Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 30 marzo 2022

Una sintesi della storia dell’Automobile Club

L’ ACI NACQUE A UN TAVOLO DEL SAVINI

IL FIORE ALL’OCCHIELLO DI MLANO

 

Il ristorante di Galleria

Ritratto di Gaetano Afeltra
Vittorio Emanuele accolse

Guido da Verona, Beniamino

Gigli, Mosè Bianchi,

Mascagni e tantissimi

altri vip.

Il giornalista Gaetano Afeltra,

che pur essendo nato ad 

Amalfì, adorò Milano, scrisse 

in pagine efficaci la storia del locale.

 

Franco Presicci

Milano - scrisse Gaetano Afeltra – è la più internazionale delle città italiane. “Cresce di giorno in giorno e si espande come lava, invasa da giapponesi, americani, argentini, gente di tute le parti del mondo. Uomini d’affari e semplici turisti. Tutti i programmi però hanno iscritto un pranzo o una cena al Savini, come una sorta di consacrazione. 

Il Savini 1

E’ il ristorante che straripa un po’ nella Galleria stessa, estate e inverno, secondo un certo gusto parigino…”. La visita nel capoluogo lombardo senza una fermata nel suo ristorante più famoso – ancora parole dell’esimio giornalista e scrittore amalfitano che contendeva il primato nella conoscenza della città a Guido Vergani. degno figlio di Orio, risulterebbe incompleta: sarebbe come saltare un pezzo della storia di Milano, perchè questo è il Savini, nato come Birreria Stocker, nel 1867, quasi contemporaneo della stessa Galleria Vittorio Emanuele - “Una Birreria di lusso – aggiunge Afeltra – “per la finezza e l’eleganza del servizio”, meta di incontri di cuore e di lavoro. Non solo. Ai tavoli del Savini si sono accomodati nomi famosissimi, tra cu Toscanini, la Callas, Charlie Chaplin, Totò, Lucio D’Ambra, Marco Praga, Gabriele d’Annunzio, Guido da Verona, gli artisti e il pubblico dopo lo spettacolo   alla Scala…

Il Savini 2

E la sera del giugno del 1903, tra i famosi divanetti in rosso cardinalizio e gli stupendi lampadari Bèlle Epoque, si riunirono 68 pionieri dell’auto, intenzionati a dar vita all’Automobile Club di Milano. Di cilindrate a quei tempi non se ne vedevano tante sulle strade della città: soltanto 194. Dicono gli appassionati dei numeri che i possessori erano persone con il portafoglio imbottito. Non poteva essere altrimenti, visto che il volante lo si poteva conquistare sborsando la somma di 10 mila lire, che un operaio guadagnava in 15 anni di lavoro. Tra le vetture in circolazione poche Fiat (nel 1900 soltanto 8) e più o meno lo stesso numero le Isotta Fraschini, casa produttrice sorta, per volontà si sei personaggi dell’alta società lombarda, appunto in quell’anno, in via Melzi d’Eril, intestata a un ciambellano di Maria Teresa d’Austria, statista ed esponente del Consiglio dei 60 decurioni di Milano, che in questa veste nel 1796 si presentò a Napoleone Bonaparte. Già a quell’epoca, nonostante le vie non fossero intasate come oggi, si avvertì l’esigenza di imporre un freno a chi mostrava di avere troppa fretta. 

Galleria Vittorio Emanuele
 
Così, nel 1897, venne dato ordine agli automobilisti di non superare i 12 chilometri all’ora, la velocità del trotto di un cavallo; e ai velocipedi quella delle carrozze, vietando il passaggio nella zona della cerchia dei navigli e di altre zone come Foro Bonaparte, i Bastioni di Porta Venezia, Porta Nuova. Quindici i chilometri imposti ai tranway. L’omnibus, automobile a vapore, primo veicolo popolare che, costruito dalla “Serpoller Italiana”, il 10 giugno del 1906, inaugurò la linea che dalla stazione andava all’Esposizione, aveva una velocità di 30 chilometri orari. Ben altra l’andatura delle leggendarie “600” e “500” uscite negli anni ’50: un sogno che lo stesso operaio poteva realizzare impegnando lo stipendio di un anno. Ma gli venivano in aiuto le cambiali; e se ne firmarono montagne, non soltanto per realizzare il sogno di possedere una vettura, ma anche per acquistare la radio con il grammofono e il salotto.

Il Savini 3
Con la diffusione dell’auto, i soci dell’Automobile Club di Milano si moltiplicarono arrivando negli anni ’80 ai 140 mila. Il sodalizio metteva a loro disposizione ogni assistenza legata all’uso del mezzo che aguzzava l’impegno di progettisti e costruttori. La “Prinetti & Stucchi” affidò a un diciottenne di talento, Ettore Bugatti, l’idea di una piccola vettura che venne presentata tra entusiastici consensi all’Esposizione Internazionale di Milano dell’allevamento e dello sport, svoltasi nel 1901 ai Giardini Pubblici, oggi dedicati a Indro Montanelli. E fece capolino la concorrenza: Edoardo Bianchi, già noto nel settore delle biciclette e per aver sperimentato la sua prima moto sui Bastioni di Porta Venezia presentò la sua moto a motore. A Milano erano cinque le fabbriche di automobili e altrettante le carrozzerie. La prima associazione milanese e la prima d’Italia fu nel 1897 il Club Automobilisti italiani festeggiato con una gita sociale Milano-Monza e la gara automobilistica Arona-Stresa-Arona.

Il Savini 4
Nel 1905 nacque l’Automobile Club s’Italia. La civiltà dell’auto cominciava a muovere passi da gigante, ispirando anche i poeti, come Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo, nei versi ricchi di metafore (“Veemente dio di una razza d’acciaio/ Automobile ebbrrra di spazio, che scalpiti e frrremi d’angoscia rodendo il morso con striduli denti che mostrano la macchina come un essere vivente potentissimo con sembianze divise e mostruose…”. Motori e poesia, motori e arte, persino motori nei fumetti. Motori e prosa. L’auto ispirò anche Massimo Bontempelli, nato nel 1878, deceduto nel 1960, che scrisse “522”, racconto di una giornata, pubblicato dalla casa editrice Arnoldo Mondadori). La “522” fu un’auto della Fiat che nei primi anni ’30 riscosse moltissimi consensi, e le pagine che la celebrano si leggono con piacere, anche se al momento dell’uscita ebbe anche qualche critica. In tempi a noi più vicini (nel 2007) scorrono in due splendidi volumi dello stesso Automobile Club di Milano: “Novant’anni con la città”, a cura di Paolo Montagna, che per anni fu un bravissimo e attento capo ufficio stampa del sodalizio di corso Venezia; e “Cento anni per l’automobile” di Raffaello Barbaresi. Pagine che fanno rivivere momenti esaltanti con la rievocazione di episodi significativi della storia dell’auto : aprile 1928 il via da Milano del raid di 1550 chilometri per Stolp, nel Baltico, iniziativa sorta per solennizzare la partenza della spedizione di Alberto Nobile al Polo Nord con il dirigibile “Italia”; nel 1929 raid Milano-Budapest... Le tante immagini che illustrano i volumi, belli, eleganti, accompagnano gli appassionati a compiere un affascinante itinerario all’indietro.

Il Savini 5

 Sfogliando questi volumi, si attraversa il 1903 con la circonvallazione percorsa dall’auto Tuminelli; corso Vittorio Emanuele nel 1923 con una fila di auto che tengono ancora la sinistra (l’obbligo della destra verrà imposto giugno dell’anno successivo). E la vita dell’Automobile Club, i soci che si quadruplicano nel 1967 e viene commissionato a Max Huber il manifesto commemorativo. Tutta questa gloriosa vicenda, fatta di talenti indiscutibili, di creatività e anche di poesia, fu tenuta dunque a battesimo in un locale noto in tutto il mondo: il Savini che negli anni – ancora parole di Gaetano Afeltra, dal ‘42 redattore, caporedattore e vicedirettore de “Il Corriere della Sera”, quindi direttore de “Il Giorno”, ha conservato gli antichi aspetti del lusso tipicamente ottocentesco”. Come alla “Società del Giardino”, non si poteva e non si può superare la soglia senza avere addosso la giacca e la cravatta (con molta gentilezza ti viene chiesto di attendere un attimo che un addetto provveda a integrare l’abito). Lo sapevano Guido da Verona, Mascagni, Gigli, Ruggeri, Mosè Bianchi, Bovio... e lo sanno i frequentatori dei giorni nostri, Il poeta e critico d’arte Raffaele Carrieri scrisse che entrò una sola volta al Savini, per incontrare Guido da Verona. “Ero un povero poeta del Sud (nato a Taranto) e volevo conoscere uno scrittore famoso”. Doveva essere dopo il 1930. Una sera al Savini andai con la “troupe” di “Antennatrè Lombardia” per una serata culturale all’esterno: all’epoca la redazione de “Il Giorno” curava il telegiornale della televisione di Legnano, che aveva personalità del livello morale, culturale e professionale del grande Enzo Tortora. In un paio di occasioni al Savini intervistai il presidente Sandro Pertini, arrivato a Milano in una visita privata. Un locale che è ancora oggi un fiore all’occhiello della città, un nome di alto prestigio, grazie a Virgilio Savini, originario della Valcuvia, che trasformò la Birreria Stocker nel ristorante Savini. Gaetano Afeltra, che aveva una memoria inossidabile, li ricordava tutti i vip che andavano al Savini per gustare i cibi del locale: erano grandi capitani d’industria, eccellenze del palcoscenico, della tavolozza, dell’arte, della letteratura e naturalmente dell’automobile.








mercoledì 23 marzo 2022

L’amore per la cronaca non muore

IL CRONISTA IN PENSIONE CHE CORREVA

ALLA NOTIZIA DI UN GRAVE EVENTO

 

Carnimeo, Presicci, Scarpis

Dopo aver trascorso la vita

professionale tra omicidi,

sequestri, rapine, l’impulso

di andare sul luogo di un

fatto criminale non è una

stranezza.

Chi ha davvero amato il

mestiere lo capisce.

 

Franco Presicci.

Premio"Miglior Cronista 1997" assegnato dal Gruppo Cronisti Lombardi

Molti cronisti, e tra questi inserite anche me, quando vanno in pensione fanno fatica a dimenticare la polvere respirata e il panino mandato giù di fretta durante la ricerca dei particolari di un misfatto: un omicidio, un sequestro di persona, una rapina che ha insanguinato una strada... Ogni volta che succede avrebbero voluto essere sul posto, con il fotografo appresso, pronti a riprendere tutto ciò che colpisce.

Filippo Ninni
Mi dicevano, anni fa, di un grande della categoria che quando captava una notizia dialogando con un suo vecchio “trombettiere”, correva sul posto, ascoltava, osservava, s’informava e poi tornava a casa a scrivere l’articolo, che non mandava in redazione, ma chiudeva nel cassetto della scrivania. Un vecchio del mestiere, ormai sul penultimo piolo della scala della vita (se n’è andò un mese dopo) arrivò davanti a un negozio incenerito dal fuoco e rivolse domande a raffica; e quando seppe il nome della persona divorata dalle fiamme, lo descrisse come un pittore estemporaneo una figura sulla tela. Era noto per il dono della memoria inossidabile e per la piacevolezza del racconto. La vita del cronista sa di avventura. Quando il mattino esce di casa non sa dove e come passerà le ore: scarpinando con l’orecchio teso, intervenendo con immediatezza su un episodio che fa sobbalzare la città e tentando di far aprire il rubinetto a una fonte mai prosciugata o facendo il cacciatore solitario ignorando se sulla sua pista passerà o no una lepre.
 
Antonio Pagnozzi con lo scrittore Renato Olivieri
La sera del 27 luglio del 1993, quando la mafia ridusse in polvere con una bomba il Pac, il Padiglione d’arte contemporanea di via Palestro, a Milano, facendo cinque morti, tra cui un cittadino marocchino che dormiva su una panchina dei Giardini di fronte, la notizia mi fu data dal questore in pensione Enzo Caracciolo, che avendo sentito da casa sua un boato, telefonò in questura, dove qualcuno nella confusione gli disse che una bomba era esplosa al “Giorno”: mi chiamò e si rassicurò, sapendomi indenne. Io piombai in via Palestro in in pochi minuti. La strada era transennata, piena di giornalisti e autorità, tra cui il procuratore Borrelli, i capi della Squadra Mobile Achille Serra e di Gabinetto della questura Paolo Scarpis, il comandante dei vigili del fuoco, il colonnello dei carabinieri Sabino Battista, mentre le fiamme a poco a poco si placavano grazie ai pompieri…. E si attendeva il capo della polizia Parisi, che sarebbe arrivato alle 5 del mattino. Un paio d’ore prima una voce urlò: “Scappate, scappate, lasciate la strada, via!”. I pochi rimasti sparirono in un baleno e io volai fino a piazza Cavour riparandomi nell’androne del Palazzo dell’Informazione, dove risiedeva “Il Giorno”. Milano ha avuto tanti sussulti. La sera del 18 novembre dell’81 in via delle Rose, al Lorenteggio, raffiche di mitra colpirono tre persone che stavano entrando in un bar e un benzinaio. Erano tre esponenti della malavita che facevano affari con l’eroina. Ma non fu la droga la causa del massacro, bensì una rapina che i tre ed altri avevano fatto nella bisca di un “boss”, che diventerà collaboratore di giustizia, confessando i suoi peccati ad Achille Serra e al compianto sostituto procuratore della Repubblica Francesco Di Maggio. Elencò una cinquantina di omicidi, con nomi e cognomi, circostanze, ruoli nell’organizzazione degli autori, detti “indiani”, includendo anche quelli commessi da lui stesso.
 
Francesco Colucci

Le sue ammissioni consentirono agli investigatori di rastrellare tutta la banda e finì l’era di questo clan con le mani nella cocaina e nelle bische clandestine di Milano e dintorni. Il prologo dell’operazione era stato l’arresto di due suoi luogotenenti a Misano di Rimini, grazie alla strategia del vicequestore Francesco Colucci. A nulla servì ai due spacciarsi per commercianti in vacanza. Colucci da giorni aveva saputo della loro presenza in quella località di villeggiatura e li faceva seguire passo dopo passo, immaginando che li avrebbe raggiunti il capo. Che sarà invece acciuffato a Milano qualche tempo dopo la strage del Lorenteggio, di cui era stato, secondo le indagini, il mandante. Gli anni 80 soprattutto furono quelli che fecero ballare i cronisti di nera. Quasi ogni giorno e ogni sera un omicidio, a volte persino tre, da piazzale Susa a piazza Napoli, dove venne ucciso un presunto uomo di mafia appena uscito da San Vittore. Nel gennaio dell’80 in piazzale Cuoco si affrontarono a colpi di mitra due pregiudicati e per un pelo non venne ferita una ragazza che passava per caso dal teatro della furibonda sparatoria. Uno fu acciuffato subito e portato al policlinico per una ferita a un gluteo; poi toccò a un altro, grosso calibro della mala. Tentai di parlare nel pronto soccorso con quello rimasto ferito, ma mi disse che non poteva rispondere, avendo un forte dolore nella zona interessata. Ho conosciuto parecchi malavitosi. Uno che era appena uscito da San Vittore grazie ad un permesso previsto dalla legge Gozzini, pur essendo un duro, al citofono mi rispose con molta cortesia che era meglio lasciar perdere. In una delle mie visite al carcere di piazza Filangieri ne conobbi altri, compreso uno notissimo per peccati di truffa a livello internazionale che in cella scolpiva e si prometteva di allestire una mostra. Mi domandò se in quell’occasione avrebbe potuto avere il piacere della mia presenza; e quando arrivò il momento mi fece telefonare dalla compagna e io mantenni la promessa. Aveva frequentato l’Accademia di Breva e come scultore aveva ottime qualità. Ho incontrato più volte anche Angela Corradi, la suora laica che era aveva fatto parte di una combriccola molto agguerrita e notissima.

Il maresciallo Oscuri
Un giorno mentre usciva di casa con la pistola, sentì una voce: “Dove vai con quel cannone?”. “Era il Signore che mi parlava” e incontrò la fede. Ci demmo appuntamento un pomeriggio per un’intervista. Andai sotto casa sua, nella periferia della città, e da lì ci recammo in un bar pieno di gente con la faccia dura e accigliata. Ci sedemmo a un tavolo in fondo e conversammo. Angela era diventata un’altra persona e mi regalò una medaglietta della Madonna che ancora conservo. Non mi parlò dei suoi compagni che stavano in carcere, ma del proprio percorso di fede, e mi raccomandò di essere benevolo quando scrivevo dei suoi “fratelli” che stavano in cella. Sandra Lena, ispettora della sezione Omicidi della questura, nell’aprile dell’85, da me intervistata sul suo lavoro, mi riferì di tanti personaggi passati dal suo ufficio, tra cui un uomo che le diceva: “Avete il dovere di mandarmi a San Vittore, ho accoltellato la mia donna. Ero ubriaco, forse l’ho uccisa”. La poliziotta, che aveva la scrivania sotto la finestra, alzò gli occhi, guardò l’uomo, che somigliava straordinariamente a Peter Ustinov e lo fece accomodare. “Mi dica, dove è successo”. E Ustinov precisò. L’ispettora s’infilò il cappotto e con due uomini andò all’indirizzo indicato. Ma non trovò il cadavere. Il delitto era un’invenzione. Ma questi particolari restano fra le mura dei commissariati e della questura, non turbano l’opinione pubblica. A differenza della rapina del ’76 ad una banca di piazzale Insubria, dove due individui sequestrarono un bel po’ di clienti, oltre al cassiere e agli altri impiegati, tenendo con il fiato sospeso per una decina di ore parenti, amici e conoscenti. Tanti ricordano ancora la strage di via Schievano nel gennaio dell’80, dove i terroristi uccisero a tradimento tre agenti del commissariato Ticinese, Tatulli, Cestari e Santoro, in uno dei loro giri per la protezione delle scuole. Quella mattina vidi il vicequestore Antonio Pagnozzi (poi diventato questore e prefetto), allora capo della Mobile, con le lacrime agli occhi. Io, distrutto, me ne tornai a casa e disertai il gruppo dei colleghi che si occuparono della tragedia.
Ispettore capo Armando Sales
Arnaldo Giuliani e Vito Plantone
Con il vicequestore Gaetano Antonacci e l’ispettore Armando Sales ero andato a casa di Cestari, reduce da un infarto, e mi commosse il figlio undicenne, che tracciava segni sul vetro appannato della finestra. Dopo anni cercai uno dei due autori della rapina di piazza Insubria, perchè la regista della trasmissione televisiva “Fuori Orario” su Raitrè, a cui partecipavo, mi aveva chiesto se avessi la possibilità di fare due chiacchiere in tivù con un esponente della malandra. Ma la portinaia dello stabile in cui abitava la persona che avevo scelto mi indicò un bar vicino, dove avrei potuto trovarla. Rifiutò, con gentilezza. “Ormai sono fuori”, mi disse. Rimasi sbalordito quando al giornale mi si presentò un famoso bandito del dopoguerra, indicato con un soprannome derivante da un suo difetto fisico. Mi spiegò il motivo di quella sua visita e il mio stupore lievitò: desiderava essere intervistato da me sulla sua carriera criminale. Quando al paese dove si era trasferito raccontava le sue passare imprese non gli credevano. Dopo l’intervista nessuno avrebbe avuto più dubbi. Si fece anche fotografare. Dopo qualche tempo lo vidi al “Maurizio Costanzo show”. Quante esperienze faceva un cronista di nera, se aveva voglia di sacrificare al lavoro anche il sonno. Poi anche per me è suonata la campanella della pensione. Per la verità i primi rintocchi suonarono due anni prima, ma una corda mi teneva legato al mestiere e rimasi con l’assenso del giornale. Oggi dopo tanti anni non avverto più l’impulso di correre dietro a una notizia. Mi restano i ricordi delle notti insonni in attesa dell’esito di un interrogatorio; e degli investigatori che mi hanno dato la loro amicizia: Il questore Vito Plantone, il maresciallo Ferdinando Oscuri, l’ispettore capo Armando Sales, i prefetti Mario Jovine e Francesco Colucci, Antonio Fariello, Marcello Carnimeo, Tria, Lucchese, Sciaraffia, il capo dell’Interpol Portaccio…, il colonnello dei carabinieri (diventato generale) Sabino Battista, il generale della Guardia di Finanza Lorenzo Reale (mi regalò le sue insegne di colonnello), e tanti altri. Tra i miei ricordi, anche il capo dell’Fbi di allora William Webster, che non era un amico, ma mi rilasciò un’intervista esclusiva nel ’85 in occasione del Convegno mondiale sulle organizzazioni criminali allestito dall’Onu ad Assiago, Milano.











mercoledì 16 marzo 2022

Il giorno della morte di Montale

LA GINA, LA GOVERNANTE DEL POETA

SE NE STAVA APPARTATA PIANGENDO

 

Nella sala in cui giaceva il

corpo del Premio Nobel ’75

per la letteratura non fece

entrare i fotografi, perché era

per lei irriguardoso scattare

foto in quel momento. 

Ai funerali erano presenti

anche Giovanni Spadolini e

Sandro Pertini

 

Franco Presicci

La ricordo, la Gina, la governante di Eugenio Montale. Quando telefonavo al Premio Nobel per la letteratura ’75, rispondeva lei, con una voce dolce e rassicurante, e passava la cornetta. Il Poeta rispondeva pacatamente alle domande senza mai dare l’impressione di essere stato disturbato.

Casa Montale
Io non sapevo mai come chiamarlo; né mi veniva in mente di dargli del tu, essendo anche lui giornalista, e tra noi il tu è ricorrente, anche se l’interlocutore è sulla plancia, fatta eccezione per Giovanni Spadolini e Gaetano Afeltra. Chiamai Montale più volte, per sentire il suo parere su grandi avvenimenti. E mi limitavo a dire buongiorno, accompagnandolo con il mio cognome. Ma di Montale, oltre a leggere le sue opere, mi capitava di parlare spesso con Gigi Gherardi, che amava dipingere pretini e prelati con la cotta rossa: pretini un po’ bizzarri, che saltavano sui tavoli, sbucavano sghignazzando dai confessionali, ballavano, bevevano. Gherardi ci portava anche la nipotina, alla quale aveva letto qualche brano della biografia del Poeta. “Da grande l’aiuterò a leggere le opere”. Montale era il suo mito. E non solo il suo.
 
Giuseppefranco Bandiera

L’ultima volta che feci squillare il te

lefono del Premio Nobel fu quando ucì il discusso film su Garibaldi. In quell’occasione chiamai anche Pillitteri, cognato di Craxi, Carlo Tognoli, con i quali ero in confidenza; Raffaele Carrieri, poeta e critico d’arte tarantino, che abitava in via Borgonuovo, Giorgio Bocca, Giuseppe Francobandiera, operatore culturale, scrittore, storiografo, direttore del centro culturale Italsider di Taranto e autore di interessanti volumi e di libri di racconti. Per la cronaca, a suo none è stato dedicato un Premio anche perché “attraverso le attività del Circolo Italsider ha dato la possibilità alla cultura ‘alta’, nazionale e internazionale, di affacciarsi sulle sponde dei Due Mari” (recita così un comunicato-stampa). Ma dicevo della Gina. La conobbi personalmente la mattina del13 settembre dell’81. Piangeva sommessamente in una saletta della clinica San Pio X davanti al corpo di Montale. Se ne stava sola, adagiata su una seggiola, il capo chino, le mani giunte sul grembo. Ogni tanto guardava il Poeta e mormorava parole impercettibili. Pregava o bisbigliava momenti trascorsi accanto a lui a voce bassa, con discrezione, con passi felpati, per non distrarlo. Indugiai ad avvicinami a lei, temendo d’interrompere il suo soliloquio. Poi mi decisi, le poggiai una mano sulla spalla, le feci le condoglianze e le dissi chi ero.

Al terzo piano abitava Montale

Si mostrò sollevata, nel vedermi, dicendo che ogni volta che telefonavo Montale rispondeva e ascoltava con piacere. Poi aggiunse: “Me lo aveva lasciato in eredità la moglie”. E per 38 anni gli era stato vicino in via Bigli, al terzo piano, tenendo sempre in ordine la casa, filtrando le telefonate che arrivavano, raccomandando a chi chiamava per la prima volta di non usare titoli come maestro o senatore. Se n’è andato un mese prima di compiere 85 anni”. Dolce, fedele, gentile, la Gina. Con Lui se nera andato un padre, un amico. “I miei fiori non ci sono ancora – disse osservando una sansevieria affiancata da rose tea e da bocche di lupo e da una massa di rose rosse poco distanti – Credo di avergli dato qualcosa di più che dei semplici fiori … Mi è morto tra le braccia. Come la moglie. Ora è finita”. Donna amabile, la Gina. Poche parole, appena percettibili. Quasi inutile chiederle un ricordo degli ultimi momenti del Nobel. “Sono cose senza importanza per gli altri”. E di ricordi ne aveva tanti. Belli, brutti. Di vacanze, di viaggi, di lavoro, della sua presenza quotidiana al fianco di un personaggio così illustre, così importante, celebre. “Era un grande timido e qualcuno pensava che fosse superbo. La gente non capisce, non sa che cosa dire, sparge parole nel vuoto”. Perchè non lo conosceva, come lo conosceva Giulio Nascimbeni, del “Corriere della Sera”, il suo biografo, un suo caro amico. “Superbo, Montale?” - avrebbe detto Giulio, collega colto e disponibile - Un’assurdità”.

Piazza della Scala
La Gina parlava a tratti, mentre ogni tanto qualche lacrima rigava le sue gote. ”Era anche un giornalista, uno strano giornalista; ed era critico musicale del ‘Coorsera’”... Alle 11 cominciò il pellegrinaggio di amici, di colleghi non soltanto del quotidiano di via Solferino: Franco Di Bella, Nascimbeni, Gaetano Afeltra, Ugo Stille… I fotografi non erano ammessi. Arrivarono, ma non riuscirono a schivare Gina, abituata a fare da baluardo. Arrivò tanta gente, lettori delle sue poesie, delle sue critiche, ma rimasero oltre il cancello. Le presenze s’infoltirono a mano a mano che la notizia si diffondeva. Anche gente comune. Qualcuno si chiedeva: “Perché non i fotografi?”. E la Gina a me: “Mi sembra poco rispettoso far scattare immagini, adesso che se n’è andato per sempre… E anche parlare di lui, che io parli di lui”. Almeno lei non voleva farlo, anche se qualche varco lo apriva. “Non sarebbe piaciuto neppure, a Lui”. Un signore le domandò se si fosse provveduto a fare il calco del volto; e lei ripose: “Non lo so, chiedetelo ai nipoti. Io so che lui non avrebbe voluto”. E si ritirò in un angolo. La seguii: “In febbraio aveva avuto una brutta influenza. Aveva male a una gamba, ma in casa camminava, leggeva, vedeva la televisione, spesso mi faceva ascoltare le poesie appena terminate. Poi in agosto siamo venuti in questa clinica per alcuni esami. Ci è rimasto. Non si era ancora ripreso. Era sereno, non se l‘aspettava”. Io uscii, tenendomi lontano dai visitatori, diventati una siepe.
 
Cortile dello stabile di Montale
Piero Mandrillo
Sandro Pertini
 

Alle 13 le si avvicinò il sindaco Carlo Tognoli, poi la Gina se ne andò in via Bigli, dove aveva abitato “con il poeta più popolare dopo D’Annunzio”, commentò un professore di lettere al Liceo. (Per inciso in questa via, al numero 9 ebbe la sua sede provvisoria il Comitato Rivoluzionario delle Cinque Giornate). Nel cortile rivestito d‘edera si avvertirono i rintocchi delle campane della chiesa di San Francesco da Paola. Rintocchi che sembravano fossero per “quell’uomo straordinario e delizioso”, come lo definiva la Gina, cognome Tiossi, entrata in casa Monale nel ’44, tempi di guerra, di paura, di fame. Gina veniva da Cavriglia, provincia di Arezzo e chiamava Montale “signor Eusebio”. Lo rimproverava se aveva una macchia sul vestito, raccoglieva e sistemava i ritagli di giornali e si adoperava perché ogni cosa fosse al suo posto. Aveva una cortese autorità, e il Poeta disse di no a una “troupe” televisiva che voleva portarsi dietro cavi e fili, oltre alla telecamera. “Gina – spiegò – si licenzierebbe su due piedi di fronte a tanto scompiglio”. Raccontò anche questo, la Gina, con dolore. Ai funerali, partiti dal Comune il giorno dopo, presenti Giovanni Spadolini e Sandro Pertini, andava a capo chino. Io ripensai ad alcuni versi di Eugenio Montale: “Può darsi che sia ora/ di tirare i remi in barca per il noioso evento/ Ma perché fu sprecato tanto tempo/ quando era prevedibile il risultato?”. E Sanguineti: “Oggi con la morte di Montale si ha un po’ tutti l’impressione, credo, che sia morto l’ultimo dei poeti”. E Claudio Altarocca, che a quei tempi era un eminente, coltissimo e spiritoso, simpatico giornalista del “Giorno”, poi passato a “La Stampa”: “Ecco, una vita in punta di piedi, un modello di civiltà, di ironia, di affetto mitissimo e discreto”. Mi venivano in mente anche altri versi di Montale: “La rondine vi porta fili d’erba, non vuole che la vita passi. Rimarrà immortale”: versi di “Occasioni”. Non ho più visto né sentito la Gina. Non ho osato telefonarle dopo la scomparsa di Montale, ammesso che fosse rimasta nella casa di via Bigli, una vietta tranquilla, che svirgola da via Manzoni, senza portarsi dietro i rumori delle auto, dei tram, anche se vi arrivano attenuati. Nell’82 vi feci una capatina per scambiare due parole con la custode, ma mi rispose che preferiva tacere, perché non toccava a lei parlare di queste cose. Intuii che si negava per il rispetto che nutriva per l’autore di “Osi di seppia”, “La casa dei doganieri”. “La Bufera”. Non insistetti. Da Taranto mi telefonò Piero Mandrillo, giornalista, scrittore, docente di Lettere (insegnò anche all’Università di Wellington), avido di notