Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 28 giugno 2023

Aldo Cortina e il suo amore per Milano

IL SUO “ATELIER” ERA FREQUENTATO

DA ALDA MERINI E DA DINO BUZZATI


La tettoia di vicolo dei lavandai

Allievo di De Pisis, il pittore allestì

mostre in mezzo mondo. Titolare della

libreria  universitaria di fronte alla

Statale, era notissimo e molto

apprezzato. 

Delle sue opere scrissero i critici più

famosi, da Alberico Sala a Mario

Lepore. Sospirò la conquista di via

Bagutta, che due volte all’anno diventa

una galleria d’arte a cielo aperto. 

Il Comune gli assegnò l’Ambrogino

d’oro.

 

Franco Presicci

Aldo Cortina
Il Naviglio Grande
Ricordi di Bagutta del fondatore  De Cerce

Aveva l’atelier in vicolo dei Lavandai. Subito dopo aver messo piede in quel nastrino di terra battuta, lo si trovava di fronte. E appena entrava un visitatore, amico o sconosciuto che fosse, gli andava incontro con un bicchiere di vino. Se il nuovo arrivato era astemio, nessun problema, tanto subito dopo sarebbe arrivato un altro e il nettare se lo sarebbe sorbito lui. Aldo Cortina era di una gentilezza squisita, di un cuore nobile.
Quando dipingeva il Naviglio Grande, le sue case, i suoi cortili, le sue ringhiere inondate di fiori, gli si formava attorno una siepe umana, e lui continuava a far fremere il pennello sulla tela, incurante del movimento. Erano soprattutto ragazzi che crescevano sull’alzaia, giocando sulla sponda del ricciolino d’acqua che svirgola dal naviglio. Quando dalla finestra della sua abitazione li vedeva il Carletto, insignito scherzosamente del titolo di sindaco del vicolo, sceneggiava tuoni e saette. Carletto era uno spilungone bonario e innamorato del “suo” “rizzulin”. I ragazzini avevano capito che i suoi erano quadri di teatro e non se ne preoccupavano, anche perché il Carletto abitava al primo piano del civico 6 e, se avesse fatto sul serio, prima che li      raggiungesse avrebbero avuto tutto il tempo di eclissarsi. Il duello accadeva quasi ogni giorno, mi diceva il solito Guido Bertuzzi, che era uno degli “elettori” del Carletto e uomo di una simpatia grande e di una bontà più unica che rara, oltre che pittore delicato. Io, con il Carletto, avevo parlato più di una volta e una di queste mi aveva detto di essere molto legato al “rizzolino”, tanto da sentirlo parte di sè. Lo considerava sacro e anche misterioso in quanto nessuno sapeva dire dove andasse a finire dopo essersi infilato in un varco aperto sotto l’alto muro che deviava il vicolo.

Corso Vittorio Emanuele
Aldo Cortina non seguiva questi avvenimenti, anche perché nello studio era presente la sera dopo la chiusura della sua imponente libreria universitaria davanti alla Statale e la domenica, quando andavano a visitarlo amici cari, tra cui Alda Merini, Dino Buzzati, Bettino Craxi, Giovanni D’Anzi, Romualdo Caldarini, che lanciava sempre uno sguardo alla tettoia, che è monumento nazionale. Qualche settimana prima della sua morte all’ospedale Fatebenefratelli Aldo aveva montato il cavalletto in piazza del Duomo, affollata di turisti e meneghini che conversavano o davano il pasto ai colombi. Amava anche il dialetto della “sua” Milano e ogni tanto si compiaceva di parlarlo anche con qualche forestiero. Anni prima, per uno spettacolo teatrale aveva realizzato quattro scenografie, tra cui la stazione Centrale, il Naviglio Grande, la Cattedrale. Una occupava l’intera parete dello Spazio Cortina, che era il nome del suo studio. Dopo di lui sono state le figlie Tiziana e Michela a tenerlo attivo. Non poteva chiudere la bottega che era un gioiello del vicolo più famoso visitato di Milano, che attirava anche docenti dell’Università di via Festa del Perdono, tutti attratti dalla pittura impressionista di Aldo, che era stato allievo di De Pisis. Era un falso burbero. In realtà era persona semplice, generosa, cordiale. “Era un montanaro”, mi disse Tiziana, che sul papà potrebbe scrivere un libro. Aveva due fratelli: Renzo, che aveva una spaziosa e fornitissima libreria con annessa galleria d’arte in piazza Cavour con vetrine in cui erano esposti oltre ai libri anche quadri di Buzzati; Mario, anche lui libraio, in via Francesco Sforza. Renzo scrisse un volume, “Horca miseria”, titolo che parafrasava “Horcynus Horca”, di Stefano D’Arrigo pubblicato nel ’75. Anche Renzo, che in quelle pagine riuniva tutti i nomi più rilevanti di Milano e non solo, era molto conosciuto a Miano: partecipava a giurie di premi, organizzava presentazioni di libri, esponeva artisti famosi, come Filippo Alto e lo stesso autore del libro, uno dei tanti, “Un amore”, Buzzati. Aldo e i suoi fratelli arrivarono a Milano nel ’53 da Trichiana, Belluno. Aveva 14 anni e già mescolava i colori sulla tavolozza. Aldo conobbe De Pisis alla Galleria Barbaroux, da cui attinse la tecnica e la vocazione per la pittura “en plein aire”.
Catalogo di Aldo Cortina
Notai una sua opera esposta non ricordo più dove, m’informai e andati a cercarlo in libreria, acquistando “Le istituzioni di diritto pubblico” di Paolo Barile. Quasi fosse un sensitivo, mi disse: “Tu non sei venuto solo per il libro”. “Infatti”. “Allora?”. “Vorrei fare due chiacchiere con te, se hai tempo”. “Ne ho”, e pregò una collaboratrice di sostituirlo. Intuì quello che desideravo e non mi dette tempo di fargli domande. “Lavoravo come garzone di farmacia, ma preferivo vendere libri, così mi piazzai con un carretto nei pressi di piazza Santo Stefano, aspettando clienti. Nel tempo libero frequentavo la Scuola d’Arte del Castello Sforzesco e l’Accademia di Brera”. La prima mostra l’allestì alla Galleria Bolaffi di Milano. Con la guerra indossò la divisa e continuò a usare i pennelli. “Poi mi fecero prigioniero, a Orano, sulle coste algerine”. Parlava in modo fluido, Aldo. E mi guardava dai suoi occhiali con la montatura spessa e scura. “Tornai al commercio dei libri e realizzai questa libreria.
 
