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mercoledì 29 giugno 2016

IL PITTORE FILIPPO ALTO DA BARI A MILANO



NEI SUOI QUADRI COGLIEVA 

 

IL FULGORE DELLA PUGLIA  






Locorotondo - panorama
D’estate dipingeva nella sua casa di 
Figazzano, vicino a Locorotondo, e la sera organizzava manifestazioni culturali, invitando amici e personalità della cultura, del giornalismo, dell’arte.
Della sua pittura scrissero i maggiori 
critici, da Raffaele De Grada 
a Roberto Sanesi  a Raffaele Nigro….
Fece mostre a Los Angeles, Toronto, 
Bruxelles…
Morì nel settembre del ‘92
in una clinica di Nottwill, in Svizzera 







Franco Presicci


Filippo Alto
Uno dei grandi pugliesi da inserire nell’albo d’oro di Milano è stato Filippo Alto, artista barese scomparso nel settembre del ‘92. Ricordo le tele da lui realizzate, con più brani di paesaggio insieme legati da tralci di vite o da rami di fico o da scampoli di muretto a secco, e penso all’amore che nutriva per la Puglia. Si trasferì al Nord, ma non dimenticò mai quest’angolo benedetto, dalla luce inconfondibile. Numerose le mostre personali: a Titograd, a Spalato, a Bruxelles, Toronto, Sarajevo, Los Angeles…Molti i critici che a suo tempo ne hanno parlato: Rossana Bossaglia, Pietro Marino, Maurizio Calvesi, Mario Lepore, Carlo Munari, Roberto Sanesi, Mario De Micheli, Raffaele Nigro… Ma non se ne vantava. Era un uomo equilibrato, tranquillo, discreto, riflessivo, sincero, rispettoso, amareggiato per le violenze che l’uomo fa alla natura.
Ugo Ronfani
E un’artista autentico: quante commozioni ha suscitato con la sua tavolozza antiretorica, con la quale celebrava la sua terra, che ritraeva ovunque si trovasse: a Trani, a Cisternino; ad Alberobello, a Ostuni, a Martina Franca. Aveva cominciato da ragazzo, quando in una stanza della sua casa in via Sonnino, a Bari, dipingeva i campanili e i tetti, le finestre, i balconi della sua città. Sogno, memoria, realtà si condensavano nelle immagini che catturava negli anni osservando dal finestrino di un treno che lo portava nella sua dimora estiva, dove fortificava le sue radici, spaziando fra i trulli, le vigne, gli ulivi, i muri a secco fatti con pietre zoomorfe. Un percorso fulgido. Presente nel panorama culturale italiano, Alto veniva invitato a collettive importanti e a convegni. Fu nel consiglio della Triennale di Milano, e nell’83 ebbe l’incarico di consulente del ministro per i Beni culturali Vernola.
F. Alto, S. Grasso e l'editore Fenu
Lo conobbi il giorno in cui Giacovazzo accolse i giornalisti in televisione, in corso Sempione, per la visione del documentario su Domenico Cantatore, che aveva realizzato nello studio dell’artista a Milano e a Ruvo di Puglia, dove il pittore delle Odalische era nato. Il primo documentario a colori per il piccolo schermo. Simpatizzammo subito, io e Filippo. E lui, salutandomi, “Vediamoci, abito in via Calamatta 17” (credo che il proprietario fosse Guglielmo Miani, un altro grande pugliese). Presi l’invito al volo e non lasciai passare molto tempo. Bussai un pomeriggio dal clima incerto. Mi mostrò le sue opere, dalle felici metafore, sulla Puglia e la stanza in cui nascevano. Ci rivedemmo a Martina, nella sua campagna, poi venduta per acquistare un palazzetto al termine di una salita a Figazzano, subito dopo Sisto.
Alto, Nenella, Giacovazzo e Chechele
Qui lo studio era all’ultimo piano, come il cassero di una nave mercantile.
Diventammo amici: d’estate stavamo spesso insieme. Non mancavo mai alle serate che organizzava nell’ampio cortile con centinaia di personalità, tra cui il ministro Vernola, il poeta Egidio Pani, il giornalista della Rai Antonio Rossano, Premio Saint Vincent di giornalismo nel ’75, tra l’altro autore del libro “Miracolo a Martina” sul Festival della Valle d’Itria, che seguiva per Rai3, e del libretto “O cambiamo protettore o rubiamo San Nicola”, considerato come San Cataldo amico dei forestieri.
Da sx: Filippo Alto, Presicci, il sindaco Tognoli, il gallerista Nencinil; dietro il giornalista Del Mare e il ministro Vernola
Ci veniva anche Giuseppe Francobandiera, scrittore, direttore del Circolo Italsider alla Masseria Vaccarella. In una di queste serate, dopo una splendida esibizione al pianoforte di un medico musicista, Filippo cedette il microfono a don Oronzo, un contadino anziano, estroso, arzillo, buon conversatore, con tante storie da snocciolare: la vendemmia di una volta, la vita di campagna, l’uva pestata con i piedi nudi, il mosto nei capasoni con la bocca cementata; la fatica, la grandine che colpiva le piante a tradimento annientando le speranze. A Figazzano arrivavano amici da ogni parte. Dalla città del Porta, fra gli altri, il critico d’arte Raffaele De Grada, docente a Brera, autore di una storia dell’arte pubblicata da un editore di Napoli. Poi a Milano Filippo traslocò in via Porro Lambertenghi, all’Isola Garibaldi, dove avevano avuto la culla Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri e il “re dei frigoriferi” Giovanni Borghi. E anche qui divorammo chili di orecchiette sagomate dalla deliziosa Ada o di pasta con i ceci innaffiati di peperoncino indiavolato, appetito da Vito Plantone,
Vito Plantone
Don Oronzo
Enzo Caracciolo, Martino Colafemmina, ingegnere di , Sebastiano Grasso, critico d’arte del “Corriere”; Arnaldo Giuliani, capocronista dello stesso giornale, uomo saggio e giornalista di notevole esperienza e bravura; Mario Marenco, architetto, designer, comico che dopo aver debuttato alla radio con “Alto Gradimento”, era passato in televisione con “L’altra domenica” , “Indietro tutta”…, e al cinema con “Il papocchio”, sempre con Renzo Arbore. Filippo aveva una laurea in ingegneria, ma non lo diceva mai. Se era costretto, spiegava che il titolo l’aveva conseguito per far piacere alla madre. Quando studiava se ne stava chiuso nella sua stanza a disegnare e appena sentiva i passi avvicinarsi nascondeva l’elaborato nel cassetto per riprenderlo quando cessava il pericolo di essere scoperto. A Milano era preside dell’Avio School International senza mai trascurare colori e pennelli. Mi viene in mente una sua esposizione nella Galleria di Renzo Cortina, in piazza Cavour, salutata con entusiasmo da una folla di professionisti e appassionati d’arte.
Acquaviva delle Fonti, Costantino Muscau, altrs colonna del “Corriere” (inviato speciale a Cuba, in Afganistan…). Amici anche Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno” e critico teatrale, già corrispondente da Parigi; il poeta maceratese Leonardo Mancino, Mario Azzella, giornalista e documentarista della tivù; lo scrittore Nino Palumbo.
Mario Azzella e Nino Palumbo
Quando spensero le luci invitò alcuni di noi in un ristorante pugliese, concedendomi il piacere di sedere di fianco a Marietta, l’attrice che con “Coline” ogni domenica mi teneva inchiodato alla radio per ascoltare “La caravella” in dialetto barese. Me la presentò, rivelando a tutti questo mio segreto, e provai un’emozione indicibile. Filippo era un buontempone geniale. Un giorno Mario Oriani, direttore di “Qui Touring”, ci pregò di andare in redazione, in via Chiossetto, dove ci espose l’idea di cinque o sei pagine da dedicare in ogni numero ai capoluoghi delle regioni, cominciando da Bari. Io dovevo scrivere questo pezzo e Filippo doveva illustrare tutte le città. Accettammo e le pagine con i suoi dipinti sapientemente riprodotti riscossero ammirazione in tutta Italia. La nostra amicizia si è spezzata nella clinica di Nottwill, in Svizzera, luogo in cui Filippo si spense dopo un lungo calvario dovuto a un incidente stradale nei pressi di Ancona. Qualche giorno prima di Natale. Stava andando a Foggia con Ada e i due figli, Giorgio e Diego, per trascorrere le feste con la mamma.

