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lunedì 24 aprile 2023

Autore di “Innamorati a Milano”

 

MEMO REMIGI SI RACCONTA IN

“SAPESSI COM’E’ STRANO”

La sua vita, la sua carriera, i momenti

belli e quelli brutti, gli incontri, gli amici,

i colleghi, le esibizioni sulla Raffaello e

sulla Michelangelo, il Festival, il grande

dolore per la perdita dell’amata Lucia, i

successi, le canzoni…


 

 

Franco Presicci

Mi ha chiesto: “Ti è piaciuto il mio libro? Io non sono uno scrittore”. Non solo mi è piaciuto, ma mi ha anche coinvolto, per lo stile, scorrevole, senza enfasi, con qualche punta di ironia; e per la sincerità del contenuto.

Remigi al centro

Memo Remigi, 84 anni, è così nel libro come è nella vita: giocoso spiritoso, divertente, un tantino goliardico. E’ rimasto un po’ bambino, come dice lui? Chi può giurare di non tenersi dentro un po’ del bimbo che è stato, nonostante le sberle date dal papà e a volte anche qualche calcio nel sedere. Il padre di Memo, Ercole, “era un uomo tutto d’un pezzo, severo e giusto, pretendeva il rispetto e l’educazione. A volte mi arrivava una sculacciata o addirittura qualche sberla, e allora ci pensava mamma Maria, dolcissima come il suo nome, che si metteva di mezzo per difendermi”. Il padre, aggiunge, non ce l’ha fatta a raddrizzarlo, ma lui ringrazia lo stesso. “Sono trasparente e leggero come il cristallo, ma non mi sono mai frantumato, pur passando anche da vicende anche traumatiche”, come quelle della guerra, quando su una collina di Montevecchia, “profonda Brianza”, assieme al padre, vedeva arrivare gi aerei inglesi sgravarsi delle bombe sganciandole su Milano per poi scomparire, “mitragliando tutto ciò che si muoveva, soldati o civili che fossero.

Il giornalista Gianni Spartà

Per un bambino anche la guerra può diventare un gioco”, e per lui le fiamme provocate dagli ordigni che massacravano Milano erano grandiosi fuochi d’artificio e invece erano “una catastrofe immane”. E il gioco si trasformava in terrore. Quei rombi, quelle vedute, quei tuoni, il gracchiare delle mitragliatrici se li porta “ancora nelle orecchie e anche nell’anima”. Memo è nato in una famiglia benestante, proprietaria di una ditta florida, la “Ritorcitura filati Remigi”, con tre fabbriche, che lavorava soprattutto per la Snia Viscosa, la prima società italiana ad essere quotata nelle Borse di Londra e New York. Abitavano in una villa sontuosa a Torricelli, e tutti i giorni il padre macinava quasi quaranta chilometri in bicicletta, andata e ritorno, per andare in fabbrica. 
Remigi e una giovane del pubblico

Quando volle smettere quelle pedalate si trasferirono ad Alzate Brianza. La domenica, nonni, genitori e figli andavano ad occupare il posto fisso al “Ristorante Negri” in riva al lago di Pusiano. Insomma agiatezza, quiete ed allegria hanno caratterizzato i suoi anni verdi. Lo sport faceva parte della famiglia: Ercole asso del golf, dirigente del Como Calcio e uno dei primi soci del Club Villa d’Este di Montorfano, frequentato esclusivamente da imprenditori noti e rispettati di quei tempi. “In quell’atmosfera estremamente raffinata e colta, direi aristocratica, ho imparato le buone maniere”. E ha conosciuto divi dello spettacolo internazionale come Clark Gable e Bing Crosby, che alloggiavano al Grand Hotel di Cernobbio e frequentavano i campi da golf nei pressi. Ercole suonava la fisarmonica per diletto e Remo l’accompagnava al pianoforte. Il loro pezzo forte era “Rosamunda”; la madre pilotava con abilità la sua Lania Appia color verde pisello: le piacevano la velocità e la competizione. Da bambino Memo mostrava le sue virtù musicali, captate da Giovanni D’Anzi, che rivelò quel talento al padre: “Sa armonizzare senza conoscere la musica”, e lo esortò a mandarglielo a Milano. Ma Ercole pensava alla “fabbrichetta da seguire”. Intervenne la mamma, e gli fece cambiare idea. E Memo divenne artista di successo, il Memo Remigi che tutti conoscono non soltanto nel nostro Paese.

Remigi canta fra il pubblico
Se non avesse imboccato quella strada, avrebbe praticato lo sport. “E comunque il Memo Remigi artista deve molto ai precetti delle discipline agonistiche: l’impegno, il rigore, la perseveranza, la lealtà, il desiderio di migliorarsi costantemente e di tracciare limiti sempre più in là, l’istinto di gareggiare e, a tutti i costi, di vincere, dote trasmessagli dalla madre. Memo racconta con piacevolezza, in modo spontaneo, senza fronzoli, delle scuole medie frequentate al Pontificio Collegio Gallo dei padri somaschi, corso di ragioneria, con molto spazio alla squadra di ginnastica artistica, in cui ottenne risultati di cui andare orgogliosi, visto che la selezione per essere ammessi era rigorosa; e anche l’impegno, la tenacia imposti, “tra salti mortali, cavallo, anelli e altre acrobazie”, che gli hanno insegnato “l’arte del sacrificio e del confronto, oltre ad irrobustire il suo fisico. Da lì al calcio e allo stadio Senigaglia, dove la folla incitava le pedate con il grido “Forza Italia”. 
 