Antichità
Poi altre, e altre mostre personali, nei musei e in diverse città, nel nostro Paese e all’estero, come alla Chinetti Gallery di New York”. Negli anni ’60, la lotta per la conquista di via Bagutta (che si voleva sorella della romana via Margutta), capeggiata da Bruno De Cerce, un bravo pittore barbuto e battagliero, fu vinta e gli artisti, due volte all’anno, potettero trasformare la via, che parte da piazza San Babila, in una lunga galleria d’arte. La via continua ancora a calamitare valanghe di curiosi e acquirenti. Quando De Cerce, che aveva anche un’attività pubblicistica (scrisse tra l’altro un taccuino di ricordi presentato dal celebre giornalista e scrittore Nantas Salvalaggio), lasciò la presidenza del comitato, toccò a Cortina guidare il comitato organizzatore. Io non mancavo mai a quelle giornate multicolori.
 
Romualdo Caldarini
 
 
Mesi dopo la morte di Aldo Cortina suggerii al nuovo pilota, Romualdo Caldarini (che aveva la una galleria d’arte sull’alzaia Naviglio Grande, dove dipingeva anche i trulli su ampie distese di vigneti), di intitolargli un’edizione della mostra. Caldarini, che mi sembrava un monaco francescano anche per la dolcezza dei suoi modi, accolse subito la proposta e si scusò di non averci pensato. “Papà dipingeva tutte le domeniche”, mi raccontò Tiziana. Si ispirava alle vie, alle piazze piene di gente e affogate nella nebbia, ai canali della vecchia Milano, al Naviglio Grande, di cui ha colto l’atmosfera di poesia. Nei suoi quadri emergevano anche Venezia, che portava nel cuore, le valli bellunesi, con tocchi rapidi, decisi, ricchi di emozione. La sua gamma cromatica trasmetteva gioia, speranza, ottimismo. Ricevette apprezzamenti da Churcill e da Pertini. Ma lui non se ne vantava con nessuno. Lo scoprì la figlia Michela, spigolando tra le sue carte.
 
Festa del Naviglio
Alle feste del Naviglio il suo studio veniva preso d’assalto, mentre un appassionato di fisarmonica, Gamberini, intonava brani milanesi e Cesarino il tassista spandeva allegria. “Per la salvaguardia del dialetto brianzolo andavamo con altri artisti a Viganò Brianza: realizzavamo quadri estemporanei che venivano messi all’asta e poi tutti al ristorante “Pierino”. Aldo Cortina era il primo a finire e ci dava fretta. Una frana distrusse un asilo a Berbenno di Valtellina e io, Aldo ed altri con le nostre tele contribuimmo alla ricostruzione del luogo”. Sono passati tanti anni da allora e ancora oggi non sono pochi quelli che rimpiangono l’allievo di De Pisis che amava Milano e le folle, che riprendeva come teste di spillo. Aldo morì all’età di 67 anni, nell’88. In vicolo dei Lavandai ci andai una mattina piovosa e mi soffermai a scambiare due parole con una signora molto anziana che non aveva conosciuto né Aldo Cortina né Guido Bertuzzi, ma ne aveva sentito parlare. Sapeva che del pittore-libraio avevano scritto, fra gli altri, Buzzati, Alberto Bevilacqua, Mario Lepore, Enzo Fabiani, Giuseppe Pontiggia, Alberico Sala (che era anche poeta, e quando nel ’67 a Sanremo morì Luigi Tenco fece una pagina sul “Corriere d’Informazione”, definendo vere poesie le canzoni dell’autore di Cassine). Nel ’79 il Comune di Milano assegnò ad Aldo l’Ambrogino d’oro. Uno dei suoi cataloghi, edizioni Martello, porta la firma di Enzo Carli, il quale scrive di conoscere poco questa città, specialmente le strade e i quartieri lungo il Naviglio dove in un certo vicolo dei Lavandai il pittore ha installato il suo studio, e quindi non sono in grado di garantire la fedeltà topografica di tanti luoghi da lui prediletti e riprodotti. Ma a me, toscano abituato a ben altri cieli e a ben altre realtà urbane, i suoi quadri comunicano un’emozione quasi struggente, una sorta di nostalgia di un tempo e di un mondo ormai tramontati”: tempo in cui il traffico ed i parcheggi non erano intasati e l’aria era pulita e le biciclette non correvano sui marciapiedi, sfiorando i pedoni.







mercoledì 21 giugno 2023

Un ricordo della Milano notturna

IL CRONISTA MICHELE FOCARETE RACCONTA MINUZIOSAMENTE


Descrive luoghi, personaggi, orari,

guadagni, spogliarelli, aperture e

chiusure, curiosità e altro, fino ai

boss della mala e il loro seguito,

che frequentavano i locali. Con la

sua penna felice il “segugio” ha

scritto un libro: “Milano by night”.

 

Franco Presicci 

Focarete dal Santo Padre
E’ la memoria storica delle vecchie notti milanesi. Per motivi professionali ha frequentato tutti i locali, ha conosciuto le ragazze di sala, ha osservato i clienti abituali, tra cui anche qualche boss della malandra, ha conversato con i titolari, di qualcuno è diventato amico, raccogliendone le confidenze.
Focarete al Salone del Libro

 

 

E quando gli capita di rispolverare quel mondo, sollecitato da un collega giornalista, che ne deve scrivere o parlare in tivù, risponde senza dover forzare la cassapanca in cui custodisce i ricordi. Michele Focarete è un cronista molto bravo e scrupoloso, attento e infaticabile, che quando cacciava non mollava la preda a nessun costo. La notizia era per lui sacra, e quando la conquistava la irrorava, stando al linguaggio di Gaetano Afeltra, per soddisfare ogni curiosità del lettore. Uomo simpatico, spiritoso, pronto alla battuta, leale, rispettoso, abilità nel raccontare e nello scrivere, era tempo che volevo farmi descrivere da lui l’ambiente dei night e non solo; e quando sono riuscito a catturarlo, l’ho sommerso di domande. 

Michele Focarete
E lui, calmo e paziente, mi ha tratteggiato un quadro non proprio completo, perché il tempo è prezioso per tutti, quindi anche per lui, nonostante sia in pensione e le pagine dei giornali non siano di gomma. E lui mi ha parlato di ”entraineuse”, di spettacoli di nudo, di impresari, dei guadagni, dei comportamenti dei boss della mala…. Una sera uno di questi vide una bella ragazza e impose al proprietario: “Questa non lavora più, la prendo io”. L’interlocutore, che non lo conosceva, stava per rispondere a tono, il cameriere che gli stava di fianco gli sussurrò qualcosa all’orecchio e lui con molta rabbia dentro ma con gentilezza affettata rispose: “D’Accordo, faccia pure”. E probabilmente gli offrì anche una bottiglia di “champagne”. Questo tipo di clientela era tollerata, con il timore che la sua sola presenza potesse infastidire gli altri. La mole dei ricordi Michele li ha travasati in un libro del 2017, “Milano by night – quando lo spogliarello era un’arte” - che attira subito l’attenzione del lettore e la tiene viva pagina dopo pagina: “Ogni lunedì sera era lì. Sesto posto di sinistra, in prima fila.
Michee Focarete
Renzino, come lo chiamavano tutti, non mancava mai alla prima di uno show al teatro Smeraldo. Cascasse il mondo. Eppure faceva fatica a camminare per via di un ictus che l’aveva minato nella parte sinistra del corpo una decina di anni prima, quando aveva cinquantadue anni. Zoppicava vistosamente e muoveva il braccio a stento. Di solito quel braccio gli serviva da appendiabito. I suoi applausi alla vedette al termine del numero li vedevano e sentivano tutti: si metteva in piedi urlando ‘Sei brava, la più brava’”. Smetteva perché il fiato non era più quello di una volta. Renzino appariva in teatro alle 15, quando veniva proiettato un film porno della durata di circa un’ora e mezzo. Pellicole che negli anni Sessanta erano alquanto trasgressive”, ma che oggi non scandalizzerebbero neppure un’educanda. Alle 18 la musica cambiava: toccava a una specie di varietà con “gag” etichettati con titoli di fantasia del genere “Tutti i nudi vengono al pettine”. L’ultima volta che Renzino era stato seduto sulla sua poltrona preferita, fu l’8 settembre del ’79. Dovette rimanere prigioniero in casa, sospirando il tendone rosso porpora del teatro Smeraldo che si sollevava.
Focarete e il sigaro

Nel racconto di Michele sfilano le “entraineuse” più richieste che all’estero percepivano proventi molto elevati. Le loro storie le rievoca bene e le snocciola volentieri. Quella più pagata d’Europa si confessò con lui, gli mostrò il pancione e gli disse che aveva già un contratto per una “tournèe” in Canada. Nel ’59 al teatro Alle Maschere in via Borgogna una delle donnine aveva mobilitato la Buon Costume per le sue ardite acrobazie. “E’ passato tanto tempo da allora, ero appena arrivata da Parigi e avevo lasciato le ‘Folies Bergère’, debuttando a Milano”. Via di questo passo. Nel libro di Focarete c’è dunque tutto e di più sulla vita di questi locali, di cui oggi si è persa anche la memoria. I locali più prestigiosi, tutti e tre con lo stesso proprietario, erano l’Astoria, la Porta d’Oro, che stava nella piazza Diaz di una volta, quando non aveva ancora il monumento dedicato al carabiniere, e il Gatto verde, vicino alla Stazione Centrale. Il primo era stato inaugurato alla fine della guerra e non aveva mai cambiato aspetto. Il proprietario era sempre presente – annota Focarete – all’Astoria e alla Porta d’Oro; nel terzo mandava suo figlio, forse perché facesse il rodaggio. “Quando entravo alla Porta d’Oro” – indubbiamente il più ampio night di Milano. per andare a trovarlo, mi veniva incontro una mora longilinea dal trucco marcato e dai movimenti lenti quasi studiati. Era una sorta di icona inamovibile mentre le altre ragazze venivano tenute al massimo un mese…”.

Focarete e la pornostar Moana Pozzi
Da cronista e conoscitore dell’ambiente, Michele Focarete non riusciva a spiegarsi il motivo che la rendeva così radicata, come le radici della quercia alla terra, ed essendo in confidenza con il “manager”, gli pose la domanda. La risposta fu una rivelazione: la longilinea era un capitano dell’esercito turco. Michele trasalì. Un capitano nelle vesti di una “striptease”! A quei tempi Michele girava per Milano con un vecchio motorino, già un privilegiato rispetto a Giovannino Guareschi, che, ai tempi di “Candido”, percorreva la città in bicicletta. Michele aveva collaborato con “Il Giorno”, e lo vedevo spuntare in Cronaca con l’articolo in mano, sempre in punta di piedi. Poi fu assunto alla “La Notte”, quotidiano del pomeriggio che aveva in plancia Cesare Lanza, già apprezzato caporedattore al “Secolo XIX” di Genova. Michele era ormai un cronista ben collaudato e un conoscitore senza rivali della Milano “by night”. I suoi articoli contenevano sempre delle chicche e venivano letti con interesse.
 
Focarete si concede un ballo
Focarete
Sulla scrivania da una foto, accanto a lui, occhieggiava Moana Pozzi, già una leggenda, chiamata spesso anche dalla Rai, oltre ad avere ruoli in alcune commedie, e ad esibirsi nel porno con il nomignolo Linda Heverer. Michele aveva scritto anche per il “Corriere d’Informazione”, altro giornale del pomeriggio fratello minore del “Corriera della Sera”, dove aveva curato una rubrica intitolata “Notte e musica”, voluta dal grande Arnaldo Giuliani, all’epoca capocronista. Di giornali ne ha girati parecchi. Quando era agli esordi al “Corriere d’Informazione” gli affidarono un’intervista alla fidanzata di allora di Gianni Rivera, credendo che non sarebbe riuscito ad avvicinarla; invece tornò con il carniere pieno. Al “Giorno” arrivò quando capocronista era Enzo Catania e vicedirettore Gudo Gerosa, poi una parentesi a “Repubblica”, quindi al “Corrierone“, in cronaca., dove si occupò e bene anche di “nera”. Nei night era molto stimato: corretto, professionale, competente. Tutto questo emerge dal suo libro, in cui sciorina i nomi, i nomignoli, il livello delle spogliarelliste, gli orari in cui davano spettacolo, i teatri e le loro vicende… Ha fatto anche un librettino con tutti i ritrovi notturni, dal “Capolinea” ai locali “burleschi”, dove uomini vestiti da donna cantavano, alle discoteche per sole donne, alla figura di un notissimo “play boy” e del suo locale per i giovani che determinò la fine del ballo lento. “Quanto si spendeva in una serata al night?”. “Beh una bottiglia di ‘champagne’ millesimato costava 300mila lire; se si aggiungeva altro si poteva arrivare al milione”. Gli arabi preferivano le bionde e richiedevano l’esclusiva del locale per una sera, sborsando 15 milioni. Le “entraineuse” guadagnavano 60 mila per sera e 120 quelle che facevano anche lo spogliarello. In più con intrattenimenti a tappo, cioè la quantità di bottiglie che riuscivano a far smaltire all’avventore, intascavano il 10 per cento su ogni consumazione. Le notizie che l’autore sforna sono inesauribili: Negli Sessanta suonavano le orchestre note, poi piano piano hanno mantenuto gli spogliarelli e le vedette che chiudevano il numero. La “Porta d’Oro” aveva il palco più grande, mentre l’Astoria era il più raffinato con velluti rossi, quadri di autori rispettabili alle pareti, lampadari in cristallo di Boemia, 30 ragazze di sala. Il teatro Smeraldo aveva 1500 posti. CertI malavitosi entravano, consumavano, non pagavano e non gli veniva neppure presentato il conto. C’è stato anche il periodo delle donne dell’Est. Focarete guardava gli spettacoli stando dietro le quinte e prendeva appunti per la recensione da proporre ai lettori affezionati. Negli Stati Uniti lo avrebbero chiamato “nightman”. Le luci dei locali notturni a poco a poco si spensero, per colpa della televisione, della malandra, degli affitti alle stelle. Nel 2010 ha conseguito il Premio Vergani. Un cronista come lui lo meritava, il premio intitolato al grande Guido, che ha raccontato Milano con il cuore




mercoledì 14 giugno 2023

Inebrianti le gite in Lambretta

DA GIOVANI INNAMORATI

INTORNO AI LAGHI E OLTRE

 

Mariuccia e Angelo durante una sosta

Angelo Frigerio e la moglie hanno

conosciuto il Paese grazie a questo

mezzo, leggero, dalla bella linea, di

basso costo e di poco consumo. Ai

raduni del Lambretta Club

lombardo spensieratezza, amicizia 

e allegria.


Franco Presicci

Aveva sedici anni quando si mise per la prima volta in sella a un Lambretta 125. Non era nuova ma neanche malandata. Non l’aveva acquistata per provare l’ebrezza della velocità o per darsi le arie, ma per raggiungere il posto di lavoro e fare una gita la domenica e nelle altre feste comandate, mete preferire i laghi della Lombardia. Ci girava attorno, ogni tanto si fermava e osservava tutto ciò che c’era da vedere e da ammirare, cioè le bellezze della nostra terra, che fanno invidia al mondo. Perché proprio la Lambretta e non, per esempio, la Vespa? “Era una questione di linea: la Vespa ha le ‘chappe’ grosse, come si dice in gergo, mentre la Lambretta è più longilinea. E poi, per la verità, ero sempre in gara con mio padre: lui vespista, io lambrettista; lui milanista, io juventino: un conflitto bonario, affettuoso, divertente.

Angelo Frigerio

Angelo Frigerio, 76 anni, professione spedizioniere, ama andare in Lambretta da un punto all’altro del Paese, con gli amici, tutti amanti di questo mezzo di locomozione. Lui ci è andato sempre con la fidanzata, Mariuccia, oggi sua moglie. In seguito gli si sono accodati il figlio Alessandro, al quale ha tramesso questa eredità, la figlia Monica (che tra l’altro ha vinto una coppa), il nipote, Andrea: papà e mamma su una moto; gli altri alle spalle di qualche lambrettista solitario, visto che la solidarietà è una delle caratteristiche di quel mondo. “Ne abbiamo fatti, di chilometri, e ne facciamo ancora”, dice Mariuccia, che era già lambrettista per suo conto. Mariuccia è una signora dolce, riflessiva, di poche parole e brava nell’ascoltare. Ogni tanto interviene, con discrezione, nella conversazione per aggiungere o precisare: “Quando eravamo in ritardo, mia madre stava in ansia e quando ci sentiva bussare tirava un sospiro di sollievo: ‘Finalmente sono arrivati’”. Ha in mano il cellulare e se non ha un ricordo preciso da offrire, lo interpella. In questa intervista ho dunque due interlocutori, con esperienze comuni. E entrambi raccontano piacevolmente un ambiente di raduni affollati e spensierati, interessanti anche gastronomicamente.

Lambrette a Bormio

Già, in queste occasioni non si limitano ad inebriarsi in Lambretta come Gregory Peck e Audrey Hepburn nel film del ’53 “Vacanze Romane” (o quella era una Vespa?); ma all’ora giusta si siedono a tavola a gustare i cibi locali, glorificando ciascuno il proprio “gioiello”, che è sempre migliore e più efficace di quello dell’altro, ma in allegria, felici di stare insieme, perché un altro aspetto positivo dei raduni è quello di rinsaldare amicizie e di crearne di nuove. E’ simpatico, Angelo, e anche spiritoso. Sorride e parla, riesuma momenti gioiosi, ripesca sul telefonino qualche foto con il pensiero alle due Vespe e alle dieci Lambrette che ha in garage a Milano come una piccola collezione; e le tiene bene in ordine, come si conviene a un buon collezionista di ogni genere, che ha anche il dovere di avere cura dei suoi bisciù.

Innamorati in lambretta

“Raggiunti i 18 anni, ho acquistato un 150 e mi sono iscritto al Club Lambretta lombardo, partecipando ai raduni, sempre con mia moglie dietro. A Natale il gruppo organizza il pranzo sociale, principe il panettone, e noi ci siamo. A maggio qualche giretto poco impegnativo; e, quando il calendario prevede un raduno regionale o nazionale o internazionale, noi ci siamo”. Ancora: “Il primo raduno nazionale a cui abbiamo preso parte è stato quello di Assisi, che ha registrato la presenza di 800 Lambrette. Nella città di San Francesco siamo entrati estasiati nelle basiliche, che ristorano lo spirito. Questi incontri hanno anche scopi culturali, avendo in programma visite a musei, paesaggi, monumenti, cantine sociali e ad altri luoghi che arricchiscono le nostre conoscenze. Sono ‘fughe’ appaganti, dove ci scambiamo consigli, esprimiamo sensazioni, esponiamo i problemi dello “scooter’, se ne ha, e via dicendo. Poi cominciamo a frequentarci sempre più spesso, e a poco a poco fiorisce l’amicizia”.

Angela e Mariuccia Frigerio
Le iniziative dunque hanno anche questo vantaggio. Le sorprese non mancano. “Ad Assisi due fidanzati americani ne covavano una bellissima. Quando la rivelarono andando all’altare per dirsi “Sì, ti voglio”, commossero tutti; e così quando si rimisero in Lambretta, lei ancora in abito da sposa, festa grande, felicità per tutti. Lo stesso evento a Villasanta di Monza, dove dopo il rito in chiesa, i colombi ripartirono in Lambretta, seguiti per un tratto da un corteo di motorizzati. “In un raduno può succedere di tutto, anche che la moto si metta a rantolare. Allora due o tre si fermano per ridarle ossigeno, mentre gli altri si avviano. Sempre in Lambretta ho partecipato al raduno ‘Quattro passi’, portandomi dietro mio nipote Andrea, che oggi ha 19 anni. Punto di ritrovo l’Aprica, di qui al passo dello Stelvio, quindi al passo di Gavia. Andrea ha preso da me la stessa passione e con me veniva di solito ai raduni. Adesso siamo in ansiosa attesa di quello di fine giugno, a Bergamo (e dintorni), ricordata da Guido Piovene come “una delle grandi patrie delle maschere popolari”, Gioppino compreso.
 
