Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 25 gennaio 2023

“Lo zio Aronne somigliava a Jean Gabin”

 

ANCORA IN LIBRERIA PIERO LOTITO

CON UN LIBRO TUTTO DA GODERE

 

Piero Lotito

 

Faceva il cronista, attento,

preparato e stimatissimo, al

“Giorno” di Milano, e scriveva

volumi destinati ad essere premiati.

 

 

 

Franco Presicci


Credevo che “I baffi neri del maestro”, il padre de “Lo zio Aronne somigliava a Jean Gabin", sarebbe andato dritto in libreria. Invece è rimasto nel cassetto per tanto tempo. Ricordo che si apriva con un insetto ucciso per disattenzione, procurando dolore all’autore del libro, Piero Lotito. Leggerlo mi aveva emozionato. Pensai: “Peccato che pagine così belle, tra l’altro scritte con uno stile arioso, delicato, tardi ad andare in vetrna”.

Ma ecco che dopo anni di silenzio, mentre io tornavo più volte ai baffi del maestro, troneggiare sugli scaffali “Lo zio Aronne somigliava a Jean Gabin”, Edizioni Ares: un libro molto più ampio dell’altro, contenente 468 “frammenti di memoria”, che si snodano quasi ritmicamente, captando l’attenzione del lettore. Ogni frammento si apre con un “mi ricordo”. “mi ricordo come in campagna mia madre sceglieva come tenermi buono (”accordarmi”, lei diceva) a seconda delle stagioni. In estate, col fresco e il dolce di una fetta di pane bagnata e spolverata di zucchero. Nei mesi più freddi con il calore di una patata appena lessa, che cercavo di raffreddare passandola da una mano all’altra e soffiandovi sopra a più non posso”. “Mi ricordo che da ”zia” Fiorina avevo comprato un serpente di gomma snodabile che mostravo a sorpresa alle mie sorelle Michele e Antonietta e anche alle loro amiche facendole ogni volta sobbalzare e urlare di spavento”. “Mi ricordo i soliloqui di strategia militare ai quali mi lasciavo andare muovendo i miei “indiani” di celluloide. Per “indiani” s’intendeva negli anni Cinquanta l’intero universo del Far West, pellirosse e visi pallidi messi assieme. Il mio patrimonio di figure era scarno, ma ben caratterizzato: il sioux con la scure, il capo tribù con il diadema di penne, lo stregone, lo stregone, la squaw con la fascia sulla fronte e una sola penna in testa, il trombettiere del 7° Cavalleggeri, il pistolero, l’uomo con il lazo, il fuciliere con i ginocchio a terra. Questo piccolo esercito che il giorno si scontrava in battaglia sul pavimento o sul tavolo, di notte riposava in una scatola di scarpe”. Ricordi netti, dettagliati. I ricordi sono un patrimonio rilevante, a volte gioiosi, a volte deprimenti.
Piero Lotito e Giorgio Guaiti
C’è chi ama rispolverarli e chi respingerli o cercare di rimuoverli. A volte qualcuno devia dall’ambito in cui sono custoditi, si gonfia o si decora. I ricordi di Piero Lotito sono autentici, testimoniati dalla personalità dell’autore, sempre preciso, serio, attento al valore che hanno le parole e le cose. Lotito non ama i ghirigori e le ghirlande, i fronzoli; i discorsi approssimativi, artificiosi. “Mi ricordo che in campagna o a Sant’Agata non mi era consentito uccidere le falene: l’insetto che svolazzava tra soffitto e pareti o annaspava contro i vetri rappresentava l‘anima d’un defunto venuta in visita, e allora bisognava lasciarlo un po’ con noi delicatamente incoraggiarlo a cercare l’aperto. Così mi spostavo di qua e di là a braccia aperte, segnalandogli più che una cacciata il cammino verso la luce. Sicuramente l’autore non condivideva la superstizione, che faceva, e fa, sia pure in tono molto minore, parte dell’esistenza degli anziani, ma la riferisce con delicatezza, dote che segna i suoi comportamenti quotidiani. Le credenze popolari non allignano soltanto nel Sud, dove, per esempio, erano diffusi l’aure”, spirito della casa, il mago della pioggia, i lupo mannaro… “Mi ricordo quando nell’aprire un solco prima che la chimica irrompesse nell’agricoltura con diserbanti e concimi, nei campi era tutto un agitarsi di vita animale e vegetale. Dietro l’aratro comparivano minuscoli topi di campagna che correvano tra le zolle che si frantumavano rivelando una grande varietà di insetti e di lombrichi e anche di buonissimi lampascioni che mia madre cucinava con le uova o lessava bagnandoli con l’aceto.
 
 
Piero Lotito e Giorgio Guaiti-Presicci in 1° piano
In tempo di mietitura, poi, davanti alla falce o alla mietitrice, si levavano nugole di farfalline, grilli e cavallette... E alla carratura, quando si coglievano le gregne (re grègne) portandole sull’aia in vista della trebbiatura, era facile che smantellando i covoni (asiérre) volasse via una quaglia e sotto l’ultima gregna si nascondesse una biscia, che prima si fingeva morta e poi Piero Lotito e Giorgio Guaiti.jpegfilava trar le stoppie”. Oggi, ricordo io, in campagna non si sentono più stridere le cicale, non si vedono più volare le farfalle (era splendido il macaone) e non si possono più raccogliete le lumachine (“ciambrachelle” in dialetto sanseverese). Lotito nei sui ricordi offre dunque anche esempi di vita e di lavoro sulle zolle, quando i contadini erano tanti e gli attrezzi agricoli di altro tipo. Anche per questo è godibile la lettura de “lo zio Aronne somigliava a Jean Gabin”. Godibile e istruttiva.
 
