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lunedì 24 dicembre 2018

Il fascino, la spettacolarità del presepe


A MILANO E IN LOMBARDIA GESU’ NASCE ANCHE IN UNA CASCINA 
Le foto raffigurano opere di Manola Artuso e Gianluca Seregni


A Dalmine, vicino a Bergamo, c’è un
Museo apprezzato in tutto il mondo, con centinaia di scenografie arrivate
anche dall’estero. 

Tanti i sodalizi che
allestiscono presepi meravigliosi.
                                                                                                


                                                                                      
Franco Presicci                                

Le Madonne e gli altri santi abilmente eseguiti da Manola Artuso, 51 anni, laurea in pittura a Brera, bassina, sottile, bella, e da suo marito Gianluca Seregni, cinquantacinquenne, abile e sensibile pittore naif, nel loro laboratorio “La Stele” di viale Certosa 91, a Milano, prendono anche la via dell’estero, come tantissimi italiani (24 milioni soltanto tra il 1860 e il 1973), che emigrarono per ragioni diverse: il bisogno di un pezzo di pane. 
Gianluca Seregni, a fianco a lui Manola Artuso
I loro Bambinelli vengono richiesti da chiese dell’America Latina, dell’Africa, della Spagna… Sono figure ad altezza naturale, dall’incarnato roseo, realistico. Sembrano il frutto di un dialogo, tra i due artisti, e il modello. I collezionisti e i semplici clienti sono soprattutto meneghini e lombardi, il cui flusso è frequente soprattutto in questi giorni in cui luci multicolori pulsano sui balconi, incorniciano gli ingressi dei negozI, sui pali ad arco nelle strade, sugli abeti dei supermercati. Una volta a Milano e in Lombardia si faceva solo l’albero di Natale; poi i tempi sono cambiati e anche nei templi in centro e in periferia, nelle case private, si è cominciato ad allestire, magari sotto l’albero con il puntale argenteo, il presepe, grande, piccolo: meravigliosa evocazione della Natività, che richiede arte e devozione. Ognuno, per costruirlo, usa il materiale che preferisce, compreso il polistirolo; e tante sono le statuine eseguite da Manola e Gianluca: Re Magi, pastori e ogni elemento che richiama i valori di quest’architettura: l’acqua, simboleggiata dal laghetto, dal mulino, dalla fontana, dalla donna che spande i panni o porta la brocca sulle spalle; il fuoco: il paiolo per cuocere la polenta, il fornaio, il camino, la lampadina rossa che palpita sotto i tre paletti incrociati in alto; la cometa, le luci, che danno al presepe un aspetto teatrale. L’acqua significa la rigenerazione; il fuoco la purificazione… 
Bambinelli
Nei vecchi presepi lombardi mancavano il pizzaiolo e il pescivendolo, presenti invece in quelli napoletani, dove la pizza è sempre stata largamente diffusa molto prima di essere, nel 1929, introdotta a Milano dal ristorante Santa Rita, a due passi da piazza San Fedele. Ho osservato attentamente Manola e Gianluca (esperti anche nel restauro: hanno ridato vita a tantissimi pezzi di valore enorme, recentemente a opere della parrocchia di Albonese nel Pavese) mentre spalmavano il gesso nella matrice di un San Giuseppe in preghiera; e ho apprezzato l’amore e la dedizione con cui svolgevano questo lavoro. Sono rimasto un bel po’ di tempo nel laboratorio e nella sala affollata di zampognari, guardastelle, suonatori… tutto il popolo del presepe, fonte di felicità non soltanto per gli artefici, spesso veri artisti, ma anche per i bambini, che davanti a queste strutture s’incantano. 
Statuine
Manola e Gianluca manipolano la materia con lena, ma non lesinano le informazioni a chi domanda. E ad ascoltarli c’è da imparare davvero tanto. Accennano alle scenografie in Lombardia nel XVI e XVII secolo; descrivono le rappresentazioni di Francesco Londonio, che fu uno degli artisti più invitati e riveriti nei salotti meneghini; le vecchie botteghe che sfornavano statue prestigiose, come quella di via Copernico 8, nei pressi della stazione Centrale; artigiani di una bravura eccezionale; la gloriosa tradizione presepiale nel Bergamasco... Autentici appassionati del presepe e orgogliosi del loro impegno (in Giappone hanno dedicato loro un volume), conoscono l’attività dei figuli di altre regioni, come i pastori del calabrese Michele Morrone; i portatori di doni del pugliese Sergio Bruno; i Re Magi di Giovanni Mastro di Grottaglie; il pecoraio di Marco Serafino di Ruffano; le casette del leccese Antonio Grazioli… ; e le grandi collezioni custodite in musei, come quello di Brembo di Dalmine; il presepe genovese con personaggi in terracotta colorata, quelli di Elsa Berla, creati a suo tempo in un appartamentino di via Pontaccio, nella città del Porta; i presepi di carta conservati nella Raccolta Bertarelli; le statuine di Guido De Zan... Insomma tanti particolari della storia del presepe, che suscita anche ricordi personali.