Remigi e Presicci

Ho letto volentieri, questo libro, “Sapessi com’è strano”, he fa venire subito in mente il suo bellissimo brano: “Sapessi com’e strano sentirsi innamorati a Milano”, dello stesso Memo,che ancora oggi tutti cantano, giovani compresi. Mi ha calamitato la sua passione per il calcio. Quando prendeva lezioni private di musica sotto il vestito indossava la maglia della squadra ed era impaziente di correre al campo dei somaschi. ”A quindici anni il medico mi comunico il divieto di continuare con quello sport” e lui allora si riversò nel gioco del golf, riportando ottimi risultati, che mantenne sino a quarant’anni”. Un giorno nel ’57, “mentre stavo per colpire la pallina”, vide materializzarsi ”un uomo molto distinto in cardigan, panama Borsalino calato sulla testa e pipa Savinelli infilata in bocca: era Bing Crosby”. Memo gli regalò un suo 45 giri, ricambiato dal mito, con dedica. Si incontrarono ancora, Memo, felice e orgoglioso, gli sviscerò tutta l’ammirazione che nutriva per lui. Da un campo all’altro, tra soddisfazioni e consensi, fino alla notorietà, al trionfo nella canzone. Artista gentiluomo lo ha definito Maria Volpe sul “Corriere della Sera”, “dall’eterna professionalità, dotato di classe, eleganza, ironia”, anche se lui si ritiene solo un uomo contento, fortunato, riconoscente, “con ricordi meravigliosi e anche drammatici, con una voglia di vivere che anziché attenuarsi diventa sempre più travolgente”. Il dilemma sport e musica fra emozionanti trasferte all’estero con i suoi compagni di squadra, golfisti di valore, e le avventurose evasioni notturne dalle finestre dell’hotel per fare bisboccia in giro per la città, viene risolto dalla moglie Lucia. Anziché con l’ugola d’oro avrebbe potuto primeggiare nel golf, “ma è andata così”. La biografia da snocciolare è ancora lunga. E Remigi continua, senza reticenze, con cura del dettaglio. Il figlio Stefano lo paragona a Bud Spencer, perché tutti e due hanno preso l’avvio dallo sport: Spencer nuotando, lui giocando a golf, portandosi dietro “la purezza della competizione e quella capacità leggera di vivere anche le situazioni più impegnative e dolorose, cominciando sempre da capo, come fosse una nuova partita…”. E ora una nuova sfida, quella dello scrivere, riuscita anche questa. “Sapessi com’è strano” è un bel libro che contiene tutte le tappe, le buche della vita e della carriera di Remigi. 

Remigi al pianoforte
Anche il servizio militare in fanteria alle Casermette di Casale Monferrato e alla Casa del Soldato a Torino, dove poi arrivò Celentano, del quale diventò amico. Misero su un’orchestrina con il “Molleggiato” alla chitarra e lui al pianoforte. Si confessa, Memo (in verità il nome vero è Emidio), e non poteva trascurare Lucia, “l’unica donna che ho amato davvero nella mia vita. Se n’è andata - era il 12 gennaio 2021, sembra ieri o una vita fa, non so, è come se mi avesse lasciato in eredità un’energia nuova e insieme ancestrale, qualcosa di dirompente e inconfessabile…”. Il bambino che è in lui è stato costretto a crescere, con un dolore mai provato prima, inconfessabile…”. Le pagine si fanno struggenti. E seguono tutta la sua storia con Lucia e quella di “Innamorati a Milano”. Il senso di gratitudine di Memo emerge con l’omaggio a D’Anzi, morto nel 1974, fatto radunando i nostri migliori artisti per interpretare i suoi brani più celebri. Poi tocca al figlio Stefano, la sua ragione di vita. Poi padre e figlio si esibiscono insieme nella canzone che lui ha dedicato a Lucia, la cantano ovunque, l’hanno cantata anche in “Quelli della notte” di Arbore. Sono pagine allettanti, queste, qua e là commoventi. C’è tutto Remigi: la prima apparizione in Rai, 1968, “Settevoci”, “dominus” Pippo Baudo; gli amici che lo sostenevano, come Giovanni D’Anzi e Marcello Marchesi; la conduzione del programma “Per un gradino in più”; l’imitazione di Topo Gigio; la partecipazione come autore allo “Zecchino d’oro”; le “tournèe” ; i complessi musicali da lui allestiti; l’impegno in teatro con la regia di Arnolfo Foà; i concert; gli applausi; la carriera che lievitava; ”Ballando con le stelle”, i “coup de foudre” per donne stupende, anche se Lucia, che ora lo protegge dal cielo, era la sua stella luminosa, che gli ha lasciato un dolore profondo; l’incontro con Silvio Berlusconi, che gli chiese di cantare per lui “Innamorati a Milano”, le esibizioni sulla Michelangelo e sulla Raffaello e su altri transatlantici con il grande “chansonnier” Enrico Simonetti; gli amici, come Alberto Castagna; i colleghi; le esibizioni nelle case di riposo e altro ancora; il figlio Stefano, di cui è stato il migliore compagno di giochi; il Festival…”Tv Sorrisi e Canzoni” del maggio 2021, che gli fece il ritratto: “…sorridente e spensierato, dall’aria quasi sbarazzina, con le mani perennemente sul pianoforte e lo sguardo che si posa divertito sul mondo, Sempre gentile, Mai una parola sopra le righe..”. Il libro si apre con l’episodio in tivù, nella trasmissione “Oggi è un altro giorno”: “un gesto fatto senza malizia nei confronti di una giovane collega che considero alla stregua di una nipote, grazie alla nostra amicizia e confidenza”. Io gli credo e gli auguro che la Rai riveda la sua decisione, tenendo conto “dell’umiliazione, del dolore al corpo e all’anima” che il clamore ha procurato a Remigi per un atto scherzoso, senza secondi fini. Intanto Gianni Spartà, già caporedattore del quotidiano “La Prealpina” di Varese”, bravissimo giornalista, ciclista, presidente della Fondazione “Il Circolo della Bontà Onlus”, mi parla del nuovo pianoforte donato dalla stessa Fondazione e battezzato proprio da Memo Remigi nella hall della struttura. Oggi a quello strumento si avvicendano decine di persone che suonano per gli ammalati.






