sua mostra a Titograd. Conosceva tutti, era coltissimo, interessato agli eventi culturali più importanti e aveva l’attenzione dei critici più autorevoli, da Renzo Biason a Maurizio Calvesi, a Mario De Micheli, a Raffaele De Grada …Telefonai ad Amorico e mi dette subito appuntamento nella sua dimora. Era il maggio del ’71. Mi soffermai davanti a un cavalletto con un bellissimo ritratto di donna e passai in rassegna le tele appese alle pareti: rustici, distese di verde inondate di luce attorno ad ovili o a casolari un po’ screpolati, brani di antiche architetture, strade deserte nel centro di paesi pugliesi.



Amorico osserva il dipinto e la modella
Lui mi stava accanto senza fare commenti: era taciturno, poco propenso a parlare delle sue opere: come Alto, pensava che il pittore dipinge lasciando il giudizio agli altri. Poi ci sedemmo nel soggiorno, lui in attesa delle mie domande e io con lo sguardo ai suoi paesaggi che mi riportavano nella mia Puglia, ai contadini, ai tratturi, alle viti di Martina, inginocchiate come in una poesia di Carrieri. Lui forse cercava d’indovinare i miei pensieri; sicuramente era lieto di vedermi osservare i suoi lavori. Al mio risveglio, avviammo la conversazione. “Il primo pennello che mi capitò sotto lo sguardo fu quello di mio padre barbiere. Il cliente arrivava con aria pigra nel dimesso salone, si sedeva sulla poltrona girevole e offriva le guance all’insaponatura.
Il ritratto finito
Ogni tanto io passavo a papà gli attrezzi: tosatrice, spruzzatore, cesoie… oppure gli reggevo il bacile. Non ero il garzone. Avevo un altro motivo per stare in bottega: mi appartavo dietro una tenda calata sull’apertura di un bugigattolo e spiando il cliente riflesso sullo specchio gli facevo il ritratto”. Fuori - aggiunse - in certi pomeriggi autunnali, in cui nell’aria circola odore di vinaccia, i suoi coetanei si rincorrevano tra i roveri, scuotendo la gente che faceva il pisolino dietro le persiane. Foggia allora era una città più tranquilla. “Feci tanti di quei ritratti, che avrei potuto allestire una galleria nello stesso negozio”. C’erano tutti quelli che avevano adagiato il cranio sulla testiera di papà: il netturbino dal volto emaciato; lo zappatore dal profilo incartapecorito; il maestro con gli occhiali alla Cavour; il muratore massiccio che faticava a sottoporsi a pettine e forbici... “. E ancora: “Il disegno era istintivo, incerto, il volto quasi sempre indovinato”. Ed era tanto per un ragazzo che aveva accumulato da poco una dozzina d’anni. Di scuole neppure a parlarne. Ne aveva frequentata una che irrobustisce: la miseria della sua famiglia.
Caricatura di Amorico
E Alberto, per procurarsi i carboncini tutte le domeniche doveva scegliere tra il “western” con Tom Mix e il cartolaio. Fosse stato sfacciato, ma già allora era serio, compito, discreto, preciso, avrebbe potuto ottenere gli uni e l’altro infilandosi tra le gambe della maschera del cinema. Un giorno in bottega entrò il proprietario di un mulino che aveva una certa sensibilità per le cose d’arte. “Salutando papà e la clientela in attesa, sorprese Alberto che occhieggiava da uno spiraglio della tenda. Lo fece venire allo scoperto, osservò lo schizzo, gli sorrise compiaciuto, suggerendo lo scultore Natola di Foggia, che poteva rifinire la mano del ragazzino, che non desiderava altro che imparare a maneggiare con abilità e sicurezza la matita. “Intuii che non era tanto la precisione esteriore di un volto che contava, non bastava la sapienza della tecnica: bisognava andare più a fondo, entrare nel vivo del soggetto, scavare nella sua psicologia, quasi penetrandone i segreti…”. E fu così che più tardi arricchì l’arco delle sue competenze artistiche con studi autodidattici sul nudo, sul paesaggio… Con il tempo in una sua figura a olio o a matita si leggevano l’anima, i sentimenti del modello… Nei suoi paesaggi c’era sempre una solidità compositiva: i suoi rustici, a lui tanto cari forse per i ricordi d’infanzia, immersi in una quiete di giorni d’estate, scaturivano da emozioni genuine ed erano resi con virtù impressionistiche vibranti. Era affascinato dalla luce: palpiti di giallo tra un piano e l’altro contribuivano a quell’aria di serenità e di ottimismo che si trasmettevano all’osservatore. Il rustico di Amorico faceva pensare a Constable anche per quella gamma cromatica modulata con tanto lindore. Atmosfera di poesia autentica, verità di toni…Il tempo per sorseggiare un ottimo caffè preparato dalla moglie Rosa, una signora molto ospitale che si muoveva con discrezione, e rispuntarono i giorni di Foggia, quando spesso la notte la sua matita tracciava un volto sotto una lampada anemica. In seguito realizzò a penna il ritratto di Umberto Giordano, quado il compositore, arrivato a Foggia, si trovò con la carrozza assediata dagli ammiratori. I più accesi si fecero largo, sciolsero i cavalli e si misero alle stanghe. Nel 1948, spentosi il maestro, autore di “Fedora”, “Madame Sans-Gene”, “Andrea Chénier”, “il Re”…, la vedova concesse ad Amorico il permesso di ritrarre il marito sul letto di morte, nella sua casa di via Durini. Per questo profilo l’artista s’inginocchiò commosso. Il quadro è esposto al museo giordaniano. Poco prima dei del congedo, Amorico descrisse la Madonna dei pescatori che stava per essere collocata sotto i portici di Varazze. “Questa Madonna ha una storia: nella nicchia dei portici ce n’era un’altra che a poco a poco veniva mangiata dall’umidità. Un maniaco una notte la deturpò, suscitando una vasta indignazione”. Il sindaco si rivolse ad Amorico, che di Madonne ne aveva eseguite molte, amante com’era dell’arte sacra. Un’ultima occhiata alle pareti, cercando volti del Sud. Mancavano. Eppure l’artista aveva trascorso ore seduto sul marciapiede della sua città ad ammirare un artigiano che all’aria aperta aggiustava le ossa alle botti, intenzionato ad immortalarlo mentre metteva insieme le doghe. Chissà quanti ritratti di contadini di Puglia, di quelli che gli erano rimasti nella memoria, si trovano in case private e in musei. Ecco, è da tempo che avevo voglia di ricordare la figura di Alberto Amorico, un artista che nella sua casa di Rho, continuava a palpitare per la Puglia, per la sua Foggia, ricordando la bottega del padre, dove iniziò a riprodurre, non visto, le facce da sbarbare e le teste da potare.