Frigerio a Monza

“In occasione del 70° anniversario della Lambretta, abbiamo percorso il circuito dell’autodromo di Monza”, la città che nel Duomo, alla sinistra del presbiterio, custodisce la Corona Ferrea”. Hanno partecipato anche al raduno nazionale in Sardegna, a Cala Gonone, frazione del comune di Dorgali, in provincia di Nuoro: da Milano a Genova, poi in nave ad Olbia e in Lambretta al punto di ritrovo, dove hanno visitato le spettacolari grotte del Bue Marino, in cui trovava rifugio la foca monaca, e hanno mangiato “il maiale sardo alla brace (tenuto in piedi durante la cottura, appeso ad un’asta)”. Insomma, itinerari di grande interesse, indimenticabili, esaltanti. Con il “lambrettismo” hanno contemplato tanti centri meravigliosi del nostro Paese, come Matera”. E nella capitale della cultura 2012 hanno avuto un sacco di cose da vedere: i Sassi, patrimonio dell’Unesco; il Museo della civiltà contadina; le chiese rupestri; monumenti rilevanti. Si entra in questa città straordinaria, con luoghi sacri stupendi, una cattedrale romanica, un panorama indescrivibile, la si attraversa con occhio attento, si sente palpitare il cuore e si capisce di trovarsi in uno dei posti più affascinanti, più splendidi del mondo. Matera ti colpisce, ti emoziona e ti resta dentro, suscitando la voglia di tornarci per vedere altro”. 

Con la lambretta tra i monti
Mariuccia e Angelo sono soddisfatti dei loro viaggi su questa due ruote, costruita là dove scorre il fiume Lambro, da un uomo che nel ’31 aveva cominciato con la produzione di ponteggi in acciaio. La Lambretta, antagonista della Vespa, ha fatto storia. Ancora oggi quando sulle strade compare una di queste glorie fa capolino la nostalgia che porta con sé mille ricordi. Angelo mi mostra il marchio del Club Lombardia attaccato alla maglietta, a sinistra; e me lo lascia fotografare, mentre continua a narrare. I ricordi fluiscono come l’acqua di un ruscello o come quella di un fiume che ti passa davanti placido, a suon di musica. “Da fidanzati Mariuccia e io abbiamo fatto, come detto, il giro del lago di Como e al ritorno a Limbiate si è forata una ruota. Abbiamo nascosto la moto dietro un casolare e siamo tornati a casa come maratoneti” alla Stramilano. Durante un temporale ci siamo inzuppati, ma senza spaventarci”: la pioggia è una benedizione.

Orgoglio per la lambretta
”A Montecatini Terme ci eravamo portati i figli e il nipote, sistemato dietro di me, mentre Monica e Alessandro con altri lambrettisti. Quello che ospitava Monica, ripartendo dopo una sosta, se n’è dimenticato lasciandola a piedi. Quando se n’e accorto, è tornato indietro con un muso lungo fino ai piedi”. Ai raduni sono mescolati diversi club, per consentire (ripeto perché la cosa mi piace) la nascita di familiarità. “Le nostre sono aggregazioni appassionanti. Chi ha inventato la lambretta, Ferdinando Innocenti, nel ’48, non ha messo a disposizione della gente soltanto un mezzo veloce di trasporto di basso costo e consumo, ma anche uno strumento che dà la possibilità di rinfrancarsi, di raggiungere agevolmente strade e sentieri, pianure e colline, borghi e zone isolate prima ignorati”. La Lambretta – così battezzata dal nome del quartiere milanese, Lambrate, in cui veniva realizzata - come la Vespa, lanciata l’anno prima dalla Piaggio, è libertà, gioia dell’incontro, vita fianco a fianco l’uno con l’altro, aria, sole, vento da bere, mete da conquistare, angoli da scoprire, paesaggi da godere. Anche per questo la Lambretta ha avuto successo. E che successo. Nel ‘48 l’azienda metteva in circolazione 50 lambrette all’anno; nel ’58, 500 al giorno, spedendole anche in oltre 160 Paesi (fino al ’71 sono stati venduti quattro milioni di esemplari). Una grande intuizione. Nel dopoguerra le persone avevano bisogno di rinascere, di dimenticare per quanto possibile i disastri e i lutti della guerra, le privazioni, il coprifuoco, la borsa nera, il pane razionato, la paura dei bombardamenti, i rifugi e avere un mezzo, tra l’altro dalla bella linea, inebriava. Senza contare che la Lambretta e la Vespa, l’una contro l’altra armata, sarebbero capaci di snellire il traffico delle auto, ormai diventato insopportabile, se il loro numero non si fosse assottigliato già tanti anni fa, rendendole quasi una rarità.










mercoledì 7 giugno 2023

La grandezza di Moira Orfei

LA RACCONTA SANDRO RAVAGNANI

PER 40 ANNI SUO ADDETTO STAMPA

Moira legge la lettera di Tortora

Donna autorevole, generosa, cortese,

puntuale, nel suo circo pretendeva

ordine e disciplina. Scopriva e lanciava

talenti, amava i gelati e il cinema,

bella, elegante, “la Moira degli

elefanti” era una regina della pista.