venerdì 21 aprile 2023

Sono tutti “Paesi miei”

BEPPE CONVERTINI, CURIOSO E AFFASCINATO

ALLA SCOPERTA DELLE BELLEZZE D’ITALIA

 

Nel programma televisivo “Linea Verde”

che conduce da 4 anni, racconta luoghi,

persone, tradizioni, usi, costumi, valori

con un linguaggio semplice ed efficace,

tra sorrisi e cortesia. 

Il suo libro è bello e interessate.

 

Franco Presicci

L’ho sentito al telefono il giorno di Pasquetta. E ho avuto con lui una conversazione breve ma piacevole. Mi ha parlato come se mi conoscesse da tempo. Come fossimo addirittura amici.

 

Beppe Convertini a cavallo
Pur essendo un personaggio televisivo di notevole rilievo, non ha perduto il gusto di tessere colloqui con persone che non ha mai visto, incoraggiandole con quel suo sorriso schietto e comunicativo. Ecco Beppe Convertini, conduttore di “Linea Verde”, il programma di Rai Uno che conduce da quattro anni. Ed è proprio su questa sua gioia di stare con gli altri, di scoprirli, che ha messo l’accento durante il nostro contatto telefonico. “Mi piace visitare luoghi nuovi, cercare i loro abitanti, apprendere i loro valori, le loro tradizioni, le radici. Quando sono in questo o in quel paese mi sento a casa, non certo come quando sono a Martina, la mia città natale, dove vado un paio di volte al mese”. Nei paesi che va esplorando gli si apre un mondo nuovo, ricevendo sempre un’ospitalità genuina non enfatizzata dall’occhio magico della cinepresa. Vi avverte sapori, profumi originali; osserva paesaggi incantevoli, neppure immaginati da chi non ha la fortuna di fare il giro d’Italia.
 
Copertina del libro

Dopo questa esperienza, che continua ad allargarsi, Beppe ha scritto un bellissimo libro edito da Rai Libri. S’intitola “Paesi miei”. Sì, perché anche se sono lontani dalle nostre culle, ci appartengono, compresi come sono nello Stivale. Nel suo programma ha rintracciato questi agglomerati popolati da gente laboriosa, dal cuore d’oro, che accoglie l’altro come uno di famiglia, mettendo subito in tavola i prodotti della loro terra e della loro abilità gastronomica. L’estraneo venuto da lontano diventa dunque un ospite speciale. Convertini è un giovane curioso, felice di trovarsi assieme agli altri. E’ un giornalista con un bagaglio pieno di conoscenze, acquisite in anni di lavoro serio, scrupoloso, attento. Si mette sulle tracce delle civiltà culturali, dei modi di vivere, delle perle paesaggistiche, dei tesori umani, e si confronta con le donne e gli uomini che incontra, provando “emozioni fortissime”. Beppe è un giovane sensibile, alla mano, che non si lascia sopraffare dalla popolarità. E fa in modo che i rapporti che stabilisce con una umanità generosa, affabile, premurosa non si limitino allo spazio televisivo: ed ecco il libro, il cui titolo già esprime l’affetto che gli resta dentro.

Muretto a secco e vigna

In “Linea Verde” ha aperto anche le porte della sua Martina, città ridente, solare, affascinante, costellata di viti nane (le ritroviamo in una poesia di Raffaele Carrieri) e di ulivi. La Martina della zolla rossa, delle case a cono di gelato, dei trulli, delle masserie e dello storico Bar Tripoli, del Festival, che nasce in questa città inondata di verde, benedetta da Dio, così definita da Giuseppe Giacovazzo nel corso della presentazione di un libro di Alessandro Caroli: “Musica in Valle d’Itria”. Beppe Convertini in “Linea Verde” racconta i “suoi” paesi con la semplicità e l’amore del viaggiatore legato alla natura e alle sue bellezze. E ”Linea Verde” è come la cassapanca della nonna che di volta in volta accumula fatti, personaggi, luoghi, novità, esistenze, ambienti, raccolti pazientemente da Beppe Convertini e dal suo compagno di viaggio, Peppone Calabrese, simpatico e divertente.

Beppe Convertini e Antonia Dell'Arte
Paesi miei” è stato presentato giorni fa nella biblioteca comunale di Martina, presenti il sindaco Gianfranco Palmisano, l’assessore alla Cultura Carlo Dilonardo, Anna Dell’Arte, già modella di Armani, Martina Zaccaria e altri, oltre naturalmente a un pubblico folto e interessato E in quella occasione, intervistato da Martina Channel, Convertini ha detto che “il viaggio è per me importante e nel viaggio trovo la mia pace. Il viaggio apre la mente e il cuore”. Per quanto riguarda la sua culla, l’adora da sempre, e l’adorerà per sempre. Ogni angolo di questa terra, “labirinto bianco con intarsi di barocco, salotto a cielo aperto”, è per lui uno scrigno di ricordi in cui giganteggia la figura del padre, che vive oltre le nuvole ed è il suo angelo custode. “Tutto quello che faccio lo dedico a lui”. Fra le doti di Beppe Convertini, la capacità di andare verso il prossimo, dimostrata fra l’altro dalle opere umanitarie in cui è impegnato. ”Quello che fai agli altri fa bene a te stesso”. Il giornalista, autore di altri due volumi, parla e scrive con semplicità e scioltezza, esprimendo concetti alti.
 
Beppe Convertini
La sua professoressa di lettere Silvia Laddomada, che lo ha avuto come alunno nell’ultimo anno di scuola superiore, a Martina, lo ricorda come un giovane educato, gentile, impegnato, già allora raffinato nei modi e desideroso di perfezione, apprezzato con orgoglio dalla sua mamma. Questa bravura lui oggi la manifesta anche osservando le particolarità di ogni angolo d’Italia, descrivendole con entusiasmo, passione, acume in tivù e in queste pagine, che prendono il lettore per mano e lo accompagnano dalla Valle d’Aosta alla sua Puglia, attraversando cascine, casolari, masi, masserie, aziende agricole, pascoli, cucine, vigneti, cantine, panorami stupendi e tanto altro. Il suo libro comincia dall’Abruzzo, continua con la Basilicata, la Calabria, la Toscana, la Sardegna… in cui riecheggiano i ricordi di personalità come Ignazio Silone (“Fontamara”…); Rocco Scotellaro (“L’uva puttanella”…); Corrado Alvaro (“Gente di Aspromonte”, “Vent’anni”…); Carlo Levi (“Cristo si è fermato ad Eboli”…) e tanti altri poeti, scrittori, meridionalisti come Tommaso Fiore (“Un popolo di formiche”, “Formiconi di Puglia”), Giustino Fortunato, di Rionero in Vulture. Quando arriva in Puglia, ricca di luce e di calore, s’inebria: “La Puglia è la mia regione, quella in cui sono nato e cresciuto; è Martina Franca il mio posto del cuore, quello in cui torno ogni volta che posso, per trascorrere del tempo insieme a mia madre, alle mie sorelle, ai miei nipoti. Qui, grazie a colori, odori e sapori unici al mondo, ma soprattutto unici per me, e grazie all’amore della mia famiglia e della mia comunità, riesco a ritemprare il mio spirito”. E aggiunge che tutti i pilastri della sua vita personale e professionale affondano le radici qui, in questa città tutta bianca… Martina Franca.

Il riposo del viaggiatore

Tra i suoi gioielli che lo toccano di più è Palazzo Ducale, i suoi saloni con i soffitti e le pareti affrescati, i balconi con le ringhiere panciute, raccontate da Cesare Brandi. Beppe prende il pennello e lo immerge nella policromia della sua tavolozza per dipingere tutto ciò che passa sotto il suo sguardo incantato: il mare, i monti, le colline armonicamente modulate come il corpo di una donna, braccianti e pastori, agricoltori e maestri del legno o del ferro, che si raccolgono attorno a lui e lo salutano sorseggiando un bicchiere di vino buono magari di produzione casalinga. E poi Beppe riprende a scarpinare o a cavalcare un cavallo vigoroso, e ogni tanto si riposa un attimo stando seduto su una panca. Ogni viaggio per lui ha un sottofondo musicale: il mare che accarezza la sabbia o lo zufolare di un ragazzo che tiene d’occhio le pecore. Quando scrive Beppe Convertini sa essere anche poeta, qua e là. Lo fa ricordando i pomodori spremuti per farne conserve con la nonna e le feste patronali che illuminano i cuori e le strade della città. Si cala volentieri nel passato, facendo emergere gemme dai più dimenticate.

Beppe Convertini

E anche suoni, rumori, voci, arie liriche riproposte dalle bande; canzoni come quelle del grandissimo Domenico Modugno, che fanno sognare. Va a Polignano a Mare, si imbatte nel monumento con la sagoma di mister Volare e sfiora la sua storia di artista e di uomo, offrendola ai lettori. Gioiosi sono i viaggi per “Linea Verde” che compie Convertini. Va in Sardegna e s’inoltra in un borgo in miniatura, abitato da 800 persone distribuite su un territorio di appena 60 chilometri quadrati. Un paese montano che ti abbraccia con un silenzio e una pace incomparabili.

Peppone Calabrese
Lui ha la soddisfazione della scoperta e cerca di esplorare anche le vicende presenti e passate dei luoghi che visita con la “troupe”, mentre i telespettatori lo seguono numerosi con grande interesse anche per il modo di raccontare e dialogare di Beppe, che dispensa sorrisi comunicativi, dolci, schietti, coinvolgenti. L’ho seguito passo dopo passo, nel suo libro, così come lo seguo nel suo programma, dove mi lascia immaginare di essere lì con lui, ad assaporare uno dei piatti colmi di prodotti tipici locali, guardando un asino tenuto per le redini da Peppone e il panorama che si stende come un manto con ricami degni di un artista eccellente. La gente lo sente come uno di famiglia, Beppe, e lui ascolta, domanda, scava, miete informazioni, entra in ambienti sconosciuti e li descrive, in tivù e adesso nel libro, “Paesi miei”. “La Sicilia è sogno”. Il viaggio di ‘Linea Verde’ in questa terra è stato un viaggio in un paradiso terrestre, con i mulini, il mare, i fenicotteri rosa, le spiagge di sabbia finissima, i tramonti di una bellezza indescrivibile... Una terra in cui sembra che sia sempre primavera…”. In Sicilia Pietro Germi ambientò il film “Sedotta e abbandonata”, con Stefania Sandrelli e Saro Urzì protagonisti. E sempre in Sicilia si svolse la trama di un altro film, “Un bellissimo novembre”, diretto nel ’69 da Mauro Bolognini e tratto dal romanzo di Ercole Patti, e tanti altri. Bellissimo, avvincente, interessante “Paesi miei”: mi propongo di rileggerlo per il piacere di ripercorrere idealmente i suoi itinerari con “Linea Verde”, alla ricerca di personaggi felici di stare in compagnia e di sentieri sconosciuti.

giovedì 6 aprile 2023

Una corsa che i milanesi aspettano con ansia

GRANDE, APPASSIONANTE STRAMILANO

QUEST’ANNO HA COMPIUTO CINQUANT’ANNI

I Cinquantamila
In quella marea umana si tuffano

ogni anno persone di ogni età e

professione, che arrivano da tutta

Italia. Sgambare fa bene

alla salute, è libertà, oltre che 

piacere immenso di sentirsi per un

giorno padroni della città.

 

Franco Presicci

La Stramilano ha compiuto 50 anni. Viva la Stramilano. Ne ha avute, di storie la corsa dei cinquantamila, come è soprannominata per via del numero dei partecipanti, con il tempo diventati sempre di più. E di più ancora, considerando le fitte ali di popolo che puntualmente si formano lungo i portici di fronte a piazza Duomo, da dove la maratona parte. 

La Banda dei Carabinieri

L’orario previsto ai miei tempi era alle 9, ma il fiume umano fremeva già mezz’ora prima, impaziente dell’attesa del segnale di avvio, e 20 minuti prima rompeva lo sbarramento che lo conteneva e straripava, quasi travolgendo la banda dei carabinieri pronta a suonare. Sul palco dell’organizzazione, dove venivo invitato ogni anno dallo “speaker” Attilio Monetti, uomo dalla memoria inossidabile, capace di snocciolare momenti, glorie, date, “record” e personaggi delle corse (una enciclopedia ambulante), potevo ammirare i pettorali sino a via Margherita. Quando arrivavo, Monetti mi intervistava, presentandomi come il giornalista che aveva seguito la Stramilano più di ogni altro collega e mi faceva conoscere la madrina, Isabella Rossellini, dolce e bella, l’altrettanto e dolce Ylenia Carrisi… e ospiti in cui mi imbattevo per la prima volta. Erano giornate entusiasmati. 

Galleria Vittorio Emanuele
 
 
Non ricordo più quanto tempo occorresse perché la coda dei cinquantamila arrivasse fin sotto il podio. Io lasciavo il palco prima, salivo nella macchina del giornale guidata dall’autista, correvo in piazza San Babila, quindi in corso Buenos Ayres, dove galoppavano i primi maratoneti ansiosi di essere tra i primi a toccare il traguardo dell’Arena, indifferente alla rabbia di qualche automobilista costretto a una sosta prolungata e imprevista.
 
Pettorali in piazza del Duomo
Poi il mio pilota ingranava la marcia e via per il ristoro di piazza Tibaldi, non per farmi servire dai volontari mele o caffè o yogurt o un'aranciata, o un panino o altro, ma per aspettare le avanguardie e poi gli anziani: Samuele Jannuzzi, di Barletta, il veterano della Stramilano, nato di corsa e di corsa faceva tutto, compreso il lavoro alle Poste, dove smistava la corrispondenza, e l’ottantenne con la frangetta che si portava appresso orgogliosamente il medagliere con la scritta “Le testimonianze delle mie Stramilano”. E il pittore che faceva crescere il suo paesaggio sgambando; Cesare Isabelli, che aveva partecipato alla Stramilano di New York, ma non lo diceva a nessuno, non amando vantarsi delle belle imprese che affrontava. Abitava nel mio stesso condominio e dalla finestra lo vedevo attraversare il giardino sempre a passo svelto per andare a piedi dagli amici Gammone, che hanno l’ufficio di fronte all’ospedale di Niguarda.
 
Stramilano
In via Tibaldi, dove la massa si frangeva, potevo avvicinare qualcuno per ascoltare un pizzico della sua storia di sportivo invaghito della Stramilano per un impulso antico; e avevo risposte affannate ma esaurienti. “Scusi lei da dove viene?”, “Da Pordedone”. “Scusi, perdoni l’indiscrezione, quanti anni ha?” “Novanta”. Stupore, lodi, invidia. Mi meravigliava Samuele Jannuzzi, che aveva 85 anni quando venne al giornale per essere intervistato e mi mise sotto il naso la carta d’identità per paura di non essere creduto. Ho ancora il ricordo di tutti gli “anta” che ho abbordato in viale Tibaldi: il vecchio alpino, per esempio, capelli bianchi, volto roseo, con un onor del mento portato con compiacimento, che arrivava da Belluno, il paese dei fratelli Cortina, tutti librai famosi a Milano (uno anche pittore allievo di De Pisis), e di Dino Buzzati. Tutta l’Italia accorreva, e accorre ancora oggi, alla Stramilano: un tale che si rifiutò di declinare il nome, forse perché stanco e infastidito dal fatto che potevo fargli perdere il ritmo, mi rispose: “So’ de Bère, e allòre?”. Un altro che trottava vicino a lui rispose spontaneamente: “Io sono di Taranto”. “Eh sìme d'u paìse de le còzze tutt’e ddò”, si vantò un altro che non avevo interpellatodissi. Ero contento di essermi imbattuto in due giovani della mia città.
L'Arena

“Ci vediamo all’Arena!”, mi urlò con il fiato in gola un vecchio bersagliere. Ed ecco Isabelli, Cesare. Mi salutò sventagliando il braccio e un sorriso appena accennato. Dietro di lui l’uomo con la scimmia in spalla. Mi addolorò due anni dopo la notizia della sua morte, vegliato per alcuni giorni dal primate. Scrissi di lui sul “Giorno”, come avevo scritto di altri che erano volati oltre le nuvole senza che qualcuno tenesse loro la mano. Accadde al fratellastro della grande attrice napoletana Tina Pica, in una casa di ringhiera di corso San Gottardo. Nell’aprile del 2000 Gianluca Martinelli, allora general manager della Stramilano, mi telefonò a Martina, dove mi stavo godendo i primi momenti della pensione, per chiedermi un articolo per un libro poi pubblicato con il titolo “Stramilano in Centostorie”, con interventi del sindaco Albertini, , Gelindo Bordin, Ottavio Missoni, Aberto Cova, Mike Bongiorno…

Aprii subito il lucchetto della memoria ed ecco una valanga per la Stramilano che mi aveva dato un premio in monete d’argento coniate in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles. Me ne ha date, di soddisfazioni, la Stramilano dei cinquantamila. Vederla scorrere lungo le vie della città e sparpagliarsi sul prato del traguardo dell’Arena, dove nel 1890 Buffalo Bill si esibì con il suo “Wild West Show”, era una gioia. Lì finalmente potevo raccogliere le confessioni dei concorrenti più caratteristici: quello che a settant’anni aveva divorato tutti quei chilometri zigzagando sui pattini, l’altro che aveva partecipato avvolto nel tricolore, l’altro ancora in sella a un velocipede… Un anno m’intrattenni con il capo della Mobile (poi nominato questore e prefetto) Antonio Pagnozzi, che correva con il figlio in spalla.
Copertina libro Stramilano
Isabelli brinda dopo la Stramilano

La Stramilano era ed è una calamita. Il giorno delle iscrizioni davanti al tendone si forma una siepe di persone. Nei giorni successivi quella siepe si ingrossa, si allarga, si allunga. Grande Stramilano: coinvolge, commuove, contagia, travolge. Chi vi prende parte per un giorno si sente padrone della città. In “Centostorie” Guido Meda dice di ricordare benissimo che aver corricchiato per 22 chilometri “faceva sentire me un leone e scatenava un misto di ammirazione ed invidia nei miei compagni, di terza media”. Per Cesare Cadeo, questa maratona infiamma il cuore dei cittadini. Per monsignore Gian Piero Carnelli, la Stramilano è un grande momento per la città. Li ho letti tutti quanti in quel volume, i patiti della Stramilano. Già alle sette del mattino andavo in tram, scendendo alla fermata di piazza Cavour dominata dal Palazzo dell’Informazione. L’autista mi aspettava e con il fotografo, di solito Giovanni dell’Abate o Gaetano Montingelli o D’Anna…via per piazza del Duomo, già quasi piena di pettorali. Un anno era quello disegnato da Missoni. E io provavo i primi brividi pensando alla calca che avrebbe invaso la città. La Stramilano era ebrezza, spensieratezza, libertà, esaltazione.

Mi va di ripeterlo. Carlo Tognoli, purtroppo andato via anche lui, titolava il suo articolo: “Stramilano tutti insieme milanesemente”. E Candido Cannavò, direttore de “La Gazzetta dello Sport”: “Non è facile organizzare una Stramilano, ma è ancora più difficile mantenere intatto il successo per così tanti anni”. La Stramilano ha insegnato alla gente che correre è bello. Fa bene alla salute e all’anima. Uno dei maratoneti più assidui, lo Speedy Gonzales delle Posta, si allenava tutti i giorni. Si alzava alle 5, faceva qualche lavoretto in casa, poi metteva la “ciucculatera” sul fornello con la fiamma bassa, correva alla vicina edicola a comprare il giornale e rientrava in tempo per versare la bibita nella tazzina. Tentai di parlare al telefono con un veterano che aveva raggiunto i 100 anni e non me lo passarono per timore che gli venisse la fregola di tornare in pista, ignorando gli sforzi dei familiari di tenerlo buono. Franco Fava, che ha raccontato con profonda saggezza la città, narrò la sua ultima Stramilano, nella primavera dell’81, “più che di una corsa si trattò di una vera e propria passerella”. Un amico mi dice che la prima Stramilano partì di notte da Prato Centenaro, vicino a viale Zara, su un percorso di 25 chilometri. L’avvio venne dato alle 21. L’ideatore della corsa fu Renato Cepparo. Qualche volta avrei voluto tuffarmi nella folla e non sentendomi abbastanza in gamba per farlo, mi sfogavo quando tornavo, verso le 3 del pomeriggio, in redazione, a scrivere una pagina con passione ed entusiasmo. Il direttore, il grande Lino Rizzi, che oltre ad un professionista rispettabile era un uomo generoso e amabile, mi disse: “Che cosa sarebbe senza di te la Stramilano?”. “Quella che è: una manifestazione di grande prestigio, nota e apprezzata in tutto il mondo”. Scherzava, ma io no. E mi risuonò nelle orecchie la canzone “Stramilano” Alberto Rabagliati.








mercoledì 5 aprile 2023

Spettacolare la processione dei Misteri

IL CALVARIO DI GESU’ CRISTO

SFILA PER LE VIE DI TARANTO

 

Fra qualche giorno è 

Pasqua una delle feste più

attese dai tarantini e non

solo da loro.

Moltissimi emigranti sono

già tornati per assistere ai

riti della Settimana Santa.

 

 

Le foto sono di Carmine La Fratta

 

 

 

 


Franco Presicci

Un amico spesso mi dice che dovrei ripercorrere chissà quanti anni, spremere chissà quanto la mia mente, per recuperare parte dei ricordi degli anni dell’adolescenza, in cui vedevo scorrere la processione dei Misteri, a Taranto, fino a quando non venivo tentato dal sonno mentre la mano del nonno stringeva la mia per non farmi cedere. Non è come crede lui: grazie a Dio, ho ancora una memoria sveglia, che spesso mi dà risposte lucide e precise. Alla mia età questo archivio, patrimonio che mi viene riconosciuto e magari invidiato da chi mi frequenta, dovrebbe essersi impolverato e invece mi stupisco del suo ordine e della sua freschezza.

Avevo forse tredici anni, quando con mio nonno, m’inserivo fra le ali di popolo schierate lungo i marciapiedi, per osservare i simulacri e le “perdùne” che li seguivano o li precedevano. Tanti mandavano ai Santi baci volanti o sventolavano la mano a mo’ di saluto, s’inchinavano, bisbigliando una preghiera; mentre altri erano distaccati, soltanto incuriositi, almeno in apparenza. Quando meno te lo aspettavi, qualcuno, per poter vedere meglio, tranciava la marea, scatenando le reazioni di quelli che venivano spiazzati. E questo succede anche oggi, secondo lo stesso amico, che per tutto l’anno è in attesa di quel corteo. Mi rivedo in anni meno lontani in prima fila al di qua della transenna, i gomiti appoggiati sulla sbarra superiore e le dita incrociate sotto il mento, nel tratto di via D’Aquino che sfiora delle piazze della Vittoria da un lato e del Carmine dall’altro, ad aspettare che il portale dell’omonima chiesa si apra per far uscire le statue. Sono lì da tre ore, e sbircio gli arrivi frettolosi alla ricerca di un posto buono, la prima fila, appunto come nella platea di un teatro. Voglio godermelo tutto, come da un palco alla Scala, questo rito toccante che attira tantissima gente anche da oltre confine.

Ci tornai una ventina di anni fa. E avvertii un palpito in più del cuore, quando il portale si spalancò per lasciare il passo dondolante ai primi “perdùne” con il bordone, il volto coperto e dietro altri con il cappuccio sollevato e la corona in testa. Accanto a me c’era chi esprimeva meraviglia; io captavo il vocìo dei presenti più vicini, colpiti dalla fede, dalla devozione stampata su tanti volti. Un ragazzo chiese al papà: “Quando è nata questa processione?”. Il papà, rispose che non poteva soddisfarlo appieno, “perché quello che sappiamo ci è pervenuto tramite la tradizione popolare, a voce, secondo la quale la data risale agli inizi dell’Ottocento”. Subito una signora sottile e un po’ snob, vestita elegantemente lo contraddisse: “Macchè, i Misteri c’erano già prima. Non diamo notizie inesatte ai bambini”. Vorrei correre ogni anno a Taranto per assistere a questa replica che non perde mai la sua solennità e il suo fascino. E siccome non è possibile, sfoglio un bellissimo volume di Carmine La Fratta, “Settimana Santa a Taranto”, ricco d’immagini suggestive. La Fratta è un maestro dell’obiettivo fotografico. I suoi scatti coinvolgono, trasmettono emozioni, sbigottiscono, se si guardano bene i volti, le espressioni, gli atteggiamenti. Non c’è una sua foto che lasci indifferenti.
 

Scorrendo queste pagine, pubblicate a suo tempo da Edit@, sogno di essere tra quella folla oceanica, eterogenea e di ascoltare la voce fioca di una vecchietta: “Na, mo’ stè’ pass Gese Criste”, accompagnata dal segno della croce; vedo un uomo dalla faccia abbrustolita che muove le labbra senza emettere parola, le mani congiunte e il capo chino al passaggio di Gesù morto, mentre gracchia la “troccola”, tavoletta con maniglie di metallo. Con qualche intarsio. Di fronte alla statua della Madonna, che la notte prima, uscita dalla chiesa di San Domenico nella città vecchia, è andata per le vie di Taranto a cercare suo figlio, quasi avverto i pensieri di tanti: “Me la fa’ ‘sta gràzie, Marie, je te so devòte”; o “Madònna mèje, capìsche ‘u dulòre ca puèrte gnindre pe’ ‘stu fìgghie benedètte”; “Ce bbèdde ca sì’; accume face a suppurtà’ ‘stu crepiènde”. La processione dei Misteri è molto sentita nella Bimare: ci sono persone che non si limitano a trascorrere notti insonni per godersela: ci sono persone dalle mani d’oro che se la costruiscono in terracotta. Nicola Giudetti, per esempio, personaggio notissimo e apprezzato, nel suo piccolo ”museo” nel borgo antico, ha realizzato i “Misteri” in miniatura, tra le facciate dei palazzi, e li tiene in un angolo a disposizione di chiunque abbia voglia di ammirarlo. E un tempo -informa Giacinto Peluso – sino a pochi anni or sono c’era un calzolaio “nei pressi della piazzetta San Francesco, vicino alla fontanella, prima di imboccare l’ormai murato arco della Madonna del Carmine, che nell’unica stanza al piano terreno, che serviva da abitazione e da bottega, nei giorni di Giovedì e Venerdì Santo trasformava questo abituro in un ambiente carico di soave poesia: riusciva a fare, servendosi di poche cose, che conservava ogni anno con cura particolare, un Sepolcro, limitatissimo nelle sue intenzioni, ma soffuso di tanto misticismo da lasciare turbato l’occasionale visitatore”.