Il Bambino nella culla di paglia
Riemergono dall’archivio della memoria i presepi fatti per noi bambini dai nostri genitori con fogli di giornali immersi in un secchio con argilla innaffiata d’acqua, rami di pino vero rapinati a un pino chissà dove, le figure sagomate dalla mamma che aveva il dono di una certa manualità (erano i tempi del dopoguerra e c’era poco da spendere), mentre il nonno, tra i ghirigori sprigionati dalla pipa fatta di un fornello di creta e un cannello ricurvo, s’impegnava a raccontare la nascita di Gesù da lui inventata al momento, ma con tanta passione e fede da commuovere. Davanti a quella ricostruzione, dove l’illuminazione era data da una comune lampadina nascosta dietro una grotta o una collina più alta delle altre si restava immobili ed estasiati. Presepi messi su in qualche maniera su scheletri di legno sottile con erba raccolta nel prato vicino e muschio ricavato dalla facciata di un edificio lebbroso. Oggi i presepi sono spesso opere d’arte, capolavori come quelli visti qualche anno fa a Cantù in una mostra che presentava manufatti raffiguranti cascine con la natività nella stalla, i pomodori e le cipolle, il granturco e altro appesi sul ballatoio, i visitatori inginocchiati nel cortile, le galline accovacciate sotto alberi realizzati con rametti naturali. Gesù può nascere ovunque, anche in aperta campagna e in Puglia in un trullo, ma è nel nostro cuore che emette il primo vagito.
Presepe
Presepi sorgono in ogni parte d’Italia, come testimonia il Museo di Brembo di Dalmine, che, famoso in tutto il mondo, venne creato da Giacomo Piazzoli e allinea centinaia di opere provenienti da ogni parte: dalla Toscana, da Genova, da Napoli, da Brescia da Lecce, dagli Stati Uniti, dal Portogallo… Esistono associazioni amici del presepe, come nel Bresciano, i cui soci realizzano strutture spettacolari anche di decine di metri. Il presepe dà gioia anche al laico impenitente: è atmosfera, esercita da sempre un’attrazione speciale. E’ un racconto scenico, fascinoso, colpisce persino il nome, che viene dal latino e vuol dire mangiatoia. Sin da quando ero un marmocchio aspettavo con ansia il Natale, anche perché, come detto, in un angolo della casa, alquanto modesta, si sarebbe impiantato un panorama frequentato dal taglialegna, dal contadino con un agnellino in braccio da portare alla capanna, dalla donna con il grembiule e i capelli raccolti in un fazzolettone, un cesto in testa. Quando avevo 18 anni divenni amico dell’indimenticabile professor Raffaele D’Addario, pittore, già scenografo a Cinecittà, e lo accompagnavo con grande piacere al laboratorio della Casa del Presepe di Taranto, dove il titolare, Antonio Mazzarano, deceduto a oltre 90 anni un paio di anni fa, aveva trasmesso al figlio Giuseppe l’amore e la capacità di maestro di quest’arte sublime (oggi il negozio è condotto dalla nipote Grazia Spataro, molto soddisfatta del movimento di questi giorni, perché nella Bimare l’abitudine del presepe è antica). Da allora ho sempre seguito questi percorsi luminosi, affascinanti, meravigliosi, ovunque fossero, come a Crispiano, città in cui gli Amici da sempre li fabbricavano con quintali di pane ammuffito o di biscotti scaduti, riscuotendo un successo meritato. 
Bambinello
A Milano ogni anno visitavo il presepe animato in piazza Duomo (il fabbro arroventava il ferro nella fornace; il falegname piallava inondandosi di trucioli…) e il negozio di articoli religiosi di via Montebello, dove a Natale venivano allineati “carillons” che intonavano “Tu scendi dalle stelle” e statuine di ogni tipo, anche in resina, oltre che in terracotta, gesso, cartapesta con abiti veri della vita quotidiana; e presepi in sughero con tetti di legno rivestito di paglia. Poi quell’esercizio abbassò la saracinesca, conquistata da manovratori di spray che vi tracciavano segni incomprensibili in nero. Dopo qualche anno mi fu indicato “La Stele” di Manola e Gianluca, un luogo storico, una bottega, un laboratorio, un regno, abitato da asinelli, pecorelle, e altri animali, come oche, uccellini e conigli, oltre che da statuette destinate a caverne, sentieri, passaggi, ponti, archi, salite, discese, in compagnia di molte altre che fanno del presepe un paese, un paesaggio, tra “piselli” policromi che danno toni diversi agli ambienti: strade, camminamenti, anfratti. Lo spettatore vorrebbe sentirsi dentro a quegli ambienti, farsi partecipe, essere pastore o zampognaro o magari il bue che con il suo fiato scalda il corpo di Gesù: il presepe è anche sogno, oltre che messaggio di luce, di pace in un mondo in cui è piombata l’oscurità dell’anima. La brutalità è una trappola che sta dietro l’angolo.







mercoledì 19 dicembre 2018

Centinaia di foto inviate dai clienti


Lorenzo Triglia


TONSORI DA TUTTO IL MONDO
 
IN UNA BARBIERIA DI MILANO




In Cina il conciateste lavorava con

l’avventore seduto sul risciò; altrove

l’uno e l’altro erano accosciati sul 

pavimento sotto un tetto di lamiera.










Franco Presicci

Più volte il mio amico Cesare Isabelli, settantenne alto, atletico che ben figurerebbe in un film di cappa e spada, mi aveva promesso, anni or sono, di accompagnarmi in una barbieria del centro, in cui erano raccolti tonsori di tutto il mondo, Cina e Australia comprese. Il salone si trovava in via Rovello, sede di un palazzo, già del conte Carmagnola, che lo abitò dal 1413 al 1424 e oggi del Piccolo Teatro, fondato da Paolo Grassi e Giorgio Strehler. La notizia era una caramella profumata ed ero ansioso di andarci. L’amico mi parlava, decantandomeli, di questi maestri del pettine e del rasoio, ma poi i suoi mille impegni lo distraevano e gli veniva a mancare il tempo. Tra l’altro, ora doveva partecipare alla Stramilano, che praticava da sempre; ora era in partenza per New York per sgambare alla maratona americana, che affrontava fino al traguardo quali che fossero le condizioni meteorologiche. 
Via Rovello
Un pomeriggio, dopo una partita in cui mi aveva messo a tappeto con sei scope, lo esortai a decidersi. Il giorno successivo salimmo sul jumbo-tram 4, che conclude la corsa a Cairoli, e a piedi, attraverso via Dante, raggiungemmo via Rovello, dove proprio all’inizio spiccava l’insegna della sala da barba. Notevole fu la mia soddisfazione nel vedere nel vedere tutti quei barbitonsori che mi aveva descritto l’amico appiccicate alle pareti bianche e senza più uno spazio libero. Rimasi fermo ad osservare lo spettacolo non so più quanto tempo: quelle immagini – duecento o trecento, non ricordo -- provenienti dal Vietnam, dalla Cambogia, dall’Arabia Saudita, dalla Cina… Lavoravano all’aria aperta, qualcuno sotto a una tettoia di lamiera mi ricordavano i conciateste che rapavano i milanesi nel dopoguerra tra le macerie degli edifici sbriciolati dalle bombe nell’agosto del ’43. L’uso di insaponare e rasare gli avventori in strada era in voga anche in Francia nel 1200, quando nel nostro Paese poltrone girevoli, specchi, bacili a orli smussi erano già diffusi.
Collezione Triglia
Il mestiere, che ha radici antichissime, cominciò proprio con operatori che si spostavano da un quartiere all’altro e da una casa ad un’altra senza farsi scoraggiare dalle distanze, che magari coprivano pedalando. La cosa non sarebbe piaciuta agli Ateniesi, che avendo in gran conto le chiome e l’onor del mento erano orgogliosi delle botteghe del “coiffeur”, che già allora erano luoghi di chiacchierio. Infatti, nell’attesa di essere dicioccati gli avventori si scambiavano opinioni non sempre benevoli su personaggi all’epoca molto in vista. Fino a qualche decennio fa c’erano persone che ricevevano il barbiere in casa. Per la cronaca, il mio bravissimo collega, da tempo scomparso,
Il giornalista Rizza riceve il barbiere in sala-stampa
Giancarlo Rizza, navigatore, appassionato del bridge e principe della “nera” - sono memorabili gli “scoop” che inanellava, mandando su tutte le furie la concorrenza - riceveva il barbiere, modesto e silenzioso, volto immobile, sempre in giacca e pantaloni grigi e cravatta scura, in sala-stampa. C’è una foto che lo immortala. Ma rieccoci in via Rovello, nella barbieria dei fratelli Antonio e Lorenzo Triglia, dove, detto per onestà, ero stato preceduto mesi prima da un ottimo giornalista, Carlo Lovati, che dal quotidiano del pomeriggio “La Notte”, redazione in piazza Cavour, al primo piano del Palazzo dell’Informazione, di proprietà dell’Eni, era passato al “Corriere della Sera”. Ma lui aveva dedicato poco spazio, pur dicendosi entusiasta di quelle testimonianze originali. Una ritraeva il figaro, in piedi sul marciapiede, intento a sfoltire i capelli del cliente seduto sul risciò, accanto a una bicicletta con l’insegna dell’esercizio pendente dal fanale. In Birmania, in aperta campagna, tra un albero secolare e una catapecchia, barbitonsore e cliente erano accosciati su un tavolo invecchiato, o sul mattonato di un locale disadorno… In Cambogia, una giovane donna sforbiciava “en plein air” sulla capigliatura di uno sbarbato. Il contrario di Paesi come la Thailandia e l’Algeria e altri, dove secondo quella serie iconografica il mestiere veniva esercitato in sale da barba ben dotate. Chissà se costoro praticassero anche salassi con mignatte o sgonfiassero bubboni come nel Trecento a Trieste e fino a una settantina di anni fa in qualche parte del nostro Sud. Ricordo il tale che faceva il trattamento a mia nonna, quando io avevo appena 10 anni e lei un’ottantina.
Antonio Triglia
Antonio Triglia, un calabrese approdato a Milano tantissimi anni fa, disponibile, sorridente, ospitale, ricco d’informazioni, era orgoglioso di questo patrimonio, che comprendeva il Marocco, la Libia, il Tibet… “Ma come è iniziata questa collezione?”. “Un mio cliente, nel 1980, mi portò un’immagine non so più se dall’Argentina o dal Brasile, mi piacque e io l’attaccai al muro. Poi altri lo imitarono e il risultato eccolo qua”. Continua: ”Le pareti sono piene, ma un pezzo di muro lo troverò sempre, se mi verranno regalate altre ‘scene’”. Non smettevo di ammirare gli ambienti, i personaggi, gli attrezzi adoperati, gli atteggiamenti delle persone presenti nelle foto. Cesare Isabelli, che mi aveva fatto scoprire questo mondo, commentò. “Pensa che alcun amici infilano le foto in buste, le affrancano e gliele spediscono, quindi c’è anche il valore aggiunto del francobollo, non certo venale”. 
Collezione Triglia 2
Pagina calendarietti barbieri
Giacchè c’ero, domandai a Triglia notizie sulla storia della barbieria; e mi riferì che, aperta nel ’65 con il fratello Lorenzo, era frequentata da professionisti, imprenditori, intellettuali… tra i quali Umberto Eco, purtroppo venuto a mancare qualche anno fa. Ma non fu Antonio a farne il nome, perché lui osservava la massima riservatezza sulle personalità che si sedevano sulle sue due poltrone girevoli. “Sai, non vorrei che si dispiacessero. Potrebbero sospettare che attraverso i loro nomi mi voglia fare pubblicità”. “Un tempo i saloni da barba disponevano di figure oggi sparite. E voci ormai spente. ‘ Ragazzo spazzola’, si sentiva ordinare al ragazzo di bottega, che doveva carpire i segreti del mestiere vedendo al lavoro il maestro della lama. E chi non ricorda la manicure, che seduta su uno sgabello, tenendo in grembo il cofanetto con i ferri occorrenti, ingentiliva le mani dell’avventore. Ai giorni nostri la figura sopravvive in certe barbierie, ma i vari saloni di bellezza ne hanno assorbito l’attività.
E i calendarietti profumati che i tonsori distribuivano a Natale? Erano molto attesi per le scene dei primi baci cinematografici, quadri d’arte, storie popolari, film, addirittura poesie e belle donne magari in abiti ‘osèe’ e in atteggiamenti maliziosi… Col tempo sono diventati oggetti da collezione. Antonio Triglia, che parlava anche per il fratello Lorenzo, in ascolto attento, si disse soddisfatto del mestiere, che ha ispirato poeti, pittori, compositori. Non solo il “Barbiere di Siviglia”. Un signore in attesa elegante, stile inglese, intervenne tirando in ballo l’importanza della cura di barba e capelli. “Non per niente i bravi dei ‘Promessi Sposi’ sono ritratti dal Manzoni con il ciuffo e i baffi incolti, da cui traspare un ‘riso tra lo sguaiato e il feroce’. Da non dedurne che tutti coloro che si presentano con un pelo anarchico sono sporchi, brutti e cattivi. Continuavo ad osservare le foto. Tra l’altro erano istruttive. Riproducevano tanti particolari dei luoghi in cui erano state scattate: oltre agli elementi del mestiere, tra cui un secchio per l’acqua, gli abiti indossati… Una novità per Milano, apprezzata anche altrove, tanto che una rivista giapponese dedicò all’esposizione un servizio dettagliato. Antonio e Lorenzo non cercavano il chiasso sui giornali, anche se provavano piacere nel vedere che la loro raccolta suscitava interesse. Non poteva essere diversamente, visto che, stando nella loro barbieria, si aveva l’impressione di guardare il mondo. “O no?”, domando a Isabelli. Intanto Antonio mi confidava: “E dire che non volevo farlo, questo lavoro. Papà, uomo saggio, mi spronava: ‘Antò, impara l’arte e mettila da parte’. Obbedii’”. Aveva sì e no 10 anni quando prese ad avere la bottega come doposcuola, a Reggio Calabria. Poi prese il treno e si trasferì a Milano, aprì il locale e i clienti arrivarono subito”. Il percorso che tanti uomini del Sud hanno fatto, dimostrando in ogni campo le loro capacità.











mercoledì 12 dicembre 2018

A Natale fioriscono i ricordi


 
LA STORIA DEL PONY ROCKY  
GRANDE AMICO DEI BAMBINI

Li portava in groppa in giro per
i vialetti del Parco Montanelli.
In via Palestro, a Milano. Poi,
fu mandato in pensione e i
bimbi ne soffrirono. 

Franco Presicci
Anche per Rocky arrivò l’età della pensione. E per i bambini che frequentavano a Milano in via Palestro, ogni domenica e negli altri giorni festivi, i giardini dedicati a Indro Montanelli, che nel loro spazio accolgono anche il civico Museo di Scienze Naturali, e un tempo ospitarono lo zoo, fu un dolore. Un giorno non videro più il pony, e pensarono che fosse indisposto. I papà chiesero a chi poteva dare una risposta sicura e non se la sentirono di comunicarla subito ai loro figlioletti, che chissà quante volte avevano cavalcato Rocky, docile, obbediente, volenteroso. Sembrava che il quadrupede conoscesse il piacere che procurava ai marmocchi, prendendoli in groppa e andare tra i viali costeggiati da ippocastani enormi: giganti vegetali che sono lì da centinaia di anni. Poi i ragazzini tornarono a fare domande e la verità venne loro comunicata con un groppo in gola. Come Nestore, il cavallo di Alberto Sordi nel famoso film anche Rochy era arrivato all’ultima corsa, sconfitto dall’artrite. 
Antonio Marsico con Rocky
Il suo tutore, che lo aveva guidato per tanto tempo nelle sue passeggiate, che partivano dai bordi del laghetto con i cigni, era stato costretto a metterlo a riposo. Alcuni chiesero, supplicando, di potere fargli visita, immaginando che Rocky avrebbe gradito, ed entrarono nel suo rifugio: qualcuno pianse, altri fotografarono i finimenti. Un ragazzo, avendo visto il film del ’94, espresse il timore che gli avrebbero riservato lo stesso destino di Nestore, il vecchio ronzino bianco che nella finzione cinematografica era finito al macello (e il padrone all’ospizio). Ma Antonio Marsico, 56 anni, un calabrese basso e avaro di parole, al quale Rocky, razza Welsh, molto delicata, apparteneva, gli regalò sorrisi stentati poco rassicuranti. Marsico sperava che il suo cavallo nano, 19 anni, venisse assunto da un ospedale, per dare gioia ai bambini ricoverati, come ne aveva data per anni a quelli che sgambettavano nel parco. Ma lui stesso sospettava che la sua speranza non si sarebbe realizzata. Rocky del resto era stanco, debilitato anche psicologicamente. 
I giardini
Era il maggio del 2008, un lunedì, lame di sole filtravano tra gli alberi. Captata la notizia, il cronista fece un salto ai giardini. Marsico lo ricevette nella stalla, vicino al Museo, gli mostrò Rochy e la sua malinconia. Lo faceva uscire per consentirgli di prendere una boccata d’aria, “ma è lui stesso a dare segno di voler rincasare”. E quando Pluto, il pony di 20 anni, al termine del lavoro fatto tirando la carrozzella carica di bimbi, lo raggiungeva, Rocky manifestava sollievo. “Io non parlo, non mi esprimo, non mi lamento, ma è una pena per me - confessò Marsico – Vado per aprire la porta dello stallaggio per sistemare Pluto e Lady, l’altro pony, e Rocky, che avverte i miei passi viene verso di me con uno sguardo triste, quasi interrogativo. E dire che era un animale vivace, che si divertiva nel vedersi attorniato dalla gente, perché, guardi, lo amavano anche i grandi. Rocky cercava la compagnia, e si vedeva che era contento a stare con gli altri.
Pluto
Gli piaceva essere accarezzato sotto il soggolo “e io glielo facevo parlandogli: ‘Bravo, Rocky, quando ti stanchi avvertimi’. Ma lui non si stancava”. Oltre che vivace era bello, intelligente, affettuoso. Proveniva dall’Olanda (Pluto dalla Val Gardena). Sollecitato dal cronista, Antonio Marsico raccontò che una volta avevano portato Rocky, Pluto e Lady, una femmina di colore bianco, vanitosa, altera, al maneggio di Limbiate per una breve vacanza. Tra Pluto e Lady, che non andavano d’accordo, improvvisamente scoppiò una lite e Rocky si mise in mezzo per dividerli, beccandosi anche un bel po’ di calci senza reagire”. Insomma aveva un buon carattere. “Se lo lascio libero, a differenza degli altri due, che scappano e per riprenderli devo fare fatica, Rocky gironzola attorno a un albero o al laghetto e non si allontana. Ha anche fatto scuola di equitazione… Adesso è calata la tristezza”. 
Museo scienze naturali
Erano stati i vigili urbani a dirgli di mandare il cavallino in pensione anticipata. E lui aveva obbedito senza fiatare. “Evidentemente i ‘ghisa’ sono stati avvertiti da qualcuno – dice pacato con un sorriso amaro Antonio, portandosi una mano all’orecchio mimando una conversazione telefonica - Forse lui non si era neppure accorto degli acciacchi del cavallino, che non aveva certo l’aspetto della “rozza del naviglio”, gli equini che, brutti e denutriti, sino a buona parte del Novecento tirarono controcorrente i barconi in navigazione sul Naviglio Grande per portare carni, verdure, frutta, sabbia e lastre e blocchi di marmo per la Fabbrica del Duomo. “E’ magro, ma non inappetente. Mangia più degli altri due – interloquì un assiduo frequentatore dei giardini molto legato a Rocky – Potrebbero farlo visitare da un veterinario, farlo curare e restituirlo, una volta guarito, ai bambini. I miei non vogliono più venire ai Giardini, perchè non c’è’ Rocky. Li ho portati quattro o cinque volte, si sono messi a correre verso il laghetto con i cigni, dove, aiutati, s’arrampicavano sul dorso dell’’amico’ e andavano”. Gli volevano bene, anche quelli che avevano paura di cavalcarlo e indietreggiavano all’invito di accarezzarlo. Chi invece lo faceva, sapendo che Rocky era mite, compagnone, riceveva in cambio baci sulle mani, aggiunse Antonio, mentre spazzava i resti di paglia sparsi sul terreno, osservando il suo Rocky, che se ne stava solitario al suo posto. ”Mi dispiace anche per Pluto. Quando arriverà il giorno della partenza del suo compagno, che a quanto pare è imminente, sicuramente soffrirà”. “Comunque, se e quando quel giorno verrà – commentò una mamma – al centro della sua nidiata, con Rocky se ne andrà un pezzo importante dei Giardini di via Palestro”. E Antonio: “Sono 13 anni che lavoro qui. Prima ero operaio e avevo Rocky in affidamento. 
Il trenino
Da quattro anni è mio”. Ne parlava come se fosse un figlio. E come un figlio dev’essere un animale, se gli si vuole davvero bene e non gli si danno da mangiare soltanto gli avanzi della tavola o lo si tiene chiuso in un recinto. Passò il trenino guidato da un omaccione accosciato sulla locomotiva. Ma non riuscì a sciogliere il grumo di mestizia. Il cronista fu assalito dai ricordi: circa cinquant’anni fa su altri binari circolava un altro trenino, più grande, con sulla “caffettiera” e sui vagoni la scritta “Il Giorno-Ragazzi”, pubblicità per l’omonimo inserto del quotidiano fondato da Enrico Mattei. Anche quello faceva viaggiare i bambini, ed era sempre affollato, come il “il treno della speranza” che provenendo dal Mezzogiorno scaricava gli emigranti nel pancione della stazione Centrale.
Il laghetto
Passarono gli anni e anche quel piccolo convoglio scomparve. E scomparve anche il settimanale impreziosito dai disegni di Jacovitti. Rocky al parco non è tornato più. Di lui non si sono avute più notizie. Nessuno ha osato chiederne ad Antonio, anche perché non lo si vede quasi più. Oggi quei bambini hanno dieci anni in più; e Rocky lo ricordano ancora. Il cronista è tornato ai Giardini Indro Montanelli, per assecondare la sua curiosità. E’ una giornata di novembre. Nel laghetto scivolano sempre i cigni, sulla riva tubano i colombi; gli ippocastani sono spogli, ma sempre superbi. Giovani signore portano a spasso i cani, gli spazi sono silenziosi… E Rocky, il pony mansueto che portava a spasso i gioielli di famiglia? “Dopo di lui ne sono venuti altri – ci informa l’uomo del trenino, colto a fare un po’ di pulizia attorno alla ‘strada ferrata’. Dall’agosto dell’anno scorso il servizio è stato chiuso”. “Bella roba, proprio una bella roba – commenta un signore alto, magro, elegante, che sta attraversando i Giardini per andare in corso Buenos Ayres – Rocky e gli altri cavalli venuti dopo di lui qui erano un’istituzione”. Montanelli è indifferente. Dalla sua postazione di fronte all’ingresso di piazza Cavour angolo via Manin scrive il suo pezzo con la lettera 22, che in vita non ha mai abbandonato.








mercoledì 5 dicembre 2018

Gentiluomo ricco d’iniziative


Statua di Padre Pio
LAMBROS DOSE, L’ARCHITETTO


CHE CREO’ IL MUSEO DELLE CERE

Inaugurato nel ’63 alla stazione

Centrale, aveva una settantina

di statue, da Celentano a Sofia

Loren, a Gary Cooper, al grande

Totò, a Mike Buongiorno.

Quando venne chiuso molti si dispiacquero.




Franco Presicci 

Se si chiedono a un vecchio milanese notizie del Museo delle Cere, probabilmente racconterà la sua storia, magari anche nei dettagli, annoverando i personaggi che lo occupavano. Quel museo era molto frequentato e apprezzato. Andavano a visitarlo famiglie intere; giovani e meno giovani; scolaresche; personalità; e se un treno era in forte ritardo, il viaggiatore, se non si fermava ad ammirare il grande modello della Michelangelo, gioiello della Società Italia di Navigazione esposto nel salone della stazione Centrale, adiacente ai binari, battezzato appunto Galleria del Transatlantico, optava per il Museo Cere, che era al piano di sotto, a destra al termine della scala mobile, come indicava un elegante pieghevole pubblicitario.
Lambros Dose
Il titolare era Lambros Dose, noto e stimato architetto d’interni, un signore alto e asciutto, cortese e disponibile, che dirigeva anche il Centro d’informazione d’arte, in via Brera, quasi di fronte alla Galleria Apollinaire di Guido Le Noci e dotato di un computer che conteneva 15 mila biografie di artisti, non solo di quelli che vi erano esposti in permanenza, tra cui Ibrahim Kodra, Mario Bardi, Salvatore Fiume, Remo Brindisi, Giuseppe Migneco, Gianni Dova. Frequentavo assiduamente il Centro, dove spesso conversavo sia con Dose sia con Nencini, proprietario anche della famosa galleria d’arte “Boccioni”, preferita dai critici più consacrati, come Marco Valsecchi, del “Giorno”; e una mattina sentii parlare del Museo delle Cere e cercai di approfondire l’argomento. Seppi da Dose dove si trovava e i pullman che dovevo prendere partendo da via Lorenteggio, dove abitavo, una via che sorgeva all’altra capo della città, correndo fino a Vigevano e Abbiategrasso. Dose aveva aveva visto i musei Grevin a Parigi e di Madame Tussauds a Londra e ne era rimasto colpito. Una volta a Milano continuò a pensarci e si chiese perché il capoluogo lombardo non potesse avere il suo. Era l’anno in cui riscuoteva grande successo tra i giovani il “Bar Basso”, all’angolo tra viale Abruzzi e via Plinio; nei cinema si proiettava il film di Sergio Leone “Per un pugno di dollari” con Gian Maria Volontè e Clint Eastwood; nasceva il “Club 64”, grazie a Tinin Mantegazza e a sua moglie Velia, famosa ideatrice di pupazzi arruolati dalla Tv; Enrico Intra e Gianni Bongiovanni inauguravano il “Derby Club”, dove si esibivano Bruno Lauzi, Walter Pinetti, alias Walter Valdi, che di giorno faceva l’avvocato e la sera cantava la Milano di ieri; Enzo Jannacci…
Museo delle cere
In quel locale ascoltai anche Daisy Lumini, Charles Trenet, Umberto Bindi e notai tra gli spettatori i Gufi, Paolo Stoppa, Lina Morelli, Giorgio Gaber… Abituato a fare le cose come si conviene, Dose si guardò attorno alla ricerca dell’artista più adatto allo scopo, il più bravo, e lo individuò in Ettore Baresi. Andò da lui e gli espose il progetto. Baresi accettò l’incarico e si mise subito all’opera. Si procurò la cera, la modellò eseguendo le sagome dei personaggi prescelti, passando poi al “maquillage”. Della vestizione si occupava lo stesso Dose, che tra l’altro aveva rapporti con le sartorie. Le capigliature erano affidate alla moglie di Baresi, Angelica. Il lavoro, durato un anno, si svolse senza soste.
Statua di Mike Buogiorno





Nel ’63 i primi simulacri curati nei minimi particolari, furono sistemati nel museo e venne poi tagliato il nastro inaugurale, presenti le autorità e un folto pubblico, stupiti di trovarsi di fronte a quella quarantina di statue raffiguranti Garibaldi, Hitler, Napoleone, Churchill, Gary Cooper, Adriano Celentano in una delle sue movenze che in teatro eccitavano i “fans”; il presidente dell’Inter Angelo Moratti; Mike Bongiorno… tutti colti nei loro atteggiamenti abituali. Poi i “vip” s’infoltirono. Si aggiunsero i kennedy, i Papi Giovanni XIII e Wojtila, Padre Pio... Una settantina di simulacri. La sera in cui nel Centro era in programma una manifestazione con un giornalista del settimanale “Il Milanese” incaricato di rivolgere domande a pittori e scultori su come vedevano Milano, Lambros Dose accennò al suo museo, senza toni enfatici, come era solito fare, attirando la mia attenzione.
Lambros Dose e Francesco Ogliari
Mi confidò di volerlo sempre più interessante e ricco, “visto anche il flusso di gente che viene a visitarlo e i commenti lusinghieri che lascia... Io non pensavo che il museo avrebbe ricevuto tutti questi consensi. Insomma Milano ha risposto molto bene all’iniziativa”. Quando gli chiesi se intendesse portarlo ai livelli di altri musei rispose che lui faceva le cose senza manie di grandezza. “Non amo i paragoni. Madame Marie Tussauds ha creato un museo tra i più famosi al mondo, con sedi in diverse città, da Londra a Berlino, ad Amsterdam… Cominciò a cimentarsi con la cera quando era ancora quasi una bambina e con la serie di statue eseguite creò il suo capolavoro, che comprende anche Enrico VIII e George W Bush”. Il museo Grèvin – aggiunse – che si apre sul boulevard Montmartre, è il più antico di quelli europei, con un numero enorme di esemplari e un’infinità di visitatori ogni anno. Venne fondato nel 1882 da Arthur Meyer, di professione giornalista”. Era comunque entusiasta dell’opera che aveva realizzato.
Serata al Centro informazioni d'arte
Lo si leggeva negli occhi, quando parlava della folla che arrivava soprattutto la domenica e si diceva affascinata anche dagli ambienti e dalle atmosfere. Un signore attempato si lasciò andare ad un giudizio ad alta voce: “Questi allestimenti scenici rivelano la mano di un maestro”. E il maestro, che a poca distanza era impegnato in una discussione con un artista, era Lambros Dose. Un ragazzo volle sapere da un collaboratore come si facesse a rendere così efficaci, così veri le statue ed ebbe subito la risposta: “Prima di iniziare a modellare la materia si studia bene il carattere del soggetto; non si lascia nulla al caso; l’artefice non si limita ad osservare una foto. Se il soggetto è ancora in vita si va ad incontrarlo, gli si parla, studiando i suoi gesti… Quando si ritiene di averlo assimilato, si passa all’esecuzione”. “Lambros, dimmi di Baresi. “E’ nato a Chiari, in provincia di Brescia, e viveva a Novate alle porte di Milano prima di trasferirsi nella nostra città, dove nel ’55 sposò Angelica Carbonovo.
Stazione Centrale
Sala Centro Informazioni
Lavorava in banca quando lo pregarono di disegnare cartoni per un film di animazione, “La rosa di Bagdad”, il primo del genere mai realizzato in Italia”. Baresi abbandonò poi la cera, ma era felice di vedere le sue opere rivivere nel museo della stazione Centrale e i quotidiani e le riviste che nel parlavano e i fotografi che lampeggiavano. Ogni nuovo arrivo era festeggiato con una cerimonia solenne, che suscitava sempre interesse tra i milanesi e non. Poi Lambros Dose pensò di attrezzare un ufficio stampa ma non lo fece, forse non ebbe il tempo. Era il ’90, quando all’ingresso del museo venne appeso un cartello per comunicare che Napoleone, Garibaldi e compagnia venivano trasferiti in una riserva. Su quell’avviso un anonimo scrisse: “Mi dispiace”. Dispiacque a molti: agli studenti, ai turisti, ai curiosi, a chi ci andava per ingannare l’attesa di un treno in ritardo. Qualcuno volle sapere dove fossero finiti Sofia la Loren, il grande Totò, Alessandro Manzoni, Gary Cooper… Gli venne detto che a farli uscire dal deposito aveva pensato l’Associazione Postumia di Gazoldo degli Ippoliti, nel Mantovano. Il sodalizio li aveva acquistati in blocco in un’asta, convenientemente restaurati e ospitati in una sede prestigiosa, aggiungendovi il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Papa Benedetto XVI. E non solo loro. C’è ancora chi ricorda Lambros Dose, un gentiluomo che amava anche fare parlare i giornali degli artisti che lo meritavano. Mi accompagnò a casa di Ludmila Vouch, delicata pittrice naif che se non ricordo male aveva ballato al Bolscioi e dipingeva splendide vedute di città, tra cui Milano e Mantova. Lambros Dose è scomparso da tempo. Il museo ha spento le luci dopo di lui. Nel frattempo la moglie voleva crearlo, l’ufficio stampa, per non far morire il museo.


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mercoledì 28 novembre 2018

Un fotografo avido di luce

Marzio Franco durante l'intervista

MARZIO FRANCO, DI MONZA


INNAMORATO DEL SALENTO



Si definisce stanziale, e ha invece
visitato più volte Parigi, la Sicilia,
la Puglia. Un racconto molto lungo
con immagini, il suo, testimoniato
da mostre in spazi importanti e da
volumi prestigiosi. L’altra sera una
sua esposizione è stata visitata da
un folto pubblico. Sue foto sono
state esposte sabato 24 a Milano,
a Palazzo Reale, in occasione di
“Ambasciatori di Puglia”.




Franco Presicci
                                                                                                   Si definisce stanziale.
Foto di Marzio Franco
“Non mi sono mai mosso da Monza per fare il pellegrino in altre località della Lombardia. La Brianza è una terra ricca di attrattive, paesaggi splendidi, spianate di verde…, tanto che alla fine del Settecento i nobili di Milano per le vacanze vi costruirono ville di delizia che con la loro magnificenza dovevano testimoniare il potere e la ricchezza della famiglia”.

Dal libro Monza paesaggi quotidiani
Quando “Il Cittadino” di Monza, prendendo spunto dalle “Passeggiate fotografiche milanesi”, lo ha incaricato di portare in giro per la Brianza, dove viene pubblicato e venduto, amici e conoscenti desiderosi di fare “clic” verso un angolo seducente da pubblicare in una pagina apposita del quotidiano, non se l’è fatto dire due volte. “Siamo stati a Vimercate, Lissone, Meda, Cesano Maderno, Agliate, Cornate d’Adda, Briosco, Parco e centro di Monza. E anche a Milano, a Porta Genova: via Tortona, la darsena, il Naviglio Grande, vicolo dei Lavandai… e alla Bicocca, zone di una città che ha una bellezza ”meno rigorosa e chiusa”; e perciò “più difficile intenderla a prima vista di quella veneta e toscana”, ha scritto nel ’57 Guido Piovene nel suo ”Viaggio in Italia”, aggiungendo che “bisogna liquidare il luogo comune che questa città e questa regione siano inferiori di bellezza al resto d’Italia”.
Altra foto di Marzio
E allora si può dire stanziale un maestro dell’obiettivo fotografico com’è Marzio Franco, che è stato più volte sulle rive della Senna, come a suo tempo il poeta Raffaele Carrieri; il grande gallerista Guido Le Noci; e tanti altri: scrittori, pittori, letterati, giornalisti, tra cui Guido Vergani, che, figlio di Orio, ha illustrato Milano con un linguaggio colto ed elegante; Domenico Porzio, studioso di Borges e autore fra l’altro di “Primi piani”, in cui concentrò le storie di Montale, Guttuso, Villaggio, Eduardo, Agnelli…? Marzio non ha visitato soltanto Parigi, ma anche la Sicilia (“Ci vado quasi ogni anno”) e il Salento, così pieno di luce e di calore. Si porta dentro l’incanto dei luoghi percorsi, Marzio Franco, 64 anni, hobby-studio, come lui indica il suo spazio, o “spaziotazio”, in omaggio a Tazio Nuvolari, “Nivola”, uno dei più grandi assi dell’automobilismo dagli anni 20 ai 50; e a un gatto randagio “che girava qui attorno e mangiava cinque scatolette di pappa al giorno”.
Il negozio di fronte alla casa di Moro
E proprio in questo riposante ”atelier”, bene illuminato, tutto biancolatte, al piano terra, sono appese una ventina di sue foto con vie, edifici, scalinate, barche, le vetrine di Dorabella, a Maglie, di fronte alla casa di Aldo Moro, il presidente del Consiglio ucciso dalle Br nel ’78; Santa Maria di Leuca; Gallipoli (già il nome, derivante dall’accoppiamento di due parole del greco antico, dice che è bella). Lo colpisce anche l’ospitalità, il calore delle persone, che “mi fa sentire a casa mia”.
Foto di Marzio

E’ tornato in quei luoghi che ristorano l’anima, volendo vedere se poteva migliorare il lavoro già fatto, asciugando il modo di ritrarre un aspetto già immortalato. Rieccolo dunque a Maglie, “da paese contadino a centro di studi e di commercio – parole di Giuseppe Giacovazzo (nel suo ‘Puglia, il suo cuore’), che fu direttore della ‘Gazzetta del Mezzogiorno’ dopo anni trascorsi alla Rai - Case bianche a un piano, pareti bugnate come i palazzi dei signori. Morbida pietra che da qui prende il nome: pietra di Maglie…”.
Foto di Marzio
Rieccolo a Gallipoli, orgogliosa del suo passato per la tenacia con cui lottò contro i romani, gli unni…, decisi ad assoggettarla. Potrebbe parlare a lungo di questa regina che sembra spuntare dal mare: la folla che accerchia i pescatori all’arrivo del pesce; la chiesa di San Francesco con il “Cristo fra i due ladroni”: le porte corte delle case… Si è appostato davanti a un micio addossato ad un muro; in un viale costeggiato da alberi lussureggianti… catturando la pienezza della luminosità, che gli ha suggerito “Così fan tutte” di Mozart, “un’opera azzurra, che trasmette appunto i colori del Sud”.
Marzio Franco illustra una sua foto
Il collegamento gli è forse venuto mentre coglieva il negozio di Dorabella, che è uno dei personaggi dell’opera in cui lo scapolo Don Alfonso manovra i fili che fanno muovere autentiche marionette. ’Così fan tutte’ è l’opera dell’inganno, della scommessa sulle donne, dove tutto ha un doppio senso; e la musica è così solare, che dà l’idea del Mediterraneo…”. S’interrompe per farmi ascoltare un brano della composizione, mentre lo Spaziotazio si riempie di visitatori, ammirati dai risultati di questo artista sensibile e profondo.
Dal voume Sfondi
Lui saluta tutti con un sorriso discreto e un cenno della mano destra e riprende a conversare con me, mostrandomi i suoi libri stupendi: “Monza: paesaggi quotidiani”, “Sfondi”, “interpretazione geometrica di Monza, che è l’esaltazione del quotidiano”, le cose meno rilevanti che non guarda nessuno”: saracinesche abbassate attraversate da scarabocchi tracciati con la bomboletta spray; cancellate; muri intervallati da nicchie, una semicircolare con una bottiglia vuota sul piano; residui di auto; due cavallucci ai giardini…, tutto in un rigore compositivo e un’apparente semplicità di impostazione, come scrive Pio Tarantini.
Maria Grazia mostra i suoi lavori
Marzio Franco racconta con voce pacata, mentre la moglie, Maria Grazia Riva, di professione cardiologa, offre caffè e biscottini. “La passione per la fotografia nacque durante un viaggio fatto con un amico nell’80: lui con la macchina fotografica e io senza. Vidi le foto dei posti visitati e decisi di attrezzarmi anch’io. Iniziai con vedute di architettura su Monza; frequentai un corso di sviluppo e stampa in bianco e nero con il professor Giampaolo Bolognesi al Circolo fotografico monzese; scattai foto con Paola Sammartano…: il sodalizio poi si sciolse, ma non l’amicizia”.Lo si ascolta volentieri senza guardare l’orologio, Marzio Franco, che tra l’altro ha allestito mostre, sempre di immagini in bianco e nero, ”fino a quando non è arrivato il digitale e ho preso a utilizzare il colore.
Saletta per lo sviluppo e la stampa
Il primo lavoro di prestigio è stato quello del cimitero di Monza, che è uno dei più importanti della Lombardia”: una ricerca sulla scultura d’arte sino agli anni ’50. “Monza vanta realizzazioni di scultori di grandissimo livello: da Francesco Messina a Ernesto Bazzaro, a Enrico Pancera…”. Dei monumenti Marzio ritrae i dettagli: il volto, le mani, le pieghe di un abito, un punto bagnato nella luce giusta. “’Il tempo sospeso’, l’impegno sul cimitero, è partito dall’idea di fotografare il Liberty: poi ha avuto uno sviluppo più ampio”.
Il pubblico
Uno sguardo a un’immagine di Lecce e continua: “In seguito ho abbandonato il figurativo e mi sono rivolto alla geometria degli oggetti in cui ci imbattiamo ogni giorno: segnali stradali, passaggi pedonali, cartelli…, che ha prodotto un’altra esposizione intitolata ‘Geometrie irrilevanti” allo spazio “White photo Gallery” di Lecce e alla Fondazione Mastroianni di Arpino, in Ciociaria, oltre che a “Punto Arte” di Monza, a cura di Bianca Trevisan. Un itinerario brillante, quello di Marzio Franco. Con la sua macchina fotografica, che, come un critico scrisse di Mario De Biasi, fa parte della sua anatomia, ci offre immagini armoniche, affascinanti, capaci di suscitare emozioni. Epifanie impreviste, secondo il giudizio di Maurizio Crippa espresso in “Gli occhi, la musica”, contenuto in quel gioiello fotografico, che è “Sfondi”.
Un volume di Marzio Franco
Anche lui, pur conoscendo la sua città, Monza, prova meraviglia di fronte a certi rettangoli colorati di Marzio: mai visto quel brano di paesaggio, quel tratto di campagna annegato nella nebbia; quella panchina in pietra e quell’albero segato in un verde ben pettinato che si allunga fino a un campo da calcio. Chissà quante volte Marzio è tornato in quelle contrade per catturare la luce preferita. La luce, sempre la luce. Le forme, certo, ma devono essere nelle condizioni da lui volute. Marzio è attento, scrupoloso, addirittura pignolo. Cammina osservando, senza stancarsi. Non crede nell’ispirazione, ma nel lavoro. E ogni volta un’opera d’arte. Si ricorda “Il parco non solo ville”, una “ricerca fotografica su ville e cascine all’interno del Parco di Monza, fatta in collaborazione con Paola Sammartano, esposta al Serrone della Villa Reale della stessa città. E il volume “Oui Paris”, con design di Massimo Fiameni, segnalato tra i migliori della categoria “Digital Printing” al Fedrigoni Top Award 2015 ed esposto alla London Stationar’s Hall.
Marzio Franco e la dottoressa Renda
Da Sfondi
Successi di cui Marzio non parla, forse anche perché distratto dai visitatori che vengono a porgli domande su una foto o sulla sua biografia. Pubblico interessato anche alla vita di un artista avido di quei giochi di luce che possono essere irripetibili. L’intervista si conclude e Marzio può dedicarsi ai visitatori, che lo riempiono di elogi meritati. Alcuni sono amici che da lui prendono lezioni di fotografia. Tra questi la dottoressa Salvatrice Renda, detta Titti, siciliana doc, che a suo tempo ha lavorato con Maria Grazia al De Gasperis, all’ospedale di Niguarda, diventando inseparabili. Maria Grazia ha l’hobby di creare fermaposti apprezzabili. Ha aperto una scatola e li ha tirati fuori per mostrarli ad alcune signore in una saletta riservata alle macchine per lo sviluppo e la stampa delle foto. Quando usciamo la via che celebra il campione è semibuia e deserta. L’aria gelida, con promessa non mantenuta di neve. Una volta a casa, ho telefonato a Michele Annese per anticipargli l’articolo, e il direttore mi ha ricordato i tempi in cui nella biblioteca di Crispiano all’epoca diretta da lui si teneva, fra gli altri, un seguitissimo corso di fotografia guidato dal grande fotografo Romano Gualdi, autore delle immagini contenute nel volume “Le cento masserie di Crispiano”. La fotografia: la voglia di fermare le cose.



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