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mercoledì 30 giugno 2021

Un salto a Casasco d’Intelvi

VISITA AL MUSEO ETNOGRAFICO

E DELLA CIVILTA’ CONTADINA

Osservando centinaia di oggetti

di ogni genere, abbiamo avuto

l’impressione di fare un viaggio

nel passato, per merito anche del

prosindaco Giulio Zanotta, che ci

ha fatto da guida.

 

Franco Presicci

Al termine di una strada lunga fiancheggiata da ville e distese di verde si arriva al museo etnografico e della civiltà contadina di Casasco, qualche chilometro da San Fedele d’Intelvi.

Scalini che portano al museo
Giunti alla mèta, si scendono una decina di scalini e ci si trova subito di fronte a un piccolo “stand” con testimonianze dell’epoca dei contrabbandieri: una bricolla; scarpe di juta che quelli calzavano per attutire i rumori e non mettere all’erta i finanzieri della vicina caserma; cappelli; uncini che alla vista delle “Fiamme gialle” gli “sfrosadùr” (come gli artefici del traffico illecito vengono indicati nel dialetto locale) usavano per liberarsi del peso delle sigarette e darsela a gambe…

 

Il prosindaco con la "Raganella"

A farci da guida in questo scrigno è il prosindaco Giulio Zanotta, ex alpino dalla memoria ferrea, che ripercorre agevolmente itinerari storici e usi e costumi della valle Intelvi, da qualcuno definita il polmone verde della Lombardia”, per i suoi alpeggi e i suoi boschi. “Dal 1870 - dice Zanotta - questa era una zona di gente dedita al contrabbando che si muoveva tra l’Italia e la Svizzera: 30 chilometri di sgambata con circa 30 chili sulle spalle (ogni bricolla conteneva 800 pacchetti di sigarette). A dar loro la caccia erano prevalentemente militari meridionali che non avevano mai visto la neve né provato tanto freddo; e nel nostro vernacolo erano “burlanda”, termine che non aveva un significato elogiativo. Fino agli anni 50 i contrabbandieri portavano da qui riso, pneumatici e altro in terra elvetica e rientravano con Malboro e altre marche. 

Pentole

 

Nel 1870 le autorità fecero sistemare una rete lungo il confine disseminandola di campanelli che segnalavano movimenti sospetti. Poi le cose cambiarono, nel senso che negli anni 80 del 90 il fenomeno si estinse”. “Una chicca: nel 1926 i contrabbandieri portarono in Svizzera un famoso oppositore del Fascio. E rimanendo in argomento Bettino Craxi (registrato con il nome Benedetto e il cognome Graci per assecondare le imposizioni anagrafiche e linguistiche del regime) fece parte delle elementari a Casasco; e negli anni successivi ci veniva per incontrare i vecchi compagni di allora”. Non sono i soli particolari che il prosindaco può somministrare, suscitando sempre molto interesse. 

Arcolaio
Ma ne ha molti nell’archivio mentale. E gli piace snocciolarle. E’ persona simpatica, colta e disponibile. Ha spalancato apposta per noi la porta del museo, la cui apertura ufficiale è prevista per la domenica successiva. Perciò nel museo c’è poca luce, qualcosa da mettere in ordine e manca la pregevole pubblicazione di qualche anno fa sulla sua storia, con un considerevole corredo d’immagini. Giulio Zanotta, che ha ottima conoscenza dello spazio e delle preziosità che contiene, mi descrive tutti i pezzi anche nei dettagli, inserendoli negli anni storici in cui sono stati utilizzati. E lo fa con entusiasmo e anche con orgoglio evidente. Nel museo sono raccolte anche testimonianze delle guerre combattute dal nostro Paese: divise, armi, fibbie, gradi, insegne…, “che evocano i tempi in cui i lombardi prestavano il servizio di leva nell’esercito austroungarico”. Non ci sfugge una pinza tagliafili usata dai contrabbandieri per creare varchi nella rete di confine. “L’attrezzo era già stato usato dai soldati durante la Grande Guerra”. Ed ecco la divisa del Battaglione Alpini Val d’Intelvi, che fu impegnato sull’Adamello. Ed ecco ancora la vetrina con i cappelli: quello degli alpini; il colbacco della ritirata di Russia; il copricapo di un ufficiale delle “Fiamme Gialle”; un elmetto del primo conflitto mondiale. In un’altra piccola sala Giulio prende una “raganella” e la agita facendola gracchiare: “I bambini la suonavano, e la suonano ancora, il Sabato Santo, quando tacciono le campane delle chiese”. Il suo “suono” è un po’ come quello della “troccola” che scandisce i passi nella processione dei “Misteri” a Taranto, commenta la signora che ci accompagna. 

Abito per giovane da marito

Bascula

 In un angolo è sistemata la cucina del Palazzo Ferradini, famiglia che per due secoli gestì la Fabbrica del Duomo di Milano; in un altro, un indumento indicato da Giulio come “la divisa del pastore comunale, che portava al pascolo pubblico i bovini soffiando nel corno”. Figura ormai scomparsa. E’ dunque una fonte inesauribile, Giulio Zanotta. Le parole gli vengono fuori come l’acqua dalla fontana di fronte che alimentava l’abbeveratoio per i bovini e qualche capra che vi venivano raccolti per essere portati a pascolare. Ed è piacevole ascoltarlo. Coinvolge, con la sua dialettica. Non annoia, non ci induce a guardare le lancette dell’orologio. Sembra un docente che elargisce con leggerezza nozioni di storia senza salire in cattedra. Anche quando apre una teca e ne trae il fucile imbracciato da un giovane balilla. “Sino al 1950 i magistri intelvesi hanno lavorato nell’edilizia in ogni angolo della Mittle Europa, e non solo. E mi illustra alcuni reperti: Tra questi “imitazioni di calchi eseguiti da artigiani del luogo con modelli della famiglia Ferradini”. Erano muratori, capimastri, scalpellini, decoratori, architetti, stuccatori e anche pittori, oltre che costruttori. Ovunque abbiano lavorato hanno lasciato orme del loro valore; e siccome erano lontani, in tutta la valle vigeva il matriarcato. Erano le donne che portavano avanti non solo la casa, ma anche la terra e la lavorazione dei boschi con maestranze che arrivavano da altre zone. Ne hanno fatte di fatiche, le donne di Casasco, Castiglione e degli altri paesi vicini. 

La molatrice

Allora non c’erano né acqua né luce”. Uno scritto protetto da una cornice a giorno informa: “L’alimentazione giornaliera era molto povera, scarsa, al limite della miseria e basata principalmente, sino a tutta la metà degli anni 50 del secolo passato, sui latticini, i cereali, il piccolo allevamento familiare e su quanto potevano offrire l’orto e il bosco: castagne, noci, funghi… “. Tra i piatti, descritti da un altro cartello, l’urgiada, a base di orzo; la brusada, a base di farina bianca abbrustolita… Non erano certo migliori le condizioni di tante famiglie del nostro Mezzogiorno. 