La Settimana Santa sta dentro di noi, fa parte di noi: io purtroppo devo accendere la televisione per sentire i suoni, tristi, struggenti, delle bande; per vedere il pellegrinaggio per le vie di Taranto e la folla; o guardare i video dell’anno prima che amici e parenti mi hanno generosamente mandato, attendendo i nuovi. Così, stando a Milano, respiro “l’arie de Pasche”, che è anche il titolo di un libro di poesie del grande Claudio De Cuia. Certo non è lo stesso che essere lì, tra le vie della Bimare immerso nella massa e vedere “perdune”, cavalieri, carabinieri in alta uniforme, vigili urbani, esploratori impettiti che seguono o affiancano i simulacri, ciascuno dei quali con una sua storia. Da buon tarantino amo dunque questa processione. In famiglia l’amano tutti. Il mio compianto cognato Dino non mancava mai di scendere a Taranto per la festa di San Cataldo e per i Misteri: e al ritorno mi portava tante foto del percorso: via D’Aquino, piazza Maria Immacolata, via Di Palma, via Regina Elena, con sosta nella chiesa di San Francesco, via Anfiteatro, via Massari, piazza Giovanni XXIII. Non so se l’itinerario sia ancora questo, certo è che in ogni punto la gente è colpita da questo “spettacolo d’incomparabile bellezza”, come scrive Nicola Caputo. Ho ancora nelle orecchie il grido: “Furcè!”, che invita i confratelli portatori a trasferire il peso delle statue dalle sdanghe che poggiano sulle loro spalle alle “forcelle”. Solo un attimo di riposo, poi il peso torna nuovamente a chi lo ha scelto. Dev’essere faticoso, questo cammino, soprattutto se fa freddo e si va a piedi scalzi. I ricordi sono come le ciliegie: eccomi lì infreddolito, ma resistente, estasiato di fronte ai simulacri: il Gonfalone, la Croce dei Misteri, Cristo all’Orto, alla Colonna, Ecce Homo, la Cascata, il Crocifisso, la Sacra Sindone, Gesù Morto, l’Addolorata. Ad ogni passaggio un brivido. Dietro di me sento un signore segaligno, infagottato in un cappotto scuro, biondiccio, occhiali da miope, che, con accento inglese, sciorinava elogi per la processione. E sì, questo rito da sempre richiama anche gente dall’estero, oltre che espatriati che tornano all’ovile proprio per questa occasione. 

Nicola Caputo, giornalista e storico scrupoloso, riferisce una cronaca sulla nostra Settimana Santa pubblicata nel 1887 a firma dell’inglese Janet Ross, la quale, sia pure con qualche imprecisione sul percorso e sulla successine dei simulacri, trascurandone qualcuno, prima di assistere al rito, pellegrinò per Taranto alla ricerca d’informazioni, raccogliendole anche dai pescatori e dalle donne della città vecchia. “Fui molto fortunata ad essere a Taranto durante la Settimana Santa e così vidi la processione del Venerdì Santo, che è molto curiosa e fonte di grande orgoglio per i tarantini. La folla era molto ordinata e di buon umore, e ansiosa di spiegare ogni cosa a una straniera. Un piacevole giovane marinaio mi disse che aveva sentito che a Roma, dove sta il Papa, un tempo facevano delle processioni, ma nessuna si poteva paragonare a questa”. Fra qualche giorno è Pasqua. Vorrei esserci, a Taranto, per vedere quella manifestazione, commuovendomi davanti alla Croce dei Misteri, apparsa la prima volta nel 1913 e portata da confratelli a viso scoperto, e Cristo morto, accompagnato da quattro cavalieri che reggono i lacci, cordoni legati alla base del feretro. 

Mi viene ancora, in mente Nicola Caputo (da tempo scomparso), che nei suoi libri racconta la storia, i simboli, i significati del rito, il vestiario dei confratelli, le vicende legate ai simulacri: “C’è chi si meraviglia di tanto clamore. Curiosità, pubblicità, libri, fotografie, film, tv. E interesse, sollievo, coinvolgimento di grosse masse, protagonismo totale. La Settimana Santa a Taranto è tutto questo. Una città si ferma. Dopo aver trascorso in sofferta attesa i giorni della Passione, ecco i secolari riti. Pregni di fede e di devozione, di tradizione e di spettacolo”. Durante la rappresentazione, parlando al microfono trasmetteva con chiarezza e scioltezza tutte le notizie essenziali per la moltitudine di persone che si allungava sui marciapiedi dell’itinerario. Penso anche a “Pater, il romanzo del lume a petrolio”, di Cesare Giulio Viola (1886-1958): “Poi veniva il tempo delle processioni, quando si metteva il Cristo al Sepolcro. In quei giorni i patrizi fraternizzavano con i pescatori, alla Congrega del Carmine, e gli uni e gli altri vestivano il camice di lino e la mozzetta, infilavano lo scapolare e il cappuccio forato, stringevano ai fianchi il cordone, si denudavano i piedi e con il bordone in pugno, il cappello gittato sulle spalle…”. E Giacinto Peluso, che in uno dei tanti suoi libri, “Taranto da un ponte all’altro”, edito da Mandese, ricorda tra l’altro la decisione dell’arcivescovo Bernardi, succeduto a Orazio Mazzella, di rimuovere dai sepolcri nelle chiese ogni forma spettacolare per ridursi alla pura e semplice rievocazione dell’Eucarestia. La città mormorò per qualche tempo, disertò i templi, “ma poi tutto tornò come prima”. Quanta nostalgia. Fede, meditazione, richiamo di masse di popolo, tradizione, emozioni, soprassalto di ricordi, curiosità, spettacolo, ritorno di usanze di una volta e altro ancora. E attesa di quei giorni, della loro atmosfera.