Compleanno in Cronaca
“Mi ricordo gli sparsi racconti di famiglia sull’ultima guerra, costata a Sant’Agata 26 caduti, ventidue dispersi e sette vittime civili. Fra i dispersi anche un fratellastro di mia madre, Michele, partito volontario per il fronte e ritenuto irreperibile dal 1941, quando avrebbe avuto 29 anni. Nel 43, quando l’aviazione alleata si accaniva contro la città di Foggia con bombardamenti continui – dal mese di maggio a tutto agosto – i bambini correvano nella zona di San Rocco, tra le più alte del paese, dicendosi l’un l’altro: “Andiamo a vedere le fiamme di Foggia…”. E ancora: “I giorni che seguirono l’armistizio dell’8 settembre del ’43 furono difficili anche per Sant’Agata.
 
Catania,l'attrice Ottavia Piccolo,Lotito
I tedeschi, incalzati dagli alleati e però favoriti dal clima di paura per possibili rappresaglie, imperversavano nei paesi e nelle campagne pressoché indisturbati: A Sant’Agata s’impossessarono tra l’altro d’un furgone del molino Fredella e del suo carico, forzarono il garage dei pullman di Ascanio Barbato prendendovi alcuni mezzi, presero dal municipio l’elenco delle vetture private requisendone un gran numero, spadroneggiavano nei bar e occupavano masserie…”. Sono molti in Italia - aggiungo ancora una mia considerazione - quelli che hanno dimenticato quelle esperienze drammatiche e tantissimi giovani non ne sanno niente. E dire che corriamo ancora quel pericolo, molto più grave.
 
 
Piero Lotito con Enzo Catania
Conosco Piero Lotito da anni.
Abbiamo lavorato insieme nella Cronaca del Giorno, prima diretta da Enzo Macrì, poi da Enzo Catania, due fuoriclasse. Io mi occupavo di cronaca nera, Lotito lasciò la nera, dove era bravissimo per le capacità intuitive, per passare alla cultura. Scriveva premiati testi teatrali, mandò in stampa “Il pugno immobile”, un libro bellissimo che parla dell’epoca del terrorismo e della paura che avevano i giornalisti, le cui redazioni si rifugiarono nella Torre Velasca; un libro scritto in modo mirabile, che disegnava gli stati d’animo delle persone, le situazioni, gli avvenimenti di quel periodo tormentato. Lotito era dunque molto apprezzato, i suoi articoli seguiti, tanto che ricevette le congratulazioni di Vittorio Sgarbi, allora assessore alla Cultura. A volte siamo intervenuti insieme su eventi gravissimi (omicidi, sequestri non soltanto negli anni di piombo), collaborando in armonia, scambiandoci suggerimenti, dividendoci i compiti senza competizioni di sorta. Ricordo l’assassinio in auto di una coppia nei pressi dell’Ortomercato; l’irruzione di tre banditi il 14 luglio dell’80 in una banca nei pressi di piazza degli Affari, durato dal pomeriggio al mattino alle 10 del giorno dopo, con i dipendenti in ostaggio; un regolamento di conti in un ristorante, dove una delle due vittime rimase con la faccia nel piatto fumante; l’intervista a Silvio Ceccato, lo studioso che più di ogni altro ha contribuito a far conoscere la cibernetica in Italia (uno dei suoi libri “”Ingegneria della Felicità”) all’inizio del ’90.
 
 
Lotito in piazza Cavour
Gli articoli i Piero Lotito erano sempre esemplari, da professionista esperto, di alta caratura, appassionato, sempre impegnato a valutare le ipotesi che gli investigatori fornivano nelle conferenze-stampa. Nelle ore libere si occupava di teatro (una sera con gli altri colleghi andai ad applaudirlo in un locale dalle parti di Rozzano in cui recitava); e per il teatro scriveva testi che ricevettero premi. Nel ’97 ha pubblicato Intervista su Milano”; nel 2000” La notte di Emil Vrana” (premio Città di Scalea) e in Francia “Premier Roman de Chambèry”. E’ stato finalista nei Premi Bagutta, Bergamo, Rhegnum Julii. Nl 2007, Aragno ha dato alle stampe “Il pugno immobile”. E adesso un altro bellissimo libro, in cui ricorda anche avvenimenti internazionali, come l’invasione sovietica dell’Ungheria, le grandi tragedie che hanno sconvolto gli animi e pezzi di vita quotidiana; i cantanti, da Carosone a Peter Van Wood, che cantavano “Tre numeri al lotto”. E perfino il pugno sul naso che assestò a un ripetente ”grande e grosso” che aveva un comportamento vessatorio verso tutti i compagni di scuola. L’ho letto in poche ore questo zio Aronne che somigliava a Jean Gabin; e adesso lo rileggo piano piano, godendolo.










mercoledì 18 gennaio 2023

Una radiografia dell’America

 

IL LIBRO DI ANTONIO DI BELLA

UN RACCONTO MINUZIOSO

Gli Stati Uniti” è stato presentato

giorni fa nella sede dell’Associazione

Marinai d’Italia in via Gorizia a un

pubblico attento e numeroso. Alcuni

sono venuti da fuori, come il titolare

del famoso ristorante “Le tre Marie”

dell’Aquila.


 

Franco Presicci

Da anni conosco Antonio Di Bella, grande e coltissimo giornalista, corrispondente della Rai da New York. Lo incontrai la prima volta nel ’76 nel ristorante “La Pora Rossa” di Chechele e Nennella, dove il sindaco Carlo Tognoli consegnò al padre Franco il Premio Milano. 

Antonio Di Bella
Pagina del libro
 
 
 
 
 
 
 
Proprio quella mattina (se non ricordo male) Antonio aveva superato brillantemente a Roma gli orali dell’esame di Stato acquisendo il titolo di professionista. Serio, concreto, alla mano, rispettoso, educato, linguaggio sciolto, senza enfasi, rende sempre piacevole la sua compagnia. Lo rividi nell’85 al Convegno mondiale sulla criminalità organizzata allestito dall’Onu dal 25 agosto al 5 settembre e lo ammirai anche per il modo con cui ogni giorno avvicinava le personalità più importanti e le intervistava. In questi giorni arriva sulla mia scrivania un suo interessantissimo libro, “Gi Stati Uniti”, ricco di immagini icastiche sula storia d’America. Un libro che cattura subito l’attenzione e non l’allenta neppure per un momento. Una sorta di viaggio evocativo in cui il lettore s’imbatte in avvenimenti che hanno impressionato il mondo e in personaggi indimenticabili come i fratelli Jhon e Robert Kennedy, entrambi assassinati in seguito ad un complotto, (il primo a Dallas il 22 novembre del ’63; il secondo nel ’68 a Los Angeles).

Una pagina del libro
L’America: “Terra delle opportunità, Paese della libertà individuali, esempio della democrazia, che oggi impone la domanda se lo sia ancora”. Antonio Di Bella ripercorre 250 anni di storia statunitense, in cui è stato e continua ad essere coltivato il cosiddetto mito americano, cautelando, gli aspetti più ombrosi. Il volume ha inizio con la rivolta delle colonie e l’indipendenza, senza tralasciare alcun particolare. A proposito della bandiera degli Stati Uniti come sventola oggi, ricorda che è tata disegnata da uno studente di 17 anni dell’Ohio, Robert G. Heft, nel ’58, quando gli Stati Uniti comprendevano solo 48 Stati, ai quali, secondo il liceale, se ne sarebbero aggiunti altri. Come spesso accade, l’Idea dell’alunno non piacque al suo professore di disegno, ma non gli fu impedita la via per Washington per la partecipazione ad un concorso, dove il presidente Eisenhower lo premiò, scegliendolo fra 1500 candidati. E va detto che da adulto l’allievo contestato dal docente imboccò la carriera politica e diventò sindaco di Napoleon, nell’Hohio, lasciando la poltrona dopo trent’anni.

Storia e curiosità, leggenda e altro, in oltre 190 pagine che non annoiano mai, anzi attraggono e affascinano, appassionano, tenendo il lettore legato alla sedia. Segue un’immagine, in cui sono ritratte quattro donne intente a cucire il vessillo americano a stelle e strisce; e ancora una scena del film sulla battaglia di Alamo, con Jhon Waine in prima fila. Poteva mancare l’impegno delle donne, che anche nelle rivoluzioni, tra cui quella francese, hanno mostrato coraggio e tenacia? Quelle americane hanno lottato per conquistare la parità, dalla first lady Abigall Adams, che implorava suo marito (il secondo presidente dell’Unione) di tener presenti le donne quando immagina un governo per le colonie americane, fino a Hillary Clinton, che è stata la prima donna americana candidata alla presidenza.

Il campo indiano dei Mikkosuke

 

E la febbre dell’oro in California, “innescata dalla scoperta di pepite nella Sacramento Walley all’inizio del 1848 ed è probabilmente uno degli elementi più significativi che hanno plasmato la storia americana durante la prima metà del XIX secolo”. Appena la notizia del ritrovamento si propagò ovunque, gli aspiranti alla ricchezza, a cavallo o con le diligenze o solcando il mare corsero verso San Francisco, mangiando polvere e affrontando pericoli, seppellendo molti uomini per strada.

Lenoci e Di Bella
In altre pagine, l’autore descrive efficacemente la guerra civile, schiavisti contro abolizionisti, iniziata nel 1861, “dopo decenni di tensioni fra li governo federale dell’Unione e gli Stati secessionisti del Sud sul tema dei diritti – in particolare sullo spinoso punto della schiavitù che il presidente Lincoln intendeva gradualmente abolire – e termina con la resa della Confederazione secessionista nel 1865”. In alcune piantagioni la schiavitù fu brutale, disumana: i neri venivano frustati, la famiglia si mutilava. I neri potevano essere venduti e subivano la proibizione di acculturarsi e di elevarsi. La schiavitù aveva critici e difensori. Alcuni intellettuali sostenevano che la schiavitù facesse più male che bene al Sud; altri, che la schiavitù era una vergona sia per il Sud sia per il Nord. I favorevoli dicevano che la schiavitù garantiva il lavoro, era provvidenziale per il tempo della vecchiaia. Tuttavia, venivano colpiti i neri: “il problema era la razza”.
Di Bella intervista il questore Lucchese

Gli schiavi neri – precisa l’autore - hanno svolto un ruolo importante nel gettare le basi economiche degli Stati Uniti; specialmente nel Sud. I neri hanno anche avuto un ruolo di primo piano nello sviluppo della lingua, dei costumi, della musica, della danza e del cibo del Sud, fondendo i tratti culturali delle loro terre africane con quelle dei coloni arrivati dall’Europa. Durante i XVII e il XVII gli schiavi africani e afroamericani (quelli nati nel Nuovo Mondo) lavoravano principalmente nelle piantagioni di tabacco, riso e indaco della costa meridionale. Ma non è solo il Sud a sfruttarli. Anche gli uomini d’affari del Nord costruiscono grandi fortune investendo nelle piantagioni del Sud, sula pelle di persone ridotte in schiavitù”. Il testo anche qui è accompagnato da una foto di raccoglitori di arachidi in Virginia all’alba degli anni Novanta dell’800. Un capitolo è riservato al Ku Klux Klan, la “gang” sorta nell’800 spietata nel terrorizzare i neri, bastonandoli, uccidendoli, incendiando le loro case, martirizzandoli. Fu un lascito della guerra civile, “fondato da ex veterani confederati come club politico e sociale nel Tennesse.

Ammiratori la sera della presentazione del libro

Simbolo dell’accanimento e della crudeltà degli aderenti nell’usare violenza contro i neri, una croce che arde. Concluso questo capitolo, si apre quello dell’immigrazione. “Ellis Island – scrive Di Bella – è un’isola nella Upper New York Bay, dove un tempo si trovava il centro di accoglienza per l’immigrazione negli Stati Uniti. Spesso indicata come la Porta del Nuovo Mondo, l’isola prende il nome dal mercante di Manhattam, che la possedeva negli anni ’70 del Settecento. Dal 1892 al 1924 è la principale stazione d’immigrazione della Nazione. Ne sono passati di disperati da quel luogo. Si stima che dal 1860 al 1973 abbiano abbandonato l’Italia circa 24 milioni di persone, un terzo delle quali abbiano oltrepassato il confine per fermarsi in Europa o andare più lontano, in America, che era un mito e per alcuni un miraggio, Il flusso, non così massiccio, era cominciato tanto tempo prima.

Alido Venturi, titolare del ristorante Le tre Marie a L'Aquila
Questo libro di Antonio Di Bella è tutto da leggere e anche da vedere, e si legge come un lungo racconto che parla degli indiani, di Rockefeller, il primo capitalista, dell’era dell’acciaio, dell’industria automobilistica, dalla produzione all’alienazione; del proibizionismo e la criminalità organizzata (scolpita la figura di Al Capone, autore di crimini orrendi, il più famoso dei quali il massacro di San Valentino nel 1929, anno della grande depressione). Seguono altri capitoli importanti: la rinascita dell’economia americana; la Coca Cola che conquista gli americani; l’attacco di Pearl Harbor; storie di boxe e di rivalsa; il New Deal, nuovo coso, l’insieme delle riforme escogitate da Roosevelt per la ripresa economica; Elvis, il ciclone musicale; i missili sovietici installati a Cuba, a 150 chilometri dalla Florida, da Krusciov e la fermezza del presidente Jhon Kennedy… Insomma un libro che non si può lasciare sugli scaffali delle librerie. Il nome dell’aurore è una garanzia: Antonio Di Bella, che tra l’altro è stato direttore del TG3, di Rai 3 e Rai News 24, corrispondente Rai per tre volte, tra il 1990 e il 2021, l’anno in cui ha seguito personalmente l’assalto al Campidoglio da parte dei seguaci di Trump intenzionati ad annullare l’elezione di Biden. Di Bella ha scritto altri libri, tra cui “L’assedio”, “Washington”, “Cronaca del giorno che ha cambiato la storia”, “Je suis Parìs”, “Se Parigi potesse parlare”. ”il volume “Gli Stati Uniti” è stato presentato qualche settimana fa nella sede dell’Associazione Marinai d’Italia in via Gorizia, a Milano, con larga partecipazione di pubblico. Alcuni sono arrivati da fuori: Alido Venturi, titolare del ristorante “Le tre Marie”, è venuto dall’Aquila. Un libro interessantissimo, indispensabile, una sorta di radiografia dell’America.



mercoledì 11 gennaio 2023

UN COMPLEANNO MOLTO IMPORTANTE, GRAZIE A UN GRANDE GIORNALISTA AMICO DI "MINERVA NEWS"

    S E R V I Z I O  S P E C I A L E

       

                                                      
MINERVA NEWS HA COMPIUTO 7 ANNI: 369 servizi giornalistici documentati con foto inedite, oltre 100.000 accessi, consensi nazionali e internazionali. Merito di un grande giornalista che, dopo aver dedicato la sua vita a testate di rilievo nazionale, ha accettato di collaborare con "Minerva", scrivendo un articolo settimanale, senza mai far mancare, il mercoledì, un suo "pezzo", molto atteso dagli affezionati Lettori.
 

                                    "Brevissima" biografia di Franco Presicci 
 
Franco Presicci
Alla cerimonia di Consegna del Premio a Dall'Ora
Quando nel novembre ‘62 arrivai a Milano, scrivevo su due giornali di Bari, “Sette Giorni”, 
“Bari Sport” 
e “La tribuna del Salento”, di Lecce. Una mattina andai alla Philips a prendere i dischi da recensire e il capo ufficio stampa della casa discografica, Graziano Mottola, m’invitò a scrivere per il quotidiano “L’Italia”. Dopo un paio d’anni ero vice critico teatrale e in questa veste fui mandato a San Miniato, a Campione d’Italia, a Bergamo, a Genova, a Stresa, a Lido di Spina, a Miradolo Terme, dove conobbi Pippo Baudo… Intanto scrivevo qualche pezzo per “La Notte”, quotidiano del pomeriggio, per “La Gazzetta di Reggio”, una volta per “Il Mattino di Napoli”. Nel ’66-’67 la mia firma compariva su “Stop” di Alberto Tagliati (allora due milioni di copie la settimana), scrissi un paio di articoli per “Bolero”, tra cui un’intervista a Bologna a Luc io Dalla, e uno sullo scrittore Piero Chiara di 19 pagine per “Play Boy”.
   Fui anche capo ufficio stampa della Bruber, la casa discografica di Annarita Spinaci, cantante che ebbe un grande successo con “Quando dico che ti amo” al Festival di Sanremo nel ’67. Al Festival del clown, a Campione d’Italia, incontrai Domenico Modugno, a Pallanza Corrado, a Salice Terme iannacci, Aldo Fabrizi, Bice Valori, Paolo Panelli; in Friuli, a un Festival al Ponte del Diavolo, conobbi Mina, Claudio e Villa, che intervistai al Teatro Carcano di Milano, avendo un rapporto cordiale. Conobbi anche Tino Scotti, il simpaticissimo e bravo attore che faceva tra l’altro, se non ricordo male, la pubblicità di un digestivo. All’”Italia” ebbi molte soddisfazioni, ma aspiravo, ma aspiravo alla redazione di cronaca nera de “Il Giorno”. 
   Lavoravo freneticamente. Notte e giorno. Intervistai i Beatles, scrissi un lungo Articolo sul Teatro sovietico in occasione di una mostra a Palazzo Reale; uno sul Museo dell’ombrello di Gignese... Per dieci anni scrissi per “La Gazzetta di Mantova”, il più antico quotidiano d’Italia. Poi consegnai un bel malloppo di articoli a Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno” con il mitico Angelo Rozzoni e lui mi aiutò a realizzare il mio sogno, affidandomi servizi per le sue pagine speciali.
   Al “Giorno” continuai a lavorare senza risparmiarmi, inanellando “scoop” e facendo spesso l’inviato (ad Ancona, Ginevra, Lugano, Zurigo, Tunisia, Usa). Nell’85 la Stramilano e la Rand Xeros mi premiarono con un milione in monete d’argento coniate in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles. Quando andai in pensione, il direttore Enzo Catania mi dedicò un elogio su giornale, titolando “Franco, grande giramondo della nera”. Fui festeggiato dai carabinieri e poi dal questore Carnimeo ed ebbi il premio alla carriera Guido Vergani. Scrissi due libri e capitoli su Milano in grossi volumi della Celip.   
Potrei essere contento di quello che ho fatto. E di aver lavorato con colleghi bravissimi, avendo come direttori Gaetano Alfeltra, personaggio straordianio; Guglielmo Zucconi, già direttore de “La Domenica del Corriere” e scrittore, Lino Rizzi. Ho conosciuto o intervistato nomi eminenti dello spettacolo, da Pippo Baudo a Gastone Moschin; da Gian Maria Volontè a Barbara Bouchet; da Enrico Maria Salerno al capo dell’Fbi William Webster, nell’85; da Corrado, spiritoso e dalla battuta fulminea, a Enzo Tortora, gentiluomo di antico stampo dalla cultura sconfinata., e tantissimi altri Ho tenuto l’ufficio stampa per le manifestazioni a bordo della Raffaello e della Michelangelo, che nel ’75 m’ispirarono un articolo di cinque pagine e foto a colori su “Novella 2000 “, all’epoca diretta da Paolo Occhipinti, Jhon Foster nella precedente veste di cantante. Ho partecipato a trasmissioni televisive sulle reti Rai, con Corrado Augias, Giancarlo Santalmassi , Giancarlo Magalli e sulle antenne lombarde.
   Avrei da aggiungere tanti fatti, ma devo fermarmi qui per ragioni di spazio. 