Facciata del Museo
Il museo alloggia in poche salette collocate su tre piani. In una di queste altri esemplari: gli attrezzi del lavoro contadino e quelli adoperati dalle massaie: l’arcolaio; la stadera; lo scaldaletto; la bascula, grande bilancia presente negli stabilimenti commerciali anche da noi; la “comoda”, vaso da notte sotto un buco del seggiolone; gli zoccoli realizzati a mano; abiti degli anni in cui si faceva il corredo per le ragazze da marito; pentole; tegami; una molatrice; una macchina per fare il gelato; e poi vanghe, zappe, falci, un frammento di aratro sdentato. A vederlo da fuori il museo sembra una casa privata come altre fatta di pietra; ma quando vi si entra non finisce mai di stupire. Anche per le innumerevoli notizie che il prosindaco fornisce, persino quelle sui vari aspetti del paese, con le vie a saliscendi, strette, qualcuna quasi una mulattiera, ma ben tenuta.

Casasco d’Intelvi

Un paesino comunque bello, riposante, con qualche signora che conversa seduta sugli scalini di casa (come a Martina Franca), attaccata a questo piccolo mondo pieno di ricordi.

Casasco d’Intelvi

Abbeveratorio
  
Su una parete è affisso anche un piccolo manifesto con la scritta: “Stazione di monta taurina. Tassa di monta, lire 10 per ogni salto”. Prima di salutarci Giulio Zanotta mi ha dato alcuni “dèpliant”. In uno leggo che “i magistri comacini “erano una corporazione caratteristica della regione dei laghi prealpini. 
 
Corporazione di cui si rinvengono tracce nel codice del re longobardo Rotari, che nel 643 ne autorizza l’attività e ne regola i doveri”. Un po’ come i regolamenti che una volta contrassegnavano certi mestieri a “Milano.Quello degli orafi, per esempio, ai quali è dedicata la via Orefici ed altri via Spadari. 
 
Macchina per il gelato
Torniamo a guardare la bricolla e il nostro anfitrione aggiunge un commento: “Il contrabbando era un rimedio alla fame, alla povertà”. Ah dimenticavo, quando ha aperto i battenti il Museo? “Negli anni 90, voluto dal sindaco di allora Piergiorgio Cairoli, con l’obiettivo di raccogliere, custodire e trasmettere alle generazioni future il patrimonio della civiltà contadina, della montagna e delle attività artigianali…”. Vanta centinaia di pezzi, tutti catalogati, compresi foto e documenti. E’ di proprietà comunale ed è gestito dall’Associazione Amici del Museo (sorta nel 2010), che organizza eventi culturali, tra cui mostre, convegni, serate musicali, camminate didattiche sul sentiero del contrabbando. E, come dicono gli stessi “Amici”, è “una testimonianza culturale e umana che ha lo scopo di legare i casaschesi e le genti della valle d’Intelvi alle proprie origini”. Lasciato il Museo, mi sento più ricco. Il prosindaco Giulio Zanotta mi ha fornito fatti, date, preziosità, ha ricreato atmosfere, scortandomi in un viaggio all’indietro su percorsi inesplorati. Giulio è la memoria storica di Casasco, 474 abitanti, un delizioso centro storico, una selva di castagni, 820 metri d’altezza, in provincia di Como. Un paese-bomboniera, da scegliere per trascorrere in pace e tranquillità la villeggiatura, tra nevere, lavatoi, sostre, ricoveri per animali nei pascoli in quota, “casel dal lacc”: piccola costruzione dove anticamente venivano messi le conche del latte per ottenere la panna. Da Argegno (una piazzetta da fiaba), ove sostano i traghetti che portano i turisti in gita sul lago di Como, lo si raggiunge in mezz’ora, passando da Castiglione, San Fedele d’Intelvi…, venendo da Milano. Per visitare il Museo etnografico e della civiltà contadina la gente viene da ogni parte. Non solo da Pellio, Dizzasco, Como, Lecco, Campione d’Italia, ma anche dall’estero: emigrati alla scoperta delle proprie radici. Il Museo, con le bellezze naturali e le gemme artistiche del paese, rappresenta il fiore all’occhiello di Casasco.




mercoledì 23 giugno 2021

Le belle giornate sulle regine del mare

 

QUANDO LA RAFFAELLO E LA MICHELANGELO

CITTA’ GALLEGGIANTI SOLCAVANO IL MARE


A bordo dellla Raffaello con Erika Blanc e il comandante
 

I giochi, le danze, i pranzi nella sala

“Montecarlo”, il salone delle feste di

prima classe e il soggiorno-bar

“Manhattam, il vestibolo, la sala di

lettura e la sala da gioco, la veranda-

bar “Amalfi”, la cappella,

l’auditorium, collegati da gallerie

d’arte con opere di Bruno Cassinari,

Salvatore Fiume, Gianni Dova,

Fausto Pirandello, Domenico

Cantatore, Giuseppe Santomaso…

 

 

 

 

Franco Presicci

Memorabili i giorni sulla “Raffaello” o sulla “Michelangelo”, due bellezze galleggianti, dove appena oltrepassato il barcarizzo s’incontrava tanta gente agghindata in maniera elegante: il signore vestito di bianco, con una testa di lupo sul pomo del bastone, faccia da Peter Ustinov e immobile come una statua; la signora in prezioso abito lungo pronta per una sfilata;

Signora sul ponte
il fotografo ufficiale, magro, alto, barba alla fra Cristoforo, occhio d’aquila, intento a coglierli uno per uno, soprattutto quelli più famosi: una volta Raffaella Carrà e Gianni Boncompagni, un’altra il mago Waldner, che faceva le sue previsioni sulla rivista “Grazia”; un’altra volta ancora la bravissima, dolce e simpatica attrice abruzzese di teatro Diana Torrieri, o Erika Blanc, presenza apprezzata in tanti film e sceneggiati televisivi, compreso “Carabinieri”, dopo un inizio con “007, missione Bloody”, e sul palcoscenico con Strehler. Una mattina sulla tolda sbocciarono Solvi Stubing, la bellissima attrice cinematografica e televisiva, che tra l’altro faceva la pubblicità alla Birra Peroni nei famosi Caroselli, purtroppo scomparsi da tempo, e tante belle ragazze accompagnate da attenti e composti giovanotti o dai genitori guardinghi. Fu in uno di questi viaggi che incontrai anche lo “chansonnier” Enrico Simonetti, che la sera si esibiva nell’auditorium, suonando il pianoforte, cantando e declamando battute frizzanti come una vecchia bottiglia di gazosa appena aperta.
A Marrakesh
In un viaggio la nave fece tappa a Casablanca e con lo “chansonnier”, il pittore Fed Ferrari ed altri andammo a Marrachesh su un treno che sferragliava affannosamente, quindi nella piazza della città a vedere l’incantatore di serpenti, il venditore d’acqua e ambulanti impegnati nel piazzare ai turisti caffettani o camicette ricamate. Pur di concludere l’affare li tampinavano fino a quando non si decidevano all’acquisto, dopo una trattativa estenuante che si concludeva con una notevole riduzione del prezzo: da 25 mila lire a 10. Un giovanotto ci offrì una tunica, raggiungemmo l’accordo, comparve la polizia e lui fuggì lasciando l’indumento nelle mie mani. Subito dopo vidi sbucare la sua testa sulle altre assiepate davanti al bar. Al rientro da Marrakesh ci accolse una di quelle cene in piedi a base di carne cotta in ogni modo. Su un tavolo lunghissimo trionfavano grandi torte affiancate da sculture di ghiaccio. I pasticceri di bordo erano veri artisti; e i camerieri gentili e premurosi come il maggiordomo di Wanda Osiris. Alla casbah di Casablanca, il giorno successivo, i negozianti erano inflessibili: non concedevano il minimo sconto neppure se correvano il rischio di perdere l’acquirente.
Adriano Bet


Quando ricevevo la telefonata di Adriano Bet, capo ufficio stampa della Società “Italia” di navigazione con sede a Genova, mi preparavo subito per la traversata: non mi lasciavo pregare, se non avevo altri impegni. Poi il suo vice, Bonfiglioli, uomo saggio e tranquillo, mi comunicava il giorno della partenza e l’ora. Con il treno raggiungevo il capoluogo ligure e pernottavo all’Hotel Principe, dove una sera sfiorai il ministro Taviani. Il giorno dopo con mia moglie andavo al porto per l’imbarco. Una volta navigai con Alfredo Pigna, un collega simpatico, sportivo, spiritoso, un “curriculum” professionale brillante: conduttore de “La Domenica Sportiva”, direttore de “La Tribuna Illustrata”, esperto di sci, amico di Dino Buzzati. Durante un ballo fu insuperabile: alla dama si slacciarono le bretelle dell’abito, lui la protesse stringendola a sè, dandole la possibilità di superare l’imbarazzo e rimettere le cose a posto; poi mi disse: “Hai notato? Ho parato due gol”. Stare con Pigna era davvero un piacere, con lui passai ore spensierate durante tutto il tragitto. Aveva appena pubblicato un libro sullo sci. Ogni volta visitavo la nave da poppa a prua, salendo anche sulla plancia a conversare due minuti con il comandante, che rivedevo al cocktail delle 19, e qualche volta la sera all’ora delle danze. A poppa ammiravo il mare che l’elica faceva spumeggiare; e le onde che brillavano per il sole. Molti viaggiatori partecipavano ai giochi organizzati. Ne improvvisavano anche loro. In uno bisognava addentare una mela deposta in un secchio d’acqua e vinse quello che la spinse fino in fondo con la bocca, bloccandola con i denti. Altri impazzivano in piscina; altri ancora con il dovuto equipaggiamento simulavano un’emergenza, al comando di un istruttore. A bordo non ci si annoiava mai. Chi non amava la compagnia si stendeva su una delle sdraio allineate su un ponte e leggeva o sonnecchiava. Noi facevano parte di un gruppo che si ricomponeva ogni volta: includeva il pittore genovese Fed Ferrari, che aveva lo studio in via Chiossone 1, a Genova. Un anno fece il ritratto di donna Vittoria Leone, moglie del presidente della Repubblica, in abito rinascimentale. Lo portò a bordo e quando la nave fece sosta a Napoli scendemmo e alcuni andarono a Roma, al Quirinale, per consegnare l’opera; io, con mia moglie, andai al “Giornale del Mezzogiorno”, puntuale a un appuntamento con il direttore Paolo Cavallina. 

Barbara Bouchet con Franco Presicci

In un’altra occasione, mèta Sorrento, dove, facendo una passeggiata notai un assembramento vicino al mare: stavano girando un film con Barbara Bouchet e Pierre Leroy, l’attore francese che lavorò molto anche in Italia. Mi avvicinai e durante una sosta delle riprese mi presentai alle due celebrità, facemmo una chiacchierata e poi le invitai a pranzo nell’albergo che ci ospitava. Leroy aveva un altro impegno e dovette dire di no. Quando nella sala apparve lo splendore della Bouchet i commensali mostrarono grande stupore, esplodendo in applausi scroscianti. Dopo il pranzo io e Barbara ci sedemmo una di fronte all’altro in un salone, per un’intervista. Nello stesso albergo si aggirava la giovane eletta “Donna del Mare”, in attesa della cerimonia di premiazione, che si sarebbe svolta a bordo. A pranzo avevo come commensale Gustavo Modena, un funzionario della società “Italia”, che a terra smentiva la reputazione dei genovesi di essere avari. Io, pur non essendo un ballerino con grandi doti, conquistavo la pista e sgambavo fino a quando non si spegnevano le luci.

Una notte, ero appena rientrato in cabina, quando una decina di ragazzi irruppe nella mia cabina e mi rapì, portandomi su un ponte, dove altri erano avvitati in un tango al suono di una fisarmonica. Feci amicizia con un giovane pittore che era sempre a caccia, ma rientrava con il carniere vuoto. Poi mi ghermiva e mi stava dietro come Fusco Aristio appeso alle vesti di Orazio, e mi sommergeva con le sue lamentazioni. “Forse sbagli tecnica”, gli dicevo. E lui: “A te come va?”. “A me va bene perché non frequento quei territori”. Un giorno a tavola, parlando del più e del meno con Gustavo Modena, confessai di non aver mai mangiato il caviale; poco dopo si presentò lo “chef” con due scatolette. “Rosso o nero?”. Scelsi il secondo, ma dopo un assaggio, lo passai al commensale. Il giorno del compleanno di Bet, che era seduto di fianco al mio tavolo con un alto dirigente di una multinazionale, chiesi una bottiglia di vino pregiato. Una lisciata sulla spalla fece voltare il padrone di casa, gliela consegnai con un bigliettino e lui: “Perché fai queste cose?”. “Perché sono un grafomane”.
L'albergo Mamounia a Marrakesh
Così era su quelle regine delle onde; così era su quelle della Costa. Su una di queste ultime, palazzi sontuosi con mille occhi che spiavano il mare, navigai da Miami a Saint Thomas, Saint Jhon, Saint Croix, Nassau, dove puntai l’obiettivo su un vecchio con la pipa e il volto solcato da rughe profonde, e fui bloccato dal soggetto, che pretendeva un “cachet”. Sulla spiaggia fui sfiorato da una noce di cocco caduta da un albero inchinato verso il mare. Ma quello avvenne durante un altro viaggio, con altre persone, altri itinerari. Invitai una signora nera a ballare e quando si alzò fu per me uno “choc”: era alta il doppio. A Miami fui ospite dell’Hotel Fontainebleau, che è una città grande quasi quanto Crispiano. Durante l’attesa di un indigeno che doveva portarmi a vedere la villa di Al Capone e poi a intervistare il capo della tribù indiana dei Mikkosuke, ai margini dell’Everglades, curiosai verso l’interno di una limousine con i vetri oscurati, e un ometto basso e molto panciuto rotolò verso di me e mi aprì la portiera. Il proprietario? L’autista? Ammirai quel salotto senza rispondere all’invito ad entrarvi. Ho viaggiato anche su una nave greca, sulla quale si svolgeva un convegno sulla situazione economica di Trieste. Vi feci amicizia con Paolo De Barros, ex pilota di jumbo e socio di un club di enologi, con il quale andai al mercato di Smirne ricco di colori e molto affollato, quindi a Santorini dove si sale a dorso di mulo o di asino. 

La Raffaello
In uno dei viaggi sulla “Raffaello”, mentre in una galleria di collegamento osservavo un astratto di Giuseppe Santomaso, fui affiancato da Bet, che tra un discorso e l’altro mi accennò alla festosa accoglienza che era stata fatta a New York il 3 agosto ’65 al termine del viaggio inaugurale sulla “rotta del Sole” della “Raffaello”, con centinaia di navi a sirene spiegate a mo’ di saluto (era accaduto lo stesso il 20 maggio con la “Michelangelo”) e 14 rimorchiatori di scorta fino al molo. Nella Baia dalle motopompe dei vigili del fuoco e dalle imbarcazioni di assistenza erano stati lanciati spettacolari getti d’acqua sulla murata della nave, che stazzava 46 mila tonnellate, come la consorella. Per decisione del sindaco della Grande Mela Robert Wagner la giornata era stata dedicata al grande Raffaello. Purtroppo le due regine del mare erano destinate al disarmo. Quando fu certa la loro sorte, scrissi commosso un articolo di cinque pagine su “Novella 2000”, all’epoca diretta da Paolo Occhipinti, poi direttore di “Oggi”. Non so dove siano oggi questi gioielli. Si dice che una delle due sia in un porto arabo trasformata in albergo. Erano un orgoglio, un vanto.



sabato 12 giugno 2021

Tre autorevoli autori parlano della Puglia

IL MERIDIONALISTA TOMMASO FIORE

E IL SUO POPOLO DI FORMICHE

Il fiume Galeso

In un suo vecchio libro Francesco

Giuliani unisce, commenta, critica,

interpreta brani di Nicola Serena di

Lapigio, di Kazimiera Alberti, di

Cesare Brandi. Vecchie pagine delle 

Edizioni Il Rosone

           

Franco Presicci

Quando avevo una decina d’anni mio padre mi portava al cantiere Tosi il giorno in cui era in programma il varo di una nave, e la cerimonia mi entusiasmava soprattutto nel momento del tradizionale lancio della bottiglia contro la prua. In una di quelle occasioni scoprii il fiume Galeso, che mi affascinò. Con il passare del tempo lessi le pagine del Gissing (“Sulle rive dello Jonio”) e rimasi amareggiato, perché l’autore dichiarava di essere stato deluso dal “’dulce Galaesi flumen’,’… sulle cui rive trovava pascolo una famosa razza di pecore con un vello così pregiato che veniva protetto da una gualdrappa di cuoio”.

Frutti di mare nei piatti di ceramica
Nelle mie rimpatriate a Taranto mi proponevo sempre di andare a visitarlo, questo gioiello della mia città, ma un imprevisto ogni volta me lo impediva, facendomi poi sentire un amante infedele. Un po’ di anni fa mi decisi, e dovetti tentare più volte non riuscendo ad arrivarci: non c’erano indicazioni precise e le domande a questo e a quel passante cadevano nel vuoto. Alla fine un pastore m’illuminò. Ed eccolo, il Galeso, ingolfato da grosse barche cariche di mitili, gli ori di Taranto. Quando le “cuzzarùle” seppero che venivo da Milano mi fecero festa e posarono per la macchina fotografica che portavo al collo. Il Galeso tanti anni prima lo avevo visto solitario, senza neppure il rumore dell’acqua, che scorreva placida all’ombra di alberi ad alto fusto. Mi capitò di parlarne con Tommaso Fiore, che a volte andavo a trovare a casa, quando andavo all’Università di Bari, per un esame o per una lezione dei professori Coviello, De Robertis, Dell’Andro…, che tra l’altro dirigeva una rivista di studi sulla Battaglia di Canne. “Mi hai fatto un regalo”, diceva don Tommaso aprendomi la porta, e mi faceva accomodare nello studio o nella camera da pranzo, anche quella con file di libri.

Via Garibaldi

Un giorno mi invitò a seguirlo fino alla sede del partito socialista, dove aveva un appuntamento, e durante il percorso mi fece domande su Taranto. Un altro giorno gli dissi che avevo prestato “Un popolo di formiche” a un amico che non me lo aveva restituito. E lui, calmo e comprensivo: “Adesso tu vai alla casa editrice Laterza, a mio nome ti fai dare dal capo ufficio stampa, in omaggio, per recensione il libro e poi torni per la dedica”. Di don Tommaso custodisco come reliquie alcuni messaggi su cartoline postali. Soltanto poche righe. In uno mi accennava a un libretto di prossima uscita sul programma amministrativo di Bari: me lo avrebbe spedito appena distribuito, per farmi vedere come si gestisce una città. Nel giugno del ’57 mi comunicò che il figlio Vittore, capo ufficio stampa della Fiera del Levante, con il libro “Ero nato sui mari del tonno”, aveva vinto il Premio Fraccacreta, che gli sarebbe stato consegnato a giorni in una cerimonia a San Severo, la città in cui avevo trascorso quattro anni, in casa di mio zio Luigi, uno di quei contadini amati da don Tommaso. 

Mar Piccolo

Il giorno della premiazione presi il treno e fui uno dei primi ad arrivare nel Teatro comunale, in cui anni addietro avevo sentito cantare Giacomo Rondinella e visto recitare Guglielmo Inglese, attore caratterista (recitò anche con Totò), figlio di attori pugliesi, che in una scena di un film diceva a un amico, con il suo modo di parlare particolare, di aver mangiato un pesce del quale aveva dimenticato il cognome. Dopo tanti anni, una sera incontrai il grande meridionalista sul piazzale della stazione ferroviaria. Era diretto alla redazione de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ricordando la mia passione per il Galeso, mi chiese scherzosamente come andasse la mia relazione con il fiume. “Il mio sentimento è sempre vivo. Il Galeso ce l’ho nel cuore. 

Il ponte girevole

Come ho nel cuore la mia Taranto”. Da allora non l’ho più visto. Seppi della sua morte e mi s’inumidirono gli occhi. Ho divorato tutti i libri di don Tommaso: “Incendio al Municipio”, edito da Lacaita come anche “Sull’altra sponda”, “Paese di Utopia”, “Un cafone all’inferno”, del ’55, “Un popolo di formiche”, del ’51… Incontro don Tommaso in uno dei tanti vecchi libri di Francesco Giuliani della collana “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” - edizione del Rosone – che descrivono la Puglia, mai in modo apologetico. Fra l’altro Giuliani vi riunisce brani di opere di Nicola Serena di Lapigio, di Altamura, Kazimiera Aberti, “personaggio non trascurabile della letteratura polacca del Novecento (scrive Giuliani), e Cesare Brandi, di Siena. Giuliani li commenta, li integra, li lega saggiamente, aggiungendo brevi note biografiche di ognuno di loro. Di Fiore l’autore dice: “Lo scrittore guarda alle concrete condizioni di vita, interroga sindaci e sindacalisti, pubblica dati sulle case disponibili, stigmatizza la disumana esistenza dei pescatori dei laghi garganici…, il suo umanesimo ha una chiara connotazione politica, che rivela il bisogno, senz’altro nobile, di operare concretamente in favore del prossimo…”. Una figura che non si può dimenticare: piccolo di statura, ma grande per il suo impegno politico. Un esempio, un faro. Don Tommaso era nato ad Altamura, di cui fu sindaco. Oppositore del fascismo, subì il confino e il carcere e perdette il figlio Graziano nella strage di via Niccolò dell’Arca, a Bari, il 28 luglio del ’43. Con “Un popolo di formiche” vinse il Premio Viareggio nel ’52. E’ stato uno dei grandi della Puglia, regione della quale l’Alberti è entusiasta. Lo è di Lecce, Castel del Monte, Molfetta, Martina Franca… La nostra regione la difende a spada tratta dagli scettici e dai superficiali. Definisce Taranto “una stella della Magna Grecia” e scopre con piacere i treni delle Ferrovie Sud-Est, che l’hanno portata “attraverso città e cittadine, villaggi, pianure e colline, per vigneti e frutteti… Le Ferrovie svolgono una preziosa funzione turistica, economica, ma anche culturale… Più di novanta treni viaggiatori corrono, galoppano, trottano attraverso il calderone pugliese ed alla fine del giorno annotano una bella cifra: abbiamo percorso cinquemila chilometri, cosicchè ogni otto giorni facciamo il giro del mondo”. Della città nata, secondo una leggenda, da Taras, figlio di Nettuno, o da Falanto per un’altra, dice: “… vive sul mare e vi si respira un’aria mediterranea, frizzante; i tradizionali frutti di mare spiccano ovunque, allettanti, formando un soggetto meraviglioso per un pittore di nature morte”; e, aggiungo, una delizia per il palato. I mitili di Taranto sono ricercati nel mondo, e celebre ovunque è lo splendore della nostra culla con i suoi tramonti che infiammano l’orizzonte. La città vecchia è un teatro all’aperto con angoli che sono fondali e quinte di teatro, tra cui si svolge la vita quotidiana. Io sono contento di essere nato a Taranto, in questa città in cui dappertutto s’impone la bellezza, e questa bellezza riscopro ogni volta nei miei approdi. Come l’Alberti vado al museo archeologico, visito monumenti, la Cattedrale, San Domenico, la Villa Peripato…. 

Mar Piccolo
La scrittrice osserva le persone del borgo e della città vecchia; immagina di percorrere Taranto sul dorso di un delfino. E’ abbagliata dalla bellezza di Taranto. “L’anima ha bisogno di pace, di quiete, e la lunga balconata di Puglia è l’ideale”. Nel volume si coglie Cesare Brandi di ritorno in Valle d’Itria. Lo ricordo in “Pellegrino di Puglia” e in “Martina Franca”, le preziose, eleganti pagine pubblicate da Guido Le Noci, titolare della prestigiosa galleria d’arte “Apollinaire” di Milano (chiusa da anni). Il volume sulla città dei trulli e del Festival è ricco fra l’altro di immagini spettacolari. Torno al Galeso, fiume sacro per chi lo ama. Dovrebbe essere più rispettato: rasserena lo spirito. Non smetterò mai di manifestare la gioia che provo nel vederlo, e nel vedere Taranto, che ha ispirato virtuosi della penna e maestri della tavolozza, che l’hanno riprodotto persino nelle valve delle “paricelle”. Non dimentico il ponte, il lungomare, il Castello Aragonese, le vecchie vie, le case di Taranto, le barche, piazza Fontana, la dogana, le paranze. “Le mie ultime ore – dice il Gissing - furono rallegrate da bellissimi tramonti; ne ricordo uno in particolare; lo ammirai per un’ora e più dalla strada panoramica della città insulare. Una luce squisita, dopo che il sole fu sparito, sembrava non volersi spegnere mai”. Chi non conosce i tramonti della Bimare. Quei colori incantano, rapiscono.












martedì 8 giugno 2021

La magia di un grande fotografo


Cataldo Albano
 

IL TARANTINO CATALDO ALBANO

RITRAE LA BELLEZZA DI VERONA

Ha raccolto le sue immagini in un

libro, il cui ricavato è destinato

alla Casa della Giovane, una onlus

con sede anche nella città veneta,

dove ospita e aiuta tante ragazze

sfortunate.

 

 

 

Franco Presicci

Copertina del libro

Due città: Taranto, con i due mari, il ponte girevole, il borgo antico, i tramonti da sogno…; Verona, detta la Firenze del Nord, scelta da Dante come asilo forse per la somiglianza con la sua città. Questi due gioielli sono nel cuore di Cataldo Albano, che ha avuto la culla nella prima e ha la residenza nella seconda. Vivendo in una, non trascura l’altra. In entrambe trova motivi di ispirazione per le sue foto, davvero magistrali. Con la sua macchina fotografica coglie i panorami e i particolari; entra nelle chiese e punta l’obiettivo sull’ambone, sul battistero, sul pulpito, sul ciborio, sul rosone, sul presbiterio…; percorre una via o una piazza e ritrae l’edicola, i negozi, le facciate colorate, una fontana, una statua, una bicicletta addossata a un muro… Verona, un salotto signorile e deserto per colpa d’un cecchino che pare quasi sconfitto. Questa volta dunque Albano ha ritratto la Verona del silenzio: la città con le strade deserte, come imposto dal coprifuoco ovunque: la città con la gente in clausura come monache salmodianti, e pur sempre elegante, bella, affascinante, luminosa. “Verona è un passaggio obbligato, un semaforo d’Europa”, ha scritto Cesare De Marchi. La città con piazza Bra con le aiuole al centro; piazza dei Signori, sorta nel Medioevo; piazza delle Erbe, in cui 2000 anni fa c’era il foro della città romana e per secoli fu fulcro politico ed economico”.

L'Arena
Verona, città sublime, tranquilla, storica; la città dell’Arena, uno dei maggiori anfiteatri romani sopravvissuti. Cataldo Albano vi si trova a suo agio. Ovunque metta piede trova un monumento da glorificare, architetture, fregi, un paio di colombi che tubano su un cornicione o volano da un tetto ad un altro. Ha ripreso la città bagnata dall’Adige forse ascoltando l’eco della canzone dialettale “Voria cantar Verona”, ha scritto don Maurizio Viviani nel libro che raccoglie queste immagini e il cui ricavato è destinato alla casa della giovane, onlus internazionale con una sede a Verona (accoglie le ragazze sole, abbandonate e le aiuta fra l’altro nel percorso verso la nascita di una nuova vita). Il brano – sempre don Maurizio – ha celebrato la città che si erge sul bordo della pianura padana… Ha cantato questo gioiello d’arte conosciuto in tutto mondo. Cataldo, fotografo “per schietta passione e per diletto artistico, ha cercato più volte di scoprire e di celebrare a suo modo la città di Giulietta e Romeo. La raccolta delle sue immagini è la sintesi, realizzata nei giorni della pandemia, delle preziosità di Verona dal crepuscolo sino al buio inoltrato. Con le sue panoramiche e i suoi dettagli catturati con una sensibilità intensa, con una capacità non comune di immergersi nel soggetto prescelto: le piazze, come le agorà dell’antica Grecia o il foro romano, per molti luoghi alternativi alla casa, come il circolo, il caffè… sono gli spazi in cui la gente si raccoglie, protesta, discute, passa il tempo, si ribella, sono per Aldo e la sua macchina fotografica alimento indispensabile, scenografie spettacolari, abbiano o no porticati, fontane, negozi di lusso, ritrovi di lusso…
 
Cataldo Albano,Francesco Lenoci,Andrea Dolci

Ed ecco nel libro, presentato da Francesco Lenoci, vie e statue, muri graffitati, ponti… Verona Aldo, che si può degnamente definire artista, se la porta nel cuore. Tutto gli piace della città, comprese le storie. Verona fu la sede periferica del re longobardo Alboino - aggiunge De Marchi – “ma nel palazzo forse non c’erano abbastanza bicchieri, dato che il sovrano impose alla moglie Rosmunda di brindare in un teschio, quello del padre, fatto fuori da lui”. Matteo Bandello, per molti esperti il più rilevante novelliere del Rinascimento, disse che poche città possono dirsi superiori a Verona. “Mescolata e impura – giudizio di Guido Piovene – Verona è vibrazione, è irradiazioni, è colore, arte divenuta paesaggio e confusa al paesaggio, miraggio di città romantica. Verona fu romana, gota, poi bizantina e longobarda”. Quanta storia e quanta arte! Per questo Aldo ha scelto la città dell’amore come suo domicilio, di cui rendere testimonianza per mezzo del suo strumento magico? Può darsi. Certo dalla sua città natale non è fuggito.

Bar - Ristoranti chiusi
Perchè avrebbe dovuto? Taranto ha le sue doti, le sue pregevolezze: i due mari, decantati da poeti come Orazio e Virgilio e arrivando fino a noi da Diego Marturano, Alfredo Lucifero Petrosillo, Alfredo Nunziato Majorano, Claudio De Cuia, Nerio Tebano… e dai contemporanei, che hanno tanti meriti, anche quello di aver raccontato la città e la sua storia, i personaggi di una volta e gli ambienti con passione e purezza di stile, come Giacinto Peluso. Taranto ha i suoi edifici storici, i suoi colori, lo spettacolo del tramonto del sole sul Mar Grande, alle spalle del Castello Aragonese, un orgoglio della città. Albano torna spesso a Taranto e un paio di anni fa è tornato per riprendere le sue perle con scatti eccezionali che poi ha esposto nella galleria del maniero, con la presentazione di Francesco Lenoci, che lo segue ovunque, avendo anche lui la passione per l’arte e per i vagabondaggi culturali. Ho scritto più volte di Bar Ristoranti chiusi Cataldo Albano, sapendolo sempre a caccia di angoli di storia, di rigorosa architettura, di bellezza particolare, di cui sono ricche Verona e Taranto, regina dello Jonio. “Taranto vive tra i riflessi, in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce”, ha scritto Guido Piovene, che ha assistito come a uno spettacolo ai suoi tramonti. Quello sfolgorare rapisce il fotografo ambulante che si lascia cullare dalla sua vocazione, che lo spinge a Matera, per riprendere i sassi e non solo, alla Bimare, per cogliere appunto la luce, l’atmosfera, le case di Mar Piccolo, il giardino delle cozze, l’orologio di piazza Fontana (‘U relògge d’a chiàzze”, toccante poesia di Diego Marturano), il faro di San Vito, l’anello di San Cataldo...
 
Controllo della Polizia
E’ instancabile; ha una fantasia fertile, il passo veloce. Ama vivere nell’arte, penetrarla. Si emoziona davanti a ogni pregio di una chiesa: un arco rampante, un doccione, una strombatura, una lunetta, un pilastro a fascio, magari i banchi con i fedeli in preghiera e il prete che celebra la Messa… Si bea di fronte a questi elementi. E a Verona trova di che nutrire la sua ansia di bellezza. Come a Taranto, dove è probabile che porti Verona, nella stessa galleria che ospitò Matera e la Bimare. “Non vi è dubbio – ha scritto Lenoci – che Cataldo Albano sia innamorato di Verona, la fatal Verona, la città, dove ha messo su famiglia e curato diversi interessi, tra cui l’amata arte della fotografia. “Il 25 ottobre del 1919 io e Cataldo Albano eravamo in piazza dei Signori… Loggia Vecchia, dove sette secoli prima era stato Dante; e lui ha declamato versi del Poeta sui Capuleti e i Montecchi a Verona, in cui è ambientata la storia d’amore più famosa nel mondo. La storia-simbolo dell’amore”.
 
Cataldo Albano pronto allo scatto
Quelle di Cataldo Albano che spaziano nel libro – ha aggiunto – non sono semplici immagini, ma immagini del silenzio. E il silenzio non può non essere accostato alla musica, come scrive Caterina Cavallone nel racconto intitolato “Il silenzio e la musica”. Nelle foto di Aldo il silenzio è visibile. Noi preferiamo le piazze piene di voci, anche quelle dei venditori di palloncini colorati che attirano i bambini, o di granturco per far accorrere i piccioni che si posano perfino sulle spalle della gente; e quelle dei vecchi con i volti seminascosti dietro una cortina di fumo che esce dal camino della pipa. Le piazze animate, le piazze che a volte innalzano il gran pavese. Sono visioni che attraggono l’obiettivo di Albano, sempre vigile, sempre pronto allo scatto. Lo immaginiamo nel sul suo girovagare alla scoperta di angoli sconosciuti. L’abbiamo visto all’opera, Albano: alle presentazioni del Festival della Valle d’Itria al Piccolo Teatro di Milano, spaziando fra i relatori, il cortile, i manifesti degli spettacoli già andati in scena, il pubblico, la policromia dei prodotti tipici di Martina Franca al termine dell’illustrazione del programma. Lo abbiamo visto sbucare all’improvviso dal pubblico o da una sala vuota e cogliere il presidente Franco Punzi mentre esalta la bellezza della sua Martina Franca, che d’estate è inondata dalla musica, mentre un regista, un cantante, un semplice turista camminano con il naso all’insù per ammirare un balcone spanciato. 

Intervento di Franco Presicci da Milano

 

L'intervista di Studio100 a Cataldo Albano, in occasione della Mostra "Taranto 2 Mari 1 Anima", presentata presso la Galleria Meridionale del Castello Aragonese a Taranto.


VIDEO PRESENTAZIONE OPERA:VERONA IMMAGINI DEL SILENZIO

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mercoledì 2 giugno 2021

La sera in cui seppi che era morto Berto

UN CANTASTORIE DI ECCEZIONE

CHE SI ESIBIVA NELLE OSTERIE


Il giornalista Giuseppe Barigazzi, che

lo aveva conosciuto e ascoltato, lo

ha descritto in un suo vecchio libro, 

“Le osterie di Milano”, che ha la 

presentazione di Indro Montanelli.

Il giornalista-scrittore lascia anche il

Volume “La Scala racconta”. 

 


 

Franco Presicci 

Nanni Svampa con Franco Presicci

Fu Giuseppe Barigazzi, che al “Giorno” dalla redazione Spettacoli era da poco passato in Cronaca per occuparsi di Cultura, la sera del 18 novembre ’83, verso le 20, a dirmi della morte, a 77 anni, di Berto, al secolo Umberto Caravaggi, famoso cantastorie milanese: si avvicinò al mio tavolo e a bassa voce mi dette la notizia. Lui lo aveva conosciuto, Berto; e lo aveva anche ascoltato nelle osterie in cui si era esibito, a cominciare dal “Tranin” di Precotto, dove gli appassionati, milanesi indomabili che parlavano un dialetto rigoroso, arrivavano da ogni zona della città per applaudirlo, il giovedì e il sabato. Barigazzi aveva scritto un libro bellissimo sui cantastorie e sui locali che deliziavano con i loro brani. Il volume è impreziosito dalla presentazione di Indro Montanelli (“… Barigazzi non è milanese anche se in questa città vive da dieci anni. Vi emigrò da Parma dove si è fatto le ossa e i muscoli di giornalista alla scuola e sotto la frusta di Baldassarre Molossi…”). Quella sera dell’83 lo sentimmo pronunciare un “Nooo!” prolungato al telefono, che fece sussultare Adelaide Murgia, la collega più anziana, riservatissima e taciturna, cementata alla sua scrivania per tutto il tempo del suo lavoro.


Ero impegnato nella stesura di un articolo su una bisca clandestina, una specie di roccaforte fornita di sentinelle con walkie-talkie nei punti strategici, sbancata dalla polizia la notte precedente. Oltre che collega, Giuseppe era un amico. Avevo letto il suo libro sulle osterie e sapevo parecchie cose di Berto, tra l’altro una persona simpatica e divertente. Così cominciai subito un giro di telefonate per raccogliere i ricordi di chi lo aveva seguito, stimandolo: “Era un uomo favoloso – commentò la moglie di Nanni Svampa – apparteneva a una categoria di persone quasi estinta”.
Lino Patruno

E Lino Patruno, jazzista di grandissima fama: “Lo incontrai la prima volta con Svampa negli anni 60, quando con Brivio, Magni e lo stesso Gianni formammo I Gufi. Cercavamo materiale di folklore, vecchie tradizioni popolari dalla viva voce dei cantastorie che bazzicavano i ‘trani’ della periferia della città e trovammo Berto”. Fu lui a indicare ai quattro del famoso complesso una delle opere di maggiore successo: “El ridicol matrimoni”, bosinada di fine secolo, protagonista un tale che, sceso a Milano a cercare moglie, la trova in un “trani”. Nanni e compagnia la inclusero ne “La Milanese”, sedici dischi 33 giri sulla Milano di una volta, presentati alla Cascina Abbadesse di viale Zara, in una serata affollata di critici, cronisti, dirigenti di case discografiche, convocati dall’ufficio stampa della Durium di via degli Osii, che aveva pubblicato la raccolta.

Era anche un uomo molto umano, Berto. Amava il Barbera, che come Barbapedana (Enrico Molaschi, il prototipo dei cantastorie meneghini, “ch’el gh’aveva el gilè long una spanna…”) buttava giù tutto d’un fiato tra un pezzo e l’altro; i piatti appetitosi e le “ostie” di salame. Personaggio vivo, autentico, “di una semplicità quasi ingenua”, che – ricorda Barigazzi - si affezionava alle sue canzoni come a una creatura. Voleva che rimanessero per sempre patrimonio delle osterie, tramandati di anno in anno da quei personaggi genuini che sono appunto i cantastorie. E quando, per esempio, il brano “La Balilla” fu portato in teatro e in televisione e inciso nei dischi, lui non volle più interpretarlo, nonostante gli fosse richiesto a gran voce dagli avventori dei “trani”, appassionati della sua arte.

Cascina dei Pomi
A Milano, di “trani”, ce n’erano tanti: il “Tranin” di via Erodoto, a Precotto; la Bocciofila Martesana, in via Tofane, dove Berto andava la domenica; la “Conca fallada”, in via Chiesa Rossa, dove furoreggiava la canzone ”Magnano”, che Cochi e Renato, allenati nel “trani”, portarono al “cabaret”; “Vecchia Gorla”; la “Brusada”, in viale Federico Caprilli, a due passi dall’ippodromo di San Siro, aperta nel 1875 in una cascina, primo titolare Ercole Bozzo; la “Magolfa”, nell’omonima via, poco distante dal Naviglio Grande, dove le signore eleganti, nutrite di galateo, si rallegravano ascoltando i brani dei menestrelli; l’osteria “I tri Basej, in via Valpetrosa; “la Cascina dei Pomi, dove arrivavano comitive con i “barchetti”, l’omnibus, le vetture di piazza per una gita fuori porta; il vicerè Raineri; Giacomo Casanova; Carlo Porta, al quale, senz’alcuna giustificazione, fu attribuito un brindisi del 14 maggio 1809 che inneggiava allo scampato pericolo corso dalle truppe napoleoniche in un attacco improvviso degli Austriaci sull’Isonzo”


A sentire cantare Berto, riviveva la Milano dei ballatoi delle case di ringhiera, con le liti e i pettegolezzi delle donne nei cortili di corso San Gottardo (“el Borg di formaggiatt”), di via Borsieri, e un po’ anche la Milano di Paolo Valera, la via Scaldasole, “quei di cuni, venditori di corolle di castagne secche infilate in uno spago.

Di professione Berto faceva il pellettiere; il giovedì e il sabato, come detto, andava al “Tranin”; la domenica alla Bocciofila Martesana, sorta nel 1907 (il gioco delle bocce vi si svolgeva su due campi divisi a metà da un cordone di cemento). Quando non c’era, gli amici dicevano di lui: “L’è in gran turismo”, perché si spostava in automobile, ma per lavoro, non per vanagloria o per passatempo.
Umberto Caravaggi, Berto

Comunque, quando lui arrivava era subito festa. E parlando di Berto ci vien voglia di riaprire “Le osterie di Milano”, che sono, per Montanelli, “quanto di meglio, credo, sia stato scritto sull’argomento. All’occhio e alla penna di Barigazzi nulla infatti è sfuggito”. Il vecchio Leone aggiunge: “Sono pagine che si leggono d’un fiato, zeppe di aneddoti, popolate di personaggi illustri e oscuri…”).

“In piazza Belfanti – racconta Barigazzi - alla sinistra dell’imbocco di via Spezia, il rettilineo che porta all’autostrada dei Fiori, c’è il più famoso vivaio di cantastorie, la “vecchia osteria al Praticello”, gestita dal 1886 dalla famiglia Invernizzi - Fontana, che la rilevò quando già era attiva da una ventina d’anni: ebbe fra il pubblico Pietro Nenni e altri “leader” politici anche del regime. Rispolvero questo volume con estremo interesse e con malinconia, perché da tempo Peppino Barigazzi, di cui resta anche un altro interessantissimo volume, “La Scala racconta”, non c’è più. Restano anche le descrizioni delle atmosfere dei luoghi, alcuni scomparsi, e le canzoni che vi venivano interpretate: “Il loro repertorio comprendeva cochonneries” e canzoni di tradizione, diciamo così, di quelle che fanno sorridere per la loro carica d’ironia senza far arrossire nessuno”. Al “Praticello” i “Gufi” cantavano “L’Ambrusin”, la storia di un tale che si imbatte in una donna su un tram e va con lei in un trani a sorseggiare un “cichett”, vagheggiando uno di quei piaceri da annoverare tra i ricordi memorabili; e invece la signora propone “un spuntin” per tacitare lo stomaco, e lui pensa alle lacrime del portafoglio mentre lei mangia come se non lo facesse da chissà quanti anni. Alla fine lo invita a casa sua per bere un caffè e lì una rivelazione lo sconvolge: “lei” è un “lui”.

Barigazzi aveva incrociato Berto al “Tranin” e lo considerava un cantastorie d’eccezione: “Giusto uno di quelli che tengono una chitarra all’osteria e una a casa”. Il Berto, che divertiva; che quando cantava faceva dimenticare i problemi quotidiani. “Il primo saggio che ci ha dato del suo repertorio è durato due ore, due ore trascinanti di ‘risotti’ e Barbera, pane e cotechino, in un’atmosfera autentica e viva, fra gente che ama la vita e sa goderla nei suoi aspetti più semplici e genuini. Due ore deliziose, di quelle che mettono allegria, ti ricaricano”.
Il Giambellino oggi

Ma che cosa dice “La Balilla”, che Berto non voleva più interpretare perché commercializzata? E’ la storia di uno che, accumulato un bel po’ di denaro, acquista la famosa auto prodotta dalla Fiat negli anni 30 ed esposta alla Fiera di Milano due anni dopo, per trovarsi poi con in mano un pugno di mosche, perché amici e parenti lo hanno prosciugato. Continuavano a cantarla Enzo Jannacci, i Gufi, Giorgio Gaber, di cui si ricorda “Trani a gogò” e la ballata del Cerutti Gino, che frequentava il bar del Giambellino, testo di Umberto Simonetta. Io incontrai Gaber, cantante, cabarettista, attore, regista milanese, una sera all’Intra’s Derby Club di viale Monterosa, mentre il pubblico, che annoverava anche Paolo Stoppa e la moglie Rina Morelli, applaudiva con entusiasmo credo proprio i Gufi.

Berto aveva un repertorio ricco e variegato: tra l’altro, come altri cantastorie, creava brani amalgamando i ritornelli di diversi altri: una serenata a un’ispirazione antiaustriaca, coinvolgendo anche motivi della malavita, come “Mi redimo”. Contaminazione felice e divertente.

Quando morì, Berto non era stato dimenticato. Lo notai il giorno dopo ricevendo diverse telefonate di meneghini desiderosi di sapere particolari sulla sua morte. Quando arrivò Giuseppe Barigazzi, io ero già al giornale da un pezzo.
Franco Trincale in piazza Duomo
Passò davanti al mio tavolo, amareggiato per la perdita di un artista che apprezzava e si complimentò per il ritratto dello storico menestrello che avevo fatto. Io non lo avevo mai visto, Berto; ma Svampa, Patruno, Magni, Brivio, Intra, Gaber… sì. Come ho conosciuto un menestrello dei giorni nostri, Franco Trincale, che per anni si è esibito in piazza, prevalentemente in San Babila a Milano, ha pubblicato dischi, raccolte, ha mandato in bestia uomini politici: il suo repertorio si snoda su temi di via quotidiana e di polemica politica. Adesso, Trincale, che è diventato un amico, ha ottenuto dallo Stato la pensione prevista dalla legge Bacchelli. Qualche mese fa è ricomparso in piazza Duomo, calamitando centinaia di persone. Io l’ho ascoltato in una registrazione. L’essere anziano non comporta l’esaurimento della creatività.