mercoledì 22 giugno 2016

Franco Bompieri tonsore e scrittore






Fece la barba al principe De Curtis

che recitava nelle vesti di Totò


I suoi libri pubblicati da Rizzoli, Feltrinelli,Longanesi.

             

                       

La sua "Antica Barbieria Colla” vanta fra i suoi clienti Cesare Romiti, Tronchetti Provera, Enzo Bettiza.



In passato ha preso per

i capelli anche Enrico Cuccia, Luchino Visconti,Marcello Mastroianni e Raffaele Mattioli.









Franco Presicci




Bompieri con i suoi collaboratori
Bompieri con E. Tadini
Una sera del settembre 1966 avevano già spento le luci, quando comparve il portiere del Clubino per avvertire che il giorno dopo, verso le 10.30, il principe Filippo di Edimburgo sarebbe venuto nell’Antica Barbieria Colla per farsi radere.In Italia per una battuta di caccia organizzata dal marchese Medici del Vassello nella sua riserva La Mandria in Piemonte, dopo gli spari Filippo avrebbe partecipato a una festa a palazzo Belgioioso, dove il marchese abitava, quindi avrebbe dormito nella foresteria del Clubino.Il principale e i suoi collaboratori si dettero da fare per tirare a lucido il salone, collocarono anche un bel mazzo di fiori freschi sulla cassa, ma all’ora indicata sua altezza non si fece vedere. Lasciarono passare un po’ di tempo, poi chiamarono il messaggero, il quale si scusò: proprio in quel momento gli stavano dicendo che il principe si radeva da solo.
Allora Franco Bompieri, che racconta l’episodio, e tanti altri, nel suo divertente libro “Presi per i capelli”, non era ancora il proprietario della famosa barbieria di via Morone, che non solo collega
Piero Mazzarella con F. Presicci
via Manzoni a piazza Belgioioso: è anche il tracciato sinuoso su cui sorge la dimora di “don Lisander”, come chiamano i milanesi l’autore de “I Promessi Sposi”.
Bompieri ha una memoria fertile e fluida, e dei suoi clienti, presenti e passati, tutti personaggi importanti, da Enzo Bettiza a Enrico Cuccia, ricorda pregi, difetti, abitudini, particolari succosi. La prova è in quest’opera (pubblicata da Mondadori nell’aprile del 2000), in cui si apprende che l’autore fece addirittura barba e capelli al principe De Curtis, in arte Totò. A quel tempo cominciava la sua carriera professionale nella veste di secondo taglio nella barbieria dell’Hotel Continental, in via Manzoni. E subì un certo imbarazzo quando gli fu ordinato, essendo i suoi colleghi impegnati con altre teste, di andare nella suite 416 per servire Totò, a Milano per una serie di recite al teatro Nuovo.
Il Salone di Bompieri
Bompieri imboccò le scale di servizio, bussò e si trovò di fronte a una signora elegante e gentile. “Papà, è arrivato il barbiere”. Il comico, già famoso, uscì vestito di tutto punto, si sottopose a rasoio e forbici, poi si guardò allo specchio e al giovane tonsore, di soli diciassette anni, consegnò 10mila lire. “Non ho il resto”. “Non occorre”. Il taglio costava 3 mila lire. Tra i suoi clienti Bompieri ha avuto anche Raffaele Mattioli, per lui l’ultimo banchiere rinascimentale e per “Le Monde” il più grande banchiere italiano dopo Lorenzo de’ Medici. Abitava in via Manzoni e per andare al suo ufficio, alla Commerciale, in via Case Rotte, non più di cento metri, “usava – riferisce Gaetano Afeltra nel suo libro ‘Milano amore mio’ – un’automobile di vecchio modello, credo una Balilla”. Mattioli era anche un letterato: non vedeva alcuna differenza tra una poesia e un bilancio: tutt’e due erano per lui un’opera d’arte. Un banchiere umanista.
Franco Bompieri con Gianni Brera
Franco pregò Gianni Brera di scrivere la prefazione ad “Arriva il principe”; e il grande giornalista, deponendo piano sul tavolo una bottiglia di Barbaresco, acquistata a Casalpusterlengo da Croce, gli rispose: “Ho letto il tuo libro. Non è male, anzi. Te lo presento volentieri soprattutto perché sei uno dei pochi che sa usare il dialetto senza pretendere di inventarlo e di spiegarlo e perché dai la possibilità agli italiani di comprenderlo. E non ultimo perchè tu un sei barbiere, un plebeo come me, quale mi vanto di essere”.
Barbiere e scrittore. I suoi libri sono stati pubblicati da Feltrinelli, Rizzoli, Longanesi; e il suo salone è frequentato da Cesare Romiti,
Cesare Romiti con Franco Bompieri
Carlo De Benedetti; Tronchetti Provera, Gad Lerner; e in passato accolse il conte Carlo Faina, Ernesto Calindri, Enzo Jannacci, Indro Montanelli, Mario Soldati, Giuliano Gramigna; oltre a Marcello Mastroianni, Luchino Visconti, Vittorio Gassman… quando venivano a Milano. Un pomeriggio da Bompieri ho incontrato Enzo Bettiza, penna d’oro del “Corriere” ai tempi di Montanelli. Si sedette sulla poltrona girevole dopo aver appoggiato su una sedia una camicia e una cravatta sulle quali si rovesciò il caffè affidato da Bonpieri all’orlo del lavandino. Bettiza non si scompose e rincuorò il tonsore: “Nessun problema, dovevo comunque tornare a casa”. E prima di uscire lo abbracciò, come aveva fatto entrando.
Conobbi Franco Bompieri nel ’75, quando Longanesi sfornò “Il freddo nelle ossa” (nel 1994 riproposto da Feltrinelli). Mi ricevette con una cordialità da vecchio amico e si sottopose alle domande mentre sforbiciava a memoria una chioma illustre.
G. Gaber con Bompiani
E mi parlò del primo titolare del salone, Colla, un vero maestro che aveva rasato anche Pirandello e D’Annunzio. Mi disse che la barbieria fu aperta nel 1904 in via Manzoni 17, quando non si era ancora spento il ricordo del tuono del cannone imposto da Bava Beccaris nel 1898 per reprimere i moti milanesi. Quando Colla scomparve, gli successe Guido Mantovani, che un po’ maniaco di ogni cosa al suo posto esigeva che pettini e spazzole fossero sempre bene allineate sulle mensole di lavoro. E dopo Mantovani, il timone passò a Franco. Che lavorava di giorno e scriveva di notte. E continua a farlo, a Milano e a Tellaro, dove ha la casa delle vacanze. E’ nato nel ’34 a Volta Mantovana. Non gli interessava diventare qualcuno. Lo è diventato senza volerlo. E’ un uomo semplice, bonario, simpatico, pieno di curiosità. Anni fa volò a Londra per conoscere Trumpet, il maestro che cura i capelli del marito della regina.
Enzo Jannacci con F. Bompiani  
Parlarono di Milano, di quella sparita dalla memoria dei più; dell’Antica barbieria Colla, che si trova a due passi dalla Scala e da Palazzo Marino, in una via corta e breve che sbuca in una piazza storica, la Belgioioso, che ascoltò i sospiri di Stendhal per la baronessa Matilde Viscontini (dall’illustre spasimante francese definita “bella e altera come l’Erodiade leonardesca, anima angelica nascosta in un corpo meraviglioso”).
Di Milano, dove arrivò all’età di 14 anni, Franco Bompieri conosce ogni angolo. Di notte percepisce il suo silenzio mentre riempie le sue pagine.
E negli intervalli gli capita di pensare a Enzo Jannacci,a Giorgio Gaber, suoi amici per tanti anni; “a una Milano che negli anni Sessanta tutti ci invidiavano: gli anni di Dario Fo, di Bruno Simonetta, Giorgio Strehler, Paolo Grassi…e di Jannacci, …”dagli occhi incantati, dalla timidezza esasperata, che sfogava la sua malinconia nelle sue prime canzoni…”: “La luna l’è una lampadina”, “Il palo dell’Ortica”. Lo rivedeva un tantino impalato all’indietro “sul microscopico palcoscenico del Gerolamo”. Lo stesso in cui io ammirai Milly, cantante e attrice, che nel ’56 ricoprì il ruolo di Jenny ne “L’opera da tre soldi” di Brecht al “Piccolo Teatro”; e Piero Mazzarella, grande attore milanese che tra le sue interpretazioni più memorabili vantava quella di Peppon: il brumista che elimina l’amante della figlia, nel “Nost Milan” di Bertolazzi.
Quando parlo di Franco Bompieri, un amico che stimo moltissimo, mi ritrovo immerso in una folla di ricordi. E corro il rischio di perdere gli argini.

mercoledì 15 giugno 2016

La vita e le opere di Dino Abbascià, imprenditore geniale


Abbascià ad un convegno

ARRIVO’ DA BISCEGLIE A MILANO A 13 ANNI

E COSTRUI’ UN’AZIENDA D’AVANGUARDIA






Cominciò lavorando in un negozio di frutta e verdura compensato solo con vitto e alloggio; ma si rifaceva vendendo gelati la sera in un cinema.

Aprì la “boutique” della frutta” in via di Porta Nuova.

 

Divenne vice presidente dell’Unione Commercianti e sedeva in vari consigli di amministrazione.

 

Un giornalista lo definì “il cavaliere con il nome da sultano”.

Abbascià ad una festa pugliese

 

 

Milano gli ha dato l’ "Ambroginod’oro".

 








Franco Presicci



Dino giovane a Milano

Un giorno andai a fargli visita nel suo ufficio, in via Toffetti 110, al Corvetto, a Milano, e lo trovai intento a sfogliare “I luoghi persi: atri, corti e cortili di Bisceglie”. “Guarda quant’è bello questo arco di via Gramsci…Che ne dici della Villa Guarini con la doppia scala di servizio, a tenaglia, per accedere al piano superiore?…Te lo regalo, il libro, così potrai conoscere la mia Bisceglie…”. “Tanti anni fa ci sono stato.
Dino Abbascià
Vi accompagnai mio figlio per una partita di tennis. Ne approfittai per vedere il porto, un dolmen, una chiesa, un pozzo monumentale, avvertendo il profumo della frutta fresca.”. Era innamorato del suo paese, Dino Abbascià, il cavaliere con il nome da sultano, come lo definì un giornalista. I professionisti della notizia lo rincorrevano spesso; e lui, che si alzava alle 4 del mattino per correre all’Ortomercato a comprare i prodotti della terra all’ingrosso e andava a letto tardi, rifacendosi con un pisolo il pomeriggio, non diceva di no a nessuno. Lo chiamavano in televisione a spiegare il motivo del prezzo delle ciliegie che aveva subito un’impennata? Prendeva subito l’aereo, se la trasmissione era a Roma.
Dino Abbascià con Nico Blasi
Un cronista gli telefonava per chiedergli un’intervista? Abbascià, detto anche il “fruttivendolo d’oro” e “il leader dell’ortofrutta”, lo riceveva senza fargli fare anticamera. Non gli importava che fosse di “Repubblica” o del “Corrierone” o di un foglio di provincia. “Il capocronista de “Il Giorno” – scuotendo la mia vita di pensionato – mi affidò una serie di pagine: la prima su di lui, mostrandomi una bella foto a colori che lo ritraeva nel suo deposito, enorme, ricco di colori e di odori, da dove partivano i furgoni, con il nome della ditta sulle fiancate, che distribuivano la merce ad alberghi, ristoranti, negozi, compresa la sua “gioielleria della frutta” di fianco all’ospedale Fatebenefratelli.
Abbascià-Avv.Bernardini De Pace-Prof.ssa De Natale
Chi non conosceva Dino Abbascià, faccia da Serge Reggiani, basso, capelli argentati, sorriso aperto, dinamico, generoso, scomparso il 13 giugno dell’anno scorso, giorno di Sant’Antonio, cogliendo tutti, amici e conoscenti, semplici estimatori, alla sprovvista? Un giorno mi telefonò da un ristorante dicendomi: “Ti passo una persona che ti vuole bene”. Era Giovanni Morandi, il direttore di allora del mio giornale. Incontrai Dino le prime volte nel salone di rappresentanza dell’Unione Commercianti, in corso Venezia, alla presentazione del libro di Emilia Bernardini “Antonietta e i Borboni”, e a quella di “Capatosta” di Beppe Lopez. Non era ancora il presidente dell’Associazione regionale pugliesi, ma il vice di Carlo Sangalli nell’istituzione che ospitava le manifestazioni.
Le Noci-Abbascià-Michele Stacca
E sedeva in vari consigli di amministrazione e ne presiedeva. Massimo Alberini, autorevole gastronomo ed esperto di circo e collezionismo, sul “Corriere della Sera” sottolineò le sue doti di “imprenditore geniale”, che per primo aveva portato sulle nostre tavole kiwi, papaia, mango…”. Con chi gli ricordava il giudizio di Alberini lui, che amava scherzare, si schermiva: “Non sapevo come si mangiassero, ma che gioia vedere i contenitori svuotarsi uno dietro l’altro”. Era un piacere stare con lui. Alle feste dell’Associazione, all’hotel Quark o altrove, era un anfitrione ineguagliabile. Quelle feste erano sempre affollate. Mentre le coppie si esibivano in un tango figurato, arrivava la telefonata di auguri da Al Bano da Cellino San Marco o da un Paese straniero; e Abbascià la faceva ascoltare con il vivavoce.
Abbascià-Le Noci a Martina
Erano amici da tempo. Abbascià era stato più volte a far visita al cantante nella sua tenuta in Puglia; e il cantante per lui si esibì anche all’Arcimboldi, dove, oltre a intonare le sue canzoni, raccontò episodi dei suoi primi anni milanesi, in cui lavorò come cameriere in un ristorante. Anche per Abbascià gli esordi a Milano furono magri. Arrivò quando aveva appena 13 anni: il 10 luglio del ’55; e appena scese dal treno alla stazione Centrale si sentì come Pinocchio nella pancia della balena. Uscito dalla Galleria delle Carrozze, ebbe un attimo di smarrimento alla vista dei colossi di cemento armato, del traffico caotico e assordante, della gente che correva quasi come Mennea su una pista. Ebbe la tentazione di tornare al suo paese, dove l’ambiente era più tranquillo e rassicurante. Passarono i giorni, lenti e pesanti, e scrisse alla madre pregandola di trovargli un posto nell’ospedale di don Pasquale Uva.
Abbascià con la figlia Annamaria
Ma ascoltò il cuore: “Dino, tu sei coraggioso e volitivo, acuto e sfacciato, caricati di fiducia e vai. Milano è tua”. E dopo aver bussato a varie porte fu reclutato come garzone in un negozio di frutta e verdura di via Pacini. Solo vitto e alloggio; e libertà dalle 13 alle 19 la domenica. I soldi li prendeva la sera vendendo gelati in un cinema. Ai mercati generali, che allora erano in via Cadore, andava con il triciclo e la sera rientrava tutto bagnato per l’acqua colata dalla catalogna portata in spalla. Le consegne ai benestanti le faceva in bicicletta. Tra i garzoni vantava parecchi amici, con i quali si incontrava davanti alla Centrale o in piazza San Marco, dove giocavano al pallone, quando il titolare non gli chiedeva di accompagnare il bambino al Campo Giuriati. Il piccolo Abbascià cominciava a sperare.
Le Noci-Marasca-Abbascià
Veniva mandato in via Montenapoleone, il “salotto di Milano”, dove visse e morì Carlo Porta, ad acquistare tre pesche fuori stagione per una donna gravida nel negozio Moretti, per lo scrittore Alberto Vigevani il “Toscanini della frutta”, e lui osservando le ciliegie in mostra in cofanetti raffinati come fossero perle, sognava un regno come questo. Era contento. “Le clienti mi chiamavano ‘sciur’ e mi dicevano ‘Dino, el me daga un poeu de dote’, che erano gli ingredienti per il minestrone”. Era bravo, infaticabile, entusiasta. Urlava la qualità della merce con tanta passione da meritare anche qualche applauso dalle “sciure” in coda. Era un venditore nato. E vendeva tanto che gli altri ragazzi impegnati nello stesso lavoro, gareggiando con lui, perdevano sempre e dovevano pagargli l’aperitivo. Cambiò negozio, dove a 16 anni assunse il comando. I primi bagliori del successo.
Dino con la moglie Teresa tra i bambini in Kenia
Nel ’69 sposò Teresa, deliziosa, gentile archivista romana incontrata in una vacanza; rilevò l’esercizio di via Porta Nuova, gli cambiò i connotati, lo arredò con eleganza e divenne l’Armani della frutta. Il sogno si era avverato: Dino Abbascià il nuovo Moretti. Aveva già chiamato a Milano il fratello Donato, ma il suo impero, che si andava delineando, aveva bisogno di più forze; quindi arruolò gli altri fratelli, e fece venire a Milano anche i genitori. La famiglia si ricomponeva nella città che sa riconoscere e premiare il merito. Dino Abbascià era un “habanero” e non si cullava sugli allori. Perfezionava l’azienda che aveva modellato con cura, intelligenza, senza risparmio di energie. Lo prendevano ad esempio, cercavano di imitarlo.
Dino costruisce una scuola in Kenia
Lo sbarbatello venuto da Bisceglie aveva raggiunto i suoi obiettivi, era sulla vetta.Parlava nei convegni e nei consigli di amministrazione con garbo, competenza, da esperto di marketing, mercati internazionali, di leggi sindacali e sanitarie…I giornali continuavano a scrivere di lui. Il professore Francesco Lenoci, docente alla Cattolica e autore di oltre 30 libri, pellegrino e diffusore di cultura (a giugno parlerà a Noci nel chiostro delle Clarisse), ha detto: “Ha creato un’azienda d’avanguardia; è un eccezionale fornitore di qualità”.E lo vede cavaliere anche in cielo, perché lì sicuramente lo hanno portato le tante opere di beneficenza da lui compiute, tra cui la scuola in Kenya per bambini costruita con le proprie mani. Abbascià stimava moltissimo Lenoci, che ricambiava con affetto; e lo volle vicepresidente dell’Associazione pugliese. Un giorno a pranzo mi disse: “Sai, davanti a tanti laureati io parlo con il linguaggio della scuola dell’obbligo: sono un fruttivendolo”. Altro che fruttivendolo (era anche iscritto all’albo dei giornalisti). Quando prendeva la parola i laureati lo ascoltavano con attenzione. Lo rispettavano. La sua scuola era stata la vita. E sarebbe andato oltre, se non lo avesse fermato, a 73 anni, quella maledetta che nel mio dialetto si chiama “senzanase”. Milano ha dato a Dino Abbascià l’”Ambrogino d’oro”. Arrivando in ritardo.

mercoledì 8 giugno 2016

Nel capoluogo lombardo arrivò nel ’46 da giovane commissario


IL MITICO MARIO NARDONE UNA VITA PER LA POLIZIA





Raiuno lo ha raccontato a milioni di persone in uno sceneggiato di diverse puntate; ma a Milano, e non solo, lo avevano conosciuto e amato tutti. Trascorreva più notti in questura che a casa.
La moglie Eliana, milanese, aveva imparato a cucinargli i polipi affogati, ma si raffreddavano nell’attesa che lui bussasse alla porta.
E’ morto nel luglio del 1986







Franco Presicci





Uno sceneggiato in onda su Raiuno tempo fa lo ha raccontato a milioni di persone. Ma Mario Nardone era già ampiamente conosciuto, soprattutto in Lombardia. Sempre in pista, impegnato in indagini spesso complicate; nella cattura di malviventi, senza mai guardare l’orologio.
Mario Nardone (5° da sinistra) con la sua squadra
Fu lui ad occuparsi, nel novembre del ’46, arrestandola poche ore dopo l’esplosione della follia, di Rina Fort, che aveva ucciso, in un appartamento di via San Gregorio, la moglie e i tre figli del proprio amante; e fu ancora lui che, nel marzo del ’58, partendo da un paio di pantaloni trovati nel canale Olona, individuò la “batteria” responsabile del famoso assalto al furgone della Banca Popolare in via Osoppo; e quella che a due passi da via Montenapoleone aveva fatto razzia nell’oreficeria Colombo. Lui e la sua squadra. I giornalisti, tra i quali Enzo Biagi e Nantas Salvalaggio, lo cercavano per intervistarlo e quando ci riuscivano era come aver vinto un terno al lotto.
Mario Nardone con il questore Enzo Caracciolo
Mario Nardone era instancabile; sembrava avere il dono dell’ubiquità. Tutti convinti che quel genio delle investigazioni arrivato a Milano da Avellino nel ’46, all’età di 31 anni, non aveva “parenti” in letteratura: non era Maigret, come la gente lo definiva, e neppure l’ispettore Javert, che ne “I Miserabili” manda al bagno penale Jean Valiant. Per il suo fiuto era paragonato al gatto, ma lui fingeva di non saperlo: rifiutava le etichette. Era simpatico, Nardone, estroverso, spontaneo, semplice e soprattutto umano. Aiutò a guarire da una malattia misteriosa la moglie di un detenuto; e non fu quello il solo caso. “Io rispetto la mala anche se la combatto con tutte le mie forze; e la mala rispetta me”. Amava il silenzio, “Quando ho parlato con una persona ho parlato con centomila. Non è mai venuto fuori il nome di chi ha collaborato con me. Il segreto è sacro.
Ferdinando Oscuri e Mario Nardone
Non ho mai tradito nessuno”. Era già in pensione quando il 18 maggio 1985, ricevendomi con grande cortesia nella sua abitazione in via Tortona 76, dopo avermi preparato il caffè personalmente, perché la moglie, Eliana, era fuori, mi parlò anche dei propri difetti. “Uno dei tanti: mi arrabbio a freddo. Alla Mobile facevo di quelle sfuriate! Ma dopo cinque minuti mi dimenticavo e invitavo al bar chi avevo trattato male”. Il padre era questore; e quando dopo la laurea Mario gli comunicò l’intenzione di seguire le sue orme, si sentì rispondere: “Se ti aspetti che io ti raccomandi, stai fresco…”. Anche il papà era molto umano, “ma più duro, spartano”. Dottor Nardone, rievochiamo qualche sua indagine. Per esempio, quella che la portò in un appartamento sul lago Maggiore, dove, travestito da idraulico, sorprese mentre russava il “Paesanino”, un mungitore dall’astuzia rustica, che con il suo socio, il “Santangiolino”, aveva fatto i primi dei numerosi colpi indossando il mantello nero dei briganti della Bassa. “Da una cicala della ‘mala’ avevo avuto un’indicazione troppo vaga, ma io localizzai il rifugio e con la scusa di dover controllare una tubatura riuscìi ad entrare nell’appartamento vicino di un ricettatore e questi mi informò senza neppure immaginare che stava dando una mano alla polizia. Con me c’erano i marescialli Valente e Navarra”.
Prefetto M.Jovine e il Proc.Gen. A. Beria di Argentine
E la banda del semaforo rosso? “Erano elementi duri e specializzati della malavita romana. Molti rappresentanti di gioielli venivano rapinati con il sistema della gomma a terra; e ogni volta trovavamo una moto Guzzi di grossa cilindrata targata Roma, che risultava appartenere ad un tale rinchiuso a Regina Coeli. Lui giurò di non saperne nulla; non gli credetti, ma capii che in quell’orto non avremmo raccolto alcunchè. Fremevo. Ogni due o tre mesi i rappresentati, dopo aver visitato i clienti, giunti al semaforo, si ritrovavano con la vettura azzoppata; scendevano, azionavano il ‘cric’; e mentre eseguivano l’operazione la valigetta con il tesoro spariva. Incalzai i miei uomini, e non tardarono a portarmi in ufficio due ‘giovanotti’, che, messi alle strette, confessarono: erano in quattro, venivano a Milano in aereo, con la moto facevano il colpo, la lasciavano e se ne tornavano volando nella capitale. Smantellai così la loro attività durata un paio d’anni, dal ’58 al ‘60”. E di “Cip” che cosa mi dice, dottor Nardone? “Cip” passava le notti su una branda all’Albergo Popolare di viale Ortles; una sera rientrando rubò una “24 Ore” da un’auto parcheggiata lungo il marciapiedi, l’aprì e la trovò piena di oggetti che a suo giudizio erano cianfrusaglie.
Le prime macchine della polizia lasciate dagli americani
In un’osteria vicina alla darsena, tracannando bicchieri di vino e versandone generosamente ai presenti, li dispensò, in cambio di un bacio, una carezza, un abbraccio, un giro di valzer, alle prostitute che entravano per un panino o un caffè. Per sé tenne soltanto un anello. Uscì barcollando all’alba, si accasciò su una panchina e qualcuno gli sfilò il cerchietto d’oro con brillanti dal dito. Lo svegliò Mario Nardone, già al corrente dell’impresa di “Cip”, rivelandogli che collane e bracciali non erano bagattelle. I nomi, dottor Nardone. “Quelli no, mai. Per me è una questione di correttezza. Non ne faccio. Non per proteggere chi delinque, ma le loro famiglie. Possono avere figli che studiano o faticano onestamente; perché esporli, metterli alla berlina?”. Ascoltare Mario Nardone era davvero un piacere e un arricchimento per un cronista curioso e inappagabile, che trovava tanta polpa, in quel piatto. Ne approfittai.
Le jeep per il pronto intervento del dopoguerra
Aveva condotto indagini anche a livello internazionale, arrestando non solo trafficanti di droga, rapinatori di notevole spessore fuggiti all’estero, omicidi, ma anche professionisti del bidone… Accennò a “Don Mimì”, che dello scartiloffio era un fuoriclasse: si fece passare per marajà di una zona inesistente dell’India, e ottenne sovvenzioni per una serie di conferenze sulla schiavitù di quel popolo; vendette a Starace uno “yacht” appartenente ad altri; e a un gruppo di industriali elvetici una nave con tutto il carico, presentandosi nei falsi panni dell’armatore. La malandra le ha tolto il sonno, vero, dottor Nardone? Ha passato più notti in via Fatebenefratelli che a casa. “Già”. La signora Eliana, milanese, aveva imparato a cucinargli i polipi affogati e le melanzane alla parmigiana, ma spesso si raffreddavano nell’attesa che lui bussasse alla porta; e quando finalmente ce la faceva a stare a tavola con i suoi cari, riceveva una telefonata e correva magari dimenticando la giacca sull’attaccapanni. Qualcuno gli domandava: “Dottor Nardone, lei non dorme mai?”. “Mi bastano poche ore”. Di quelli che collaboravano con lui aveva una stima illimitata.
Vito Plantone ad una festa della Polizia
Erano Mario Jovine e Vito Plantone, in seguito nominati prefetto l’uno e questore l’altro di Palermo; Enzo Caracciolo, dopo il ’70 promosso questore anche lui…; e i sottufficiali Oscuri, Petronella, Giannattasio, Valente… ”Con Dalla Chiesa litigavo, ma eravamo sempre amici”. Oscuri mi disse: “Non delegava, voleva essere presente sul luogo del delitto, vedere di persona, ascoltare la gente, pescare indizi, particolari”. Aveva in testa nomi, cognomi, soprannomi di caporioni e gregari, gli indirizzi, i posti e le persone da loro frequentati. Dalla tecnica usata risaliva all’autore. Negli interrogatori osservava, leggeva le pause e i silenzi, le risposte tardive; tendeva tranelli, scandagliava, e alla fine vinceva. Basso, sottile, capelli neri disciplinati dalla brillantina, baffi discreti alla David Niven. Lo riconoscevano per strada e lo ossequiavano. A un tassista che non voleva farsi pagare la corsa sorrise, tirando fuori il portafoglio: “Scherziamo? Mi dica quant’è”. “Ma lei è il dottor Nardone!”. “Al servizio dei cittadini.Tenga il resto”. Era un poliziotto integerrimo, oltre che astuto, abile, allergico alla resa. Lo chiamavano dalla Cina e dagli Stati Uniti. Ce lo invidiavano. J. Edgar Hoover, capo dell’Fbi per quasi 50 anni (dal ’24 al ’72), ce lo voleva soffiare. Avrebbe fatto carte false per averlo nel suo “staff”. Lionel Hampton gli consegnò l’emblema di cittadino onorario di New York. Fu Mario Nardone a inventare la Mobile e il centralino telefonico per le chiamate di emergenza. Commissario nel ’46, fu a Parma, a Monza, a Milano. Da vicequestore gli venne assegnato il comando della Criminalpol. Nel ’70, eccolo questore, prima sede Como. E’ li che lo incontrai la prima volta, svolgendo un’inchiesta sugli aspetti motivazionali della droga. “Dalla polizia ho avuto molte soddisfazioni. Mi hanno mandato in Vietnam, in Giappone, in Cambogia, negli Usa, dove mi volevano arruolare, ma non sapevo l’inglese…Rifarei tutto quello che ho fatto”. Parlava senza enfasi. Stando in pensione passava i pomeriggi a guardare le partite in televisione. Se veniva a sapere di un delitto, gli scattava la molla, ma doveva reprimerla. Mi confessò che quando un’indagine era disseminata di ostacoli, alzava gli occhi al cielo e sussurrava: “Aiutami, papà!”. Morì il primo luglio del 1986.

















mercoledì 1 giugno 2016

"La Grotta di Trofonio" di Giovanni Paisiello alla 42° edizione del Festival della Valle d'Itria


 

La presentazione del programma al Piccolo Teatro Grassi di Milano con l'intervento del Presidente Franco Punzi, del direttore artistico Alberto Triola e del direttore musicale Franco Luisi. 

 

Il Comune di Martina 

rappresentato dall'Assessore alla Cultura

Antonio Scialpi

 

 


Servizio di Franco Presicci

"Premio vita da cronista 2015"



L'ass.re alla Cultura Scialpi con il presidente Punzi
La 42.ma edizione del Festival della Valle d’Itria andrà in scena a Martina Franca dal 14 luglio al 5 agosto. Intanto il 25 maggio è stato presentato il programma al Piccolo Teatro di via Rovello, 2, a Milano, presenti critici musicali, cantanti, compositori, giornalisti, melomani. A parlarne, il direttore artistico Alberto Triola; il presidente Franco Punzi; il direttore musicale Fabio Luisi, intervallati da un contributo dell’assessore alla Cultura del Comune martinese, Antonio Scialpi.
Triola ha raccontato le varie opere in maniera dotta e avvincente, cominciando da quella che inaugurerà la rassegna: “La Grotta di Trofonio” di Giovanni Paisiello, che, nato a Taranto nel 1741, tra i due mari visse l’infanzia nella casa di piazza
Monteoliveto, a pochi passi dagli odierni edifici che ospitano la capitaneria di porto e la cattedrale, nella città vecchia. Appena dodicenne Paisiello andò a Napoli e studiò con i maestri Gerolamo Abos e Carlo Cotomacci. Fu poi a Parigi come maestro di Cappella, diventando il musicista prediletto di Napoleone, che lo indicava – ricorda Giulio Confalonieri nella sua “Storia della musica” – “come modello proprio a quei maestri della Pleiade franco-italiana, i quali si sforzavano di esprimere gli ideali dell’era consolare e imperiale”. Paisiello - aggiunge, l’autorevole critico prima del “Giorno”, poi del “Corriere della Sera” - al Bonaparte “dava riposo, gli accarezzava l’orecchio”, per “la gran pace musicale” delle sue creazioni. “Il grande confessore del melodramma buffo del Settecento” (sempre Confalonieri), che Taranto ha la fortuna di avere avuto come figlio, fu apprezzato ovunque in Europa: Caterina II di Russia lo invitò a Pietroburgo tramite madame d’Epinay e il suo amico, barone Grimm, intellettuale illuminista che compilava tutto da solo un periodico specializzato; e in quella corte Paisiello compose un’opera seria, “Nitteti”, e tre giocose; e nel 1782 “Il Barbiere di Siviglia”, rappresentato, acclamatissimo, per la prima volta al Teatro del Palazzo imperiale il 15 settembre dello stesso anno. Ma aveva nel cuore Napoli e fece fagotto per ritornarvi, rispondendo all’appello di Ferdinando IV.
Escobar intervistato da Telenorba
Durante il viaggio, nel 1784, si fermò a Vienna, che lo ricevette con tutti gli onori; nel 1783 applaudì il suo “Barbiere”, quindi “La grotta di Trofonio”. Nel capoluogo partenopeo, dove aveva studiato al Conservatorio Sant’Onofrio a Capuana, imponendosi come autore di musica sacra a soli diciannove anni; composto, nel 1763, le sue prime opere, “La Pupilla” e “Il mondo alla rovescia”, seguite da “L’idolo cinese” e da il “Socrate immaginario”; sposato nel 1772 Cecilia Pollini e nel 1789 battezzato con grandissimo successo la “Nina pazza per amore” nei giardini della Reggia di Caserta, morì nel 1816. Nella sua città natale, pur ricordato e celebrato da associazioni di volontari, non gode di molta attenzione. Lo stabile, acquistato dal padre nel 1754, è in stato di abbandono e di degrado; la targa affissa sulla facciata quasi illeggibile. Nel dicembre del 2014 rifiuti e robacce sparsi all’interno presero fuoco e i locali furono giudicati inabitabili, per cui venne allontanata una famiglia nullatenente che vi aveva trovato rifugio. Insomma questa gloria tarantina alla quale nel 1907 Vincenzo Fusco intestò uno stabilimento balneare e nel 1915 un teatro tra le vie Mazzini e De Cesare, entrambi chiusi da tempo, hanno eretto un monumento, inaugurato nel 1960; dedicato una via nella città vecchia; ma lo stabile in cui nacque e visse parte della sua esistenza ha quasi bisogno delle grucce, e nessuno pensa a restaurarlo per valorizzarlo come museo.
L'assessore Scialpi con Annese
La memoria corta e l’incuria consentono all’erba selvaggia d’infiltrarsi tra le ferite di questa culla illustre (mi viene in mente “Tàrde vècchie mjie di Alfredo Nuniato Majorano). “Anche ad altri è stata riservata da noi quella sorte”, commenta un amico che ha la musica nel sangue. A Martina invece si apre il Festival proprio con un’opera di Paisiello “eccezionalmente ricca di pezzi d’assieme”, ha spiegato Alberto Triola, un’opera “in cui Paisiello esalta il meccanismo teatrale caratteristico del genere comico”. Un drappello di personaggi stravaganti – ha proseguito – “di varia caratterizzazione ed estrazione sociale, colti in un complesso intreccio di interessi contrastanti, nell’alternarsi di una tavolozza di sentimenti (seduzione, gelosia e competizione) si muove all’interno di una dimensione apparentemente realistica e quotidiana, in realtà perfettamente idealizzabile…con ambizioni, meschinità, egoismi e fragilità secondo i caratteri della satira e dei costumi del tempo…”. “La grotta di Trofonio” –frutto della collaborazione con la Fondazione del Teatro San Carlo di Napoli - andrà in scena per la prima volta in tempi moderni nel cortile di Palazzo Ducale il 14 e il 31 luglio. Il 30, il 2 e il 4 agosto sarà la volta, in prima assoluta mondiale, dell’inedita “Francesca da Rimini” di Saverio Mercadante.
Il presidente Punzi con Sergio Escobar
“Si tratta - ha sottolineato Triola nella conferenza stampa - di uno dei progetti più ambiziosi dell’intera storia del Festival della Valle d’Itria, che allinea un grande titolo di un compositore tra i maggiori dell’Ottocento italiano, un soggetto leggendario e due personaggi divenuti archetipi culturali per l’Ottocento: Paolo e Francesca, gli sfortunati amanti immortalati da Dante nel V canto de ‘La Divina Commedia’”. Nato ad Altamura nel 1795, Mercadante studiò anch’egli a Napoli, con i maestri G. Tritto, G. Furno, N. Zingarelli. Debuttò in qualità di operista nel 1819 e fu maestro di cappella nel Duomo di Novara dal 1833. Nel ’40 fu nominato direttore del Conservatorio partenopeo. Di lui si ricordano anche “Il bravo”, “Il reggente”, “Il giuramento”. Morì all’ombra del Vesuvio nel 1870. A Martina “Paolo e Francesca” avrà maestro concertatore e direttore d’orchestra Fabio Luisi e nella veste di regista Pier Luigi Pizzi, “che sta preparando una lettura destinata a sorprendere, essendo improntata sul più asciutto dei minimalismi possibili: i protagonisti si muoveranno all’interno di uno spazio scenico
Il dott. Basso e Annese incontrano il presidente Punzi
completamente vuoto, scosso da chiaroscuri di una colossale vela nera…”. Pizzi torna a Martina dopo vent’anni. Lo intervistai, allora, la sera in cui stava per far ritorno a Venezia e tra l’altro mi decantò la bellezza del barocco. “Percorro queste strade e stradine con il naso all’insù, affascinato”. Era attratto dalle ringhiere spanciate, e non solo da quelle. A dicembre fu protagonista come regista alla Scala, se non sbaglio nella “Medea”. Il cartellone del Festival comprende anche “Baccanali” di Agostino Stefani; e “Così fan tutte” di Mozart, con la direzione di Fabio Luisi; due serate prestigiose nel Chiostro di San Domenico: un omaggio a Henze e Boulez e “Giochi di Eros” con un inedito dittico in inglese, “Hand of Bridge” di Samuel Barber e “The Bear” di William Walton da Cechov. Per l’opera in masseria riecco Paisiello con “Don Chisciotte della Mancia”.
Non mancheranno i concerti, oltre al consueto appuntamento con i più giovani nell’ambito delle finalità anche educative del Festival perseguite grazie all’impegno della Fondazione Paolo Grassi diretta da Gennaro Carrieri. Lo ha ricordato Franco Punzi, introducendo il suo discorso con un omaggio a Paolo Grassi, che sempre incoraggiò ed esaltò la rassegna martinese, e a Nina Vinchi, che fece altrettanto e donò a Martina la biblioteca di famiglia. Il presidente ha quindi salutato il direttore del “Piccolo” Sergio Escobar, che ha ricambiato ribadendo che “scegliersi i compagni di viaggio è un diritto che rivendichiamo… e noi abbiamo scelto Martina, che ha un livello artistico molto alto, la responsabilità di esplorare in modo originale gli aspetti musicali…Martina è parte essenziale della cultura musicale italiana…”. Martina ha mantenuto la sua identità, ha ripreso Punzi. Martina incrementa l’importanza del Festival, con amore, entusiasmo, impegno, chiarezza, competenza, sostenendo, stimolando soprattutto i giovani, per i quali questo palcoscenico è un trampolino di lancio. Punzi ha poi letto il messaggio del presidente della Regione Puglia, Emiliano, il quale si è detto convinto che il Festival “continuerà negli anni a veicolare i valori della cultura e le qualità che da sempre hanno caratterizzato questo angolo meraviglioso della Puglia”. Che va visitata, per il Festival, ma anche per la magia del paesaggio. “La Valle d’Itria, spaziosa senza spreco e fiabesca con quei birilli che contrabbandano case ha fatto esclamare più volte da un terrazzo di Locorotondo: ‘Ma questa è la patria di Andersen!’”. Parola di Giuseppe Cassieri in “Radici di Puglia”.