 

Franco Presicci

I circhi che sono venuti a Milano li ho visti tutti: gli Orfei, i Togni, il circo americano… Al Campo Giuriati, al Giambellino, alle Varesine… Lavoravo allo storico quotidiano “L’Italia” e mi occupavo di spettacoli. Andavo anche in giro per il Paese: Bergamo, San Miniato, Genova, Miradolo Terme, Monticello d’Ongina… Una sera piombai nei pressi di Pavia, dove i titolari di un piccolo circo familiare erano disperati: la tigre aveva azzannato il compagno e bisognava eliminarla. Occorreva spegnere per sempre le luci e afflosciare il tendone. Già gli incassi piangevano. Bussai alla porta della roulotte dei proprietari e raccolsi il loro dolore. Dolore che fu anche il mio, appassionato di piste e chapiteaux. Ebbi un’altra brutta esperienza quando un temporale abbattè il tendone del circo Togni e un gruppo di artisti improvvisarono una “performance” all’aria aperta per rimetterlo in piedi. C’erano il maestro Giovanni D’Anzi, Febo Conti, Roberto Brivio, Liliana Feldman, Evelina Sironi e qualche altro. Correvano gli anni Sessanta.

Moira intervistata

Durante le mie frequentazioni di domatori e trapezisti conobbi Orlando Orfei, alto, solido, le gambe con i segni dei morsi delle jene, la testa leonina, intervistai Liana Orfei e scambiai due parole con Moira, che mi sembrò una signora autoritaria, ma cortese, precisa. Mi sono spesso fatto domande sulla vita quotidiana del circo. La mia innata curiosità, senza la quale non avrei potuto esercitare il mestiere di cronista, mi spingeva ad indagare, ma non riuscivo a individuare un buco, una breccia in cui infilarmi per poter “fotografare” i gesti, gli impegni, le abitudini di un “cow boy”, di un funambolo, di un acrobata, di un “clown”. E questa curiosità mi ha accompagnato per anni. Amavo e amo tuttora il circo, e di questo “villaggio” rutilante volevo conoscere non soltanto quello che vedono tutti dopo aver pagato il biglietto.

Ravagnani - Premio Telegatto

Finalmente, grazie ad un amico ispettore di polizia, investigatore dal fiuto potente, Alberto Rocco Maria Sala, sono entrato in contatto con Sebastiano Sandro Ravagnani, 67 anni, che per 40 è stato capo ufficio stampa del circo di Moira Orfei. E’ stato per me come vincere un terno al lotto (si fa per dire, naturalmente). Non è stato necessario stuzzicarlo. Quando Ravagnani parla di circo corre come una locomotiva a vapore su binari degni dell’uso e a volte bisogna indossare il cappello rosso del capostazione per regolare il ritmo: la penna ha le sue esigenze. E si prova imbarazzo nel farlo: i suoi ricordi cadono come le ciliege. Faccio poche domande, la narrazione la gestisce lui senza deragliare: è una sorgente cristallina, un serbatoio di ricordi, uno scrigno, un cassettone della nonna custodito in solaio, pieno di oggetti cari e intoccabili: una reliquia. Aprite le orecchie. “Nel circo di Moira Orfei ho cominciato a la lavorare come capo ufficio stampa. Era appena tornata dall’Iran, dove era rimasta bloccata dalla guerra, per circa un anno. Il debutto avvenne a Napoli, dove era approdata con i resti del circo grazie all’armatore Achille Lauro, che aveva mandato una nave per riprenderla. Io per la prima volta entravo a far parte dell’ambiente, dove misero a diposizione una roulotte per me e mia moglie.

Il clown e Ravagnani

Ogni mattina organizzavo la rassegna stampa, rispondevo ai quesiti dei colleghi giornalisti e provvedevo alle ospitate di Moira in televisione. Un giorno, essendo io anche conduttore di programmi per ragazzi, mi presero come presentatore di uno spettacolo con Rita Pavone al circo, con la regia di Romolo Siena. Dopo questo lavoro, in attesa della mia prima figlia, Emma, nata nella roulotte, dopo tanti spettacoli anche all’estero, decisi di mettere su due uffici, uno a Napoli e uno a Milano, tenendo i contatti tra il circo e la stampa”. Nell’86 con Silvio Berlusconi Ravagnani ideò il programma su Canale 5 “Sabato al circo”, (durato 5 anni), con il quale vinse il Telegatto, come migliore spettacolo d’intrattenimento televisivo”. “Torniamo a Moira”. “Già.

Moira Orfei
Moira e Ravagnani
La sua giornata nel circo cominciava alle 12.30 con la colazione, quindi ancora in vestaglia si truccava da sola per circa due ore e verso le 17 rilasciava le interviste, quindi partecipava allo show pomeridiano. A volte andava a cena fuori o in una gelateria e poi al cinema, preferendo le commedie all’italiana e i gialli. Durante il film si addormentava, ma negava di essersi fatta rapire da Morfeo, pur chiedendomi come fosse finita la storia”. Ravagnani ha aperto le chiuse del canale e l’acqua scorre veloce e senza salti.
E’ cortese, colto, disponibile, informatissimo. Nel circo si è dato tanto da fare. “Un giorno mi chiamarono da Uno Mattina, il programma condotto da Piero Badaloni e mi comunicarono che, avendo riservato uno spazio per Moira, la volevano in trasmissione. Ma era impossibile svegliare la signora alle 5 del mattino. Così partimmo da Firenze a mezzanotte e aspettammo poi in auto fino alle 5 e mezzo per la diretta delle 6. Di solito Moira dormiva dalle 5 del mattino alle 11. Amava guardare la Tv di notte e quando scoprì che si potevano fare acquisti si divertiva a chiamare per comprare di tutto, chiedendosi il giorno dopo chi le avesse spedito il pacco. Quando andava al cinema nel tratto tra il parcheggio e l’ingresso del locale dava dei soldi a tutti i poveri che incontrava”. Era molto generosa. Ascolto come quando da ragazzo m’incollavo alla radio per seguire le commedie o “la Caravella” con Coline Mariette, due attori impagabili nell’uso del dialetto, su Radio Bari.
 
Ravagnani con Nando Orfei e Pertini al circo
La parola ancora a Ravagnani: “Nel ’71, studiando al liceo artistico, con i docenti organizzai una mostra di pittura estemporanea con tema il circo di Moira e portai sotto il tendone centinaia di pittori, evento che stupì la padrona, al punto che diventammo amici”. Pause? Nessuna. Avanti c’è posto. Mi sento un po’ come uno scrivano napoletano appostato ai Quartieri Spagnoli con il suo banco sgangherato, per raccogliere i pensieri del richiedente. Ma la cosa non mi dispiace, anzi: l’importante è riempire di appunti i fogli e arricchirmi. Dove trovo un’altra occasione? Sebastiano - a questo punto ci diamo del tu, del resto siamo colleghi - ne ha di cose da dire, e le dice senza enfasi. Torna indietro: “Quando ero bambino la mamma mi portava al circo di Orlando Orfei, dove ero attirato dalle luci, dalle musiche, dai lustrini, oltre che dagli abiti e dalle bizzarrie dei ‘clown’”. Ricomincia: “Grazie alla mostra, conobbi anche il marito di Moira, Walter Nones, uno dei più grandi impresari italiani, che portò in Italia ‘Holiday on ice’, rivista americana su ghiaccio”.

Moira con gli artisti del circo di Mosca dal Papa

“Parliamo degli artisti?”. “Tutti di grande valore. Il circo di Moira Orfei – che, nata come trapezista, continuò con il numero dei colombi, poi con quello degli elefanti, proseguendo con le foche e in un gala di Natale con le tigri -- è stato il primo a vincere il ‘Clown d’oro’ a Montecarlo, consegnatole dal principe Ranieri”. “Lei com’era?” “Molto severa: voleva che tutto fosse sempre in ordine. Nel circo erano impegnate 300 persone e c’era anche una carovana adibita a scuola e la falegnameria, l’officina meccanica per la riparazione dei mezzi del circo, con dieci operai, il ristorante con ‘chef e camerieri e tutto l’occorrente per la ristorazione, la lavanderia con annessa tintoria, la sartoria, dove si confezionavano e riparavano i costumi, l’ufficio amministrativo, l’ufficio acquisti, la chiesetta con due suore e le stalle con stallieri, addomesticatori, il veterinario. 

Moira e la tigre
Il circo di Moira aveva uno dei parchi zoologici itineranti più rilevanti d’Europa. Ah, Moira aveva tra l’altro la dote della puntualità. Mai arrivata in ritardo ad un appuntamento”. “Le prove dove si svolgevano?” “Gli artisti per quest’attività occupavano spazi dentro e fuori il tendone. Per i numeri più difficili c’era un quartiere generale a San Donà di Piave”. Insomma il circo di Moira era davvero un villaggio. “Vita in comune?”. “Sì, i componenti spesso si riunivano per fare grigliate, suonare e cantare, celebrando compleanni, onomastici, matrimoni e altre ricorrenze. Spesso sulla pista, nella gabbia con gli animali, che loro considerano compagni di vita e di lavoro”. Moira è nata il 21 dicembre del ’31 a Codroipo, ma aveva vissuto la gioventù a Bologna, per cui si spacciava per felsinea. 

Moira e i colombi
Tenne uno spettacolo nel cortile del carcere di Bergamo per Enzo Tortora, grande giornalista, grande conduttore e uomo coltissimo e integerrimo, sommerso da accuse infami e ingiuste. Enzo non fu tra il pubblico e si scusò con Moira: era troppo avvilito. Il presentatore amava il circo e varie volte aveva invitato Moira a Portobello e in altri suoi programmi. Io lo conobbi a Campione d’Italia in occasione del Festival del Clown dedicato a Grock, organizzato da Pino Correnti, allora direttore del Teatro Manzoni. Si offrì di farmi da interprete nell’intervista a Charlie River, un clown noto e apprezzato nel mondo, e mi sentii onorato. Oltre ai trapezisti, alle belle ragazze che stavano in piedi in equilibrio sulla groppa del cavallo in corsa, ai virtuosismi aerei dei trapezisti, grandi erano i “clown” che si esibivano sulla pista del circo di Moira: i Rossi, augusti musicali che suonavano la tromba, il sax, i palloni delle fiere paesane, la sega. “Grande la famiglia Sali, il cui fondatore era soprannominato Patata. Il marito di Moira preferiva i ’clown’ russi. Tra i giocolieri ricordo Albertino Sforzi e i Rastelli, che erano anche loro augusti musicali. Moira, bravissima nello scoprire talenti, lanciò anche David Larible, diventato il più grande “clown” del mondo, attore in film con Jerry Louis. Al funerale della grandissima circense, il 18 novembre del 2015 a San Donà di Piave, Sebastiano Ravagnani ha tenuto un discorso, rivelando che Moira nel corso degli anni, in gran segreto, aveva inviato denaro a missioni, università straniere, fondazioni, per consentire a giovani non abbienti di conseguire una laurea. La regina del circo aveva un cuore grande come il suo “chapiteau”. Moira per sempre, conclude Sandro.