GRAZIE AMICO FRANCO, "LA REDAZIONE" SI AUGURA, ANCORA PER MOLTO TEMPO, DI POTER CONTARE SUL TUO PREZIOSO E INSOSTITUIBILE CONTRIBUTO PROFESSIONALE E, IN SEGNO DI OMAGGIO E COME RINGRAZIAMENTO ANCHE DI NUMEROSI LETTORI, PUBBLICA "LO SPECIALE" CHE SEGUE, CON GLI ARGOMENTI TRATTATI FINORA E MEMORIZZATI, A BENEFICIO DI QUANTI VORRANNO ATTINGERE "ALLA FONTE DEL SAPERE":

Presicci con la moglie irene verso Casablanca
 

ALTRA CREATURA DI

MICHELE ANNESE

In questi anni ha pubblicato 369 articoli sugli argomenti più vari: il giardiniere che trasforma in opere d’arte i tronchi degli alberi morti; la Sagra “d’u diavulicch ascquànde”; il presepe vivente di Crispiano; una giornata con Gorbaciov; i poliziotti dalla carriera brillante, il collezionista di cartoline d’epoca e dei calendarietti dei barbieri. 

 

 

Franco Presicci                                                      

Un compleanno comporta sempre emozioni. E quando Michele Annese, direttore di “Minerva News”, il giornale da lui fondato, mi ha comunicato che la sua creatura in questi giorni compie sette anni, l’emozione mi ha colto subito. Sette anni non sono tanti e non sono nemmeno pochi.

In questi sette anni su “Minerva” ho scritto 369 articoli, senza mai venir meno nei giorni festivi, nelle ricorrenze, senza insomma mai saltare una settimana. Il primo, il 20 dicembre del 2015, giorno di battesimo della rivista, lo dedicai al compianto Dino Abbascià(in foto), un imprenditore ortofrutticolo di Bisceglie arrivato a Milano quando aveva solo 13 anni e lavorando con zelo, affrontando sacrifici, rinunciando a riposi e divertimenti, era diventato un “vip”, impegnato anche nella beneficenza (tra l’altro aveva costruito in Kenia una scuola con le sue stesse mani).

Annese, uomo intelligente e generoso, attento ed eclettico, mi incoraggiava e io andavo a pescare gli argomenti in luoghi anche lontani: il giardiniere valtellinese che tagliava gli alberi defunti facendo sculture con la stessa motosega; l’ultraottantenne che realizzava bastoni con i pomi a testa d’aquila o di lupo; il coetaneo che costruisce casette per gli uccelli con una minuziosità e capacità artistica esemplare; i collezionisti di tarocchi storici, di treni, di cavatappi, di macchine per scrivere, di ricetrasmittenti militari, raccontando la storia e le curiosità, la personalità dei personaggi.

Ho parlato del museo della civiltà contadina di Casasco; di quello degli ombrellai di Gignese; degli spazzacamini che stanno tornando e del particolare dialetto che un tempo usavano questi lavoratori, il “tarusc”, per non farsi capire dagli estranei e della vita grama che conducevano lontani da casa; del pittore Filippo Alto al quale a Locorotondo hanno intestato una via; dei raccoglitori dei calendarietti dei barbieri, delle cartoline d’epoca, dei soldatini di piombo (c’è chi ne ha 40mila)... Prendendo spunto dai loro libri, ho ritratto gli autori, le loro esperienze, i loro gusti, i loro “hobby”. Nelle pagine di “Minerva” è finita anche la storia dei due amici meridionali che fecero il tragitto Londra Foggia in taxi; il giornalista che pedalò da Varese al suo paese natìo, la Sicilia; la Milano-Taranto nei ricordi di un ragazzo non ancora ventenne che si appostava sul lungomare della Bimare per vederla arrivare; la Stramilano dei cinquantamila, con le madrine, le figure caratteristiche, il quasi novantenne Samuele Jiannucci, di Barletta, “Speedy Gonzales” anche alle Poste dove lavorava; le imprese di Benvenuto Messia, martinese attore, fotografo di eccellenza, corridore, che portò all’altare la figlie in bici…

Non ho trascurato i cacciatori d’immagini di prestigio, come Carmine La Fratta di Taranto, cattedrale delle cozze, che hanno scovato bellezze nascoste della Bimare; Alda Merini, che trascorse quattro anni nella città cara al poeta Raffaele Carrieri e a Domenico Porzio; la gente che negli anni Cinquanta abitava sui Navigli (quasi tutti meridionali) e i laboratori e gli studi dei pittori che vi avevano sede; i Natali, i presepi, i giorni di Pasqua e i cenoni, il Barbapedana, i teatri, gli attori e i cantanti (Eduardo De Filippo, Pasquariello Gino Bramieri, Piero Mazzarella, Milly) più celebrati, il dialetto, i Premi, come quello della “Porta Rossa”, il ristorante di Chechele e Nennella; l’anno, il ’29, in cui a Milano arrivò la pizza e il ristorante che ebbe l’iniziativa d’inaugurarla.

E poi i fatti accaduti, i luoghi, gli ambienti, i protagonisti, le vittime degli anni in cui lavorai al quotidiano “Il Giorno”, il giornale di Mattei dalla lunga vita gloriosa, e i tipografi, i giornalisti che lo tessevano e i piloti, da Italo Pieta a Gaetano Afeltra, a Guglielmo Zucconi ad Angelo Rozzoni, a Ugo Ronfani. Il giornale era casa e bottega: non si guardava agli orari, eravamo sugli avvenimenti in ogni festa comandata, a Pasqua e a Natale, il Primo Maggio. E fu proprio la notte della vigilia di Natale che mi telefonò uno sconosciuto per raccontarmi che durante la guerra aveva ucciso in Emilia due soldati tedeschi. Gli chiesi un incontro, che accettò dopo molta resistenza, quando gli assicurai l’anonimato. Andai poi sul posto con il fotografo, interrogai le persone, individuai la sepoltura, scavarono e saltarono fuori i corpi.

Ho riversato su “Minerva” tanti ricordi professionali: i miei interventi nelle bische clandestine al chiuso e all’aperto al seguito della polizia, che ogni volta cercava si strapparmi la fonte della segnalazione e ogni volta pregavo il richiedente di considerarmi un prete tenuto al segreto confessionale. Quindi ho visto da vicino giocatori e tenutari, lanciatori di dadi e vivandieri, che facevano affari d’oro, vendendo caffè, whisky, bibite, panini e altro; le stragi, come quelle del Lorenteggio nell’81 e di Moncucco nel ‘79; le rapine clamorose; le persone prese in ostaggio, come in via Santa Sofia nell’80; gli scontri in piazza tra polizia e teste calde.

 

Insomma, ho snocciolato anche un po’ della mia vita di cronista uso a mangiare pane e polvere, consumando scarpe a furia di percorrere strade a piedi, spesso di campagna, come quando sull’erba di via Cascina Barocco un meccanico che portava a spasso il cane trovò un cadavere che bruciava. Tutti episodi che si possono considerare capitoli di un libro da leggere vicino al termosifone, che sostituisce prosaicamente il braciere di un tempo e il camino che regna nelle case di chi può permetterselo.

Michele Annese mi ha dato la più ampia libertà, oltre alla fiducia e alla stima. Io gli ho sempre anticipato e sommariamente descritto il tema che desideravo affrontare e lui si è sempre trovato d’accordo. Abbiamo lavorato in comune accordo, ci siamo scambiati idee e dalle sue parole ho sempre tratto una spinta a non mollare, neppure quando la mia salute vacillava.

Quando andai in pensione, due anni dopo il momento prescritto, pensai: “Basta con gli articoli, adesso devo soltanto leggere. Ma poi arrivò l’invito da Gianni Spartà, “dominus” della redazione di Legnano de “La Prealpina”, storico giornale di Varese, a buttar giù i miei “amarcord”; si rifece vivo Enzo Catania, mio ex capocronista assurto all’incarico di direttore, e ripresi a frequentare le pagine de “Il Giorno”, dal ’95 al 2015. Mi sembrava di essere tornato ai tempi in cui scrivevo su “La Gazzetta di Mantova”, dove il direttore Giancarlo Eramo metteva in pagina tutto quello che gli mandavo: tra cui la mia navigazione a bordo di un aerostato a oltre mille metri d'altezza e in seguito di una mongolfiera. Poi arrivò la chiamata di Michele Annese, che già faceva un giornale, prevalentemente un notiziario. E a quella chiamata non potetti dire di no, come non lo si poteva  dire alla chiamata alla leva.

La mia vita professionale è stata costellata di esperienze: due volte in televisione da Corrado Augias, una volta da Giancarlo Santalmassi, poi da Magalli per parlare di un grosso boss della mala, poi ancora su Rai due per Terry Broome, l’aspirante fotomodella americana che aveva ucciso un re dell’ippodromo; quindi su Telelombardia a recensire libri su Milano o a partecipare a trasmissioni  su Antenna 3, il cui telegiornale, diretto da Aldo Catalani, veniva confezionato dalla cronaca del “Giorno”.

Non avevo mai scritto su un giornale on-line, e quando mi telefonò Michele fui davvero contento. Lo sapevo uomo serio, saggio, colto, dinamico, con tante idee nella testa, non avvezzo alle chiusure improvvise, e accettai senza esitazione. Era stato segretario generale della Comunità Montana, aveva diretto in modo esemplare la Biblioteca comunale di Crispiano e quando naufragò istituì l’Università del tempo libero e del sapere, diretta magistralmente dalla moglie Silvia e – pensai – questo giornale non poteva essere un fuoco di paglia, come dimostrano oggi i suoi sette anni di attività prestigiosa (non perché ci scrive il sottoscritto). Lo provano i tanti lettori che ci seguono con puntualità, non solo nella cittadina a due passi da Taranto e abitata anche da parecchi delfini erranti di Taranto, come dice Antonio De Florio, comandati su facebook da un gruppo, “Foto Taranto com’era”, che mostra ai locali e ai turisti le bellezze della città dei mari, i tramonti, le “strittele”, le barche, via D’Aquino, diventata un salotto, quasi come via Monte Napoleone a Milano, le vie, i palazzi, il Castello aragonese, i ponti…

Anche questa Taranto, la mia culla, “’a nache”, “’nu tresòre”, “’a capetàle de le còzze ca crèscene indr’a Mare Picce” ho ricordato tante volte su “Minerva”, esaltando i poeti, come Marturano, De Cuia, Majorano, Caforio, Diego Fedele, gli scrittori come Giacinto Peluso; ricordando la figura di Marche Poll; alcuni dei giornalisti del vecchio “Corriere del Giorno”, Ventrelli, Casulli, Petrocelli, De Gennaro, Scardillo, Di Battista, Mandrillo, De Luca, abruzzese emigrato da Milano a Taranto e settimanalmente da Taranto Brindisi per impaginare il periodico “il Meridionale” dell’avvocato Margherita, che anch’io raggiungevo con la littorina (una volta viaggiai accanto al conduttore per il gusto di vedere i binari ingoiati dal trenino).

Potevo trascurare il grande fisarmonicista e macchiettista di Crispiano Vito Santoro, che sprizza simpatia e passione? Maria Matarrese di Alberobello e la sua bottega di fischietti in terracotta? E il presepe vivente nelle grotte basiliane? La festa della Madonna della Neve?

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le iniziative della Biblioteca (gli incontri con gli scrittori come Alberto Bevilacqua, le conferenze, i libri nei condominii, i libri in vetrina…). Non maledico chi decise la chiusura di questa chiesa della cultura, ma non gli batto le mani. So che per lui con la cultura non si mangia.

I ricordi erano impazienti di essere tirati fuori dal baule in cui li custodisco come un patrimonio: ed ecco la giornata con Gorbaciov, i poliziotti che hanno lasciato tracce indelebili del loro lavoro: Vito Plantone, Mario Nardone, Antonio Pagnozzi, Enzo Caracciolo, Paolo Scarpis, Ferdinando Oscuri… un capitano dei carabinieri che ha trascorso le sue giornate fra inchieste internazionali sulla mafia e sui narcos, tra pericoli e agguati.

Ancora adesso vado estraendo da quel baule o archivio mentale, come si preferisce, tanto di quel materiale che irrorano i miei racconti su “Minerva”. Ho in coda un articolo su Giuseppe Marotta e il suo amore per la Galleria Vittorio Emanuele di Milano; uno sul pittore Ibrahim Kodra, che fu il protagonista di Brera negli anni Cinquanta; uno sul carcere di San Vittore, che visitai tante volte, facendo la conoscenza personale di tanti detenuti, che mi raccontavano le proprie storie… Lunga vita a questo periodico, “Minerva News”, che ha come padre un uomo che ha energie intellettuali e una volontà inesauribili. Lunga vita a “Minerva News”. 

                                                                        




mercoledì 4 gennaio 2023

Uno scrittore instancabile

Rosanna Di Michele con Palmerini  

  


 

VA IN GIRO PER IL

MONDO E SI FA

RACCONTARE STORIE

 

                                          

Ha scritto molti libri sugli

Immigrati, che va a trovare

nelle loro case, a New York,

a Sydney, a Londra e racconta

l’impegno, i sacrifici, il coraggio,

le sconfitte, le conquiste, la

nostalgia del paese lontano, con

uno stile scorrevole e attraente.

 

FrancoPresicci

Una sorgente che con la sua acqua limpida e fresca irrora diversi campi attraverso più canali. Mi viene in mente la metafora di Francesco Lenoci raccontata in una conferenza all’Università di Bari, tanti anni fa: Una vecchietta percorreva un sentiero con un secchio in spalla. Un contadino l‘avverti che da un buco il secchiello perdeva acqua, e lei rispose: “Non è acqua che si perde: disseta i fiori che sbocciano sul bordo della strada”. Penso spesso a Goffredo Palmerini, narratore appassionato, lucido; uomo instancabile, dinamico, tenace come tutti gli abruzzesi. Non indugia a salire su un aereo e partire per un Paese lontano per scoprire storie da cucire con la pazienza e l’arte del sarto: storie di connazionali che a suo tempo lasciarono la propria terra per andare a cercare lavoro e pane. In ogni città, in ogni borgo oltreconfine vivono italiani spatriati e lui li avvicina. Un proverbio di secoli fa asserisce che “passeri e fiorentini sono per tutto il mondo”. Chi va via pianta nel luogo di arrivo le proprie radici, da cui crescono alberi modesti o imponenti, pini o querce ulivi o mandorli. Dal sacrificio, dall’emarginazione, dalle randellate, dalle derisioni si sono costruiti uomini come una roccia che dirigono aziende, fattorie, giornali e fanno onore al Paese. Palmerini ha bussato a mille porte, e continua a farlo, alla ricerca di vite da sgranare nei suoi libri. “Solo recentemente ho potuto riprendere con qualche tranquillità le visite alle nostre comunità all’estero…”, ed è nato “Il mondo che va”, il dodicesimo volume pubblicato da One Group, presentazione di Mario Narducci; prefazione di Patrizia Tocci. La pandemia ha fatto disastri, cambiando un po’ le nostre abitudini, spazzando progetti, facendo chiudere cantieri, mercati, costringendoci alla clausura o come dice qualcuno agli arresti domiciliari. Con qualche eccezione fra i giovani, che scalpitano. E ha fermato un po’ anche lo scrittore. Adesso, l’ansia, il timore, i lutti si sono attenuati e covid lascia il posto alle polemiche, alle proteste e lo scrittore è tornato a sedersi alla scrivania a confezionare un’opera ricca di avvenimenti, affreschi, personaggi, descrizione di luoghi, paesaggi, con il suo stile sciolto, amabile, agile, efficace. Ed ecco la personalità che apre le pagine: “Ci eravamo abituati alla tua vitalità, caro don Attilio. La tua età di 95 anni era bugiarda rispetto alla giovinezza elegante della tua persona, alla sapienza del tuo pensiero giuridico, alla ricchezza della tua cultura, alla freschezza della tua ironia, all’amore della tua (nostra) terra, al calore del tuo impegno civile. E all’eclettismo della tua vita intensa come emigrante in Venezuela, fondatore di un giornale baluardo nella difesa degli italiani e giornalista dalle stupefacenti risorse”. Attilio Maria Cecchini, “una vita da romanzo”.

45-Buenos Aires, il Palazzo del Congresso

Gruppo Alpini
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nato all’Aquila da una famiglia abbiente, studiò giurisprudenza, poi prese il volo per il Venezuela e dette vita a un giornale. Faceva il corrispondente di “Paese Sera”, conobbe Gabriel Garcia Marquez, intervistò Juan Domingo Peròn; nel 1959 doveva intervistare Fidel Castro, quando risalì a bordo di un aereo e fece ritorno in l’Italia, dove indossò nuovamente la toga. Si torna spesso al nido. Come le aquile. Sono tutte interessanti le figure che Palmerini delinea nel suo libro. Molte di livello internazionale. Come Franco Marini, che fu un grande sindacalista e politico. “Presidente emerito del Senato, già ministro del Lavoro e segretario generale della Cisl”. Palmerini gli fu vicino per parecchi anni. Tra l’altro li univa la comune appartenenza al corpo deli Alpini, entrambi sempre presenti alle manifestazioni delle Penne Nere, ovunque si svolgessero. “Mi piace richiamare la semplicità del suo tratto, la bonomia e l’austera sobrietà che ha contrassegnato la sua vita pubblica. E l’attaccamento alla sua terra, a San Pio delle Camere, dove era nato 87 anni fa e dove aveva sistemato la sua casa modesta, dove volentieri tornava, quindi all’Aquila e all’Abruzzo…”.
 
Mario Marini, sindacalista e politico
Goffredo Palmerini apprezzava Marini, il suo legame con le antiche amicizie, con la gente della sua terra natale. Per molti anni ha avuto anche la possibilità di condividere con lui giornate costruttive, di sostenerlo nella sua attività pubblica e istituzionale, “da quando nel 1992 entrò in Parlamento, ma soprattutto nella vita di partito, dapprima nella Democrazia Cristiana, poi nel Partito Popolare e nel Partito Democratico”. E da alpino “non posso non rilevare il valore dell’alpinità”. Leggendo le pagine di Goffredo Palmerini si scoprono sempre cose che il lettore ignorava o che aveva dimenticato. L’autore le racconta nel dettaglio. Gli piace scavare dentro i personaggi, scrutarli, esplorarli, per presentarli a tutto tondo. Da u costruttore a un altro. “La pandemia confina, ma non ferma l’effervescenza della ‘chef’ vastese Rosanna Di Michele. Ne ha privato, per il momento, le possibilità del suo dinamismo, confinandola in Abruzzo.
 
New York

Le ha privato di coltivare quella sua consuetudine nella diffusione dei sapori abruzzesi in ristoranti locali tipici, di New York in particolare, ma anche di altre città degli Stati Uniti, laddove ormai è considerata un’ambasciatrice del gusto culinario e dell’enogastronomia della nostra regione.

Columbus Day
Chi scrive è stato più volte testimone diretto delle sue apprezzatissime ‘performance’, nel corso di alcune delle annuali missioni che ho svolto nella Grande Mela, di solito in ottobre, per partecipare alle manifestazioni del ‘Columbus Day’ e dell’’Itaian American Heritage & Culture Month’, il mese della cultura italiana, nella metropoli nordamericana, che presenta ogni anno un ricchissimo programma di eventi teatrali, musicali, letterari, artistici e di ogni altro genere”. Palmerini l’ha vista dunque all’opera, Rosanna, presso il consolato generale d’Italia, a Eataly, al ristorante Donna Margherita, al Westchester Italian Cultural Center… E quindi sa molto bene quello che dice. Palmerini è un pozzo di San Patrizio: conosce fatti, uomini, situazioni, storie, avvenimenti. Tra l’altro, ha una memoria inossidabile. Deve essere orgoglioso del mondo che narra quasi pacatamente, senza enfatizzazioni.
 
Mario Narducci
Nella presentazione Mario Narducci dice “i volumi di Palmerini sono un appuntamento irrinunciabile. Sono la sintesi di un’attività frenetica che la sua vivacità culturale e il suo amore per una storia di amarezze e di glorie, quale quella dell’emigrazione, hanno saputo tessere con capacità organizzative e risultati positivi acclarati. Goffredo Palmerini, già membro del CRAM, l’organo istituito dalla Regione Abruzzo per mantenere saldi i rapporti tra gli emigranti e la loro Patria è riuscito negli anni con destrezza e puntigliosità dove le istituzioni si erano sempre arrestate”.
 
Congresso degli Usa a Whashington
Giornalista e scrittore famoso e apprezzato, uomo dall’intelligenza raffinata, dalla cultura profonda, trascorre chissà quante ore al giorno tra viaggi, partecipazione ad eventi, incontri con persone umili e altre importanti che hanno conquistato la poltrona con sacrifici e sofferenze e la stesura del volume. Questa volta è stato tre anni a New York, dove il suo nome è noto e apprezzato da direttori di giornali, sindaci, docenti, imprenditori… E non solo nella Grande Mela, ma anche in Canada, in Brasile, in Argentina… Insomma Palmerini nel mondo.
Il Papa
Non c’è bisogno che il sottoscritto raccomandi di leggere “Il mondo che va”, dedicato a Papa Francesco (“Dopo Celestino V ha fatto all’Aquila il dono più grande”). I “fans” di Goffredo sanno già che devono leggere questo libro, anzi lo aspettano. Perché come dice Narducci l’aereo atterra e Goffredo Palmerini si mette al computer per rendere conto dei fatti che ha visto e delle storie che ha ascoltato. Chi può dire di conoscere il mondo dell’emigrazione come lui? Chi lo ama come lui, che lo segue da anni, ascoltando le mille voci come un sacerdote ogni giorno nel confessionale e alla Messa della domenica? Leggo Palmerini da tempo, fin dal giorno che presentò un suo libro nella sede di una banca a Milano, al tavolo dei relatori il Professor Francesco Lenoci. E mai una sua opera mi ha deluso. Patrizia Tocci scrive: “Goffredo Palmerini fa sempre un passo indietro quando scrive. Un po’ come quando lo incontri, che prima ti guarda sorridendo e poi ti abbraccia e in quel sorriso c’è già tutto il “personaggio”. Perché Goffredo è “personaggio antipersonaggio” e tutta la sua opera lo dimostra- E’ capace di far parlare gli altri nei suoi testi, mettendosi da un lato e raccomandando, come una voce fuori campo, in un bel servizio giornalistico che resta a lungo nella memoria. Palmerini fa questo e non solo questo”. Palmerini è un cronista vero che coinvolge il lettore e tiene sempre desta la sua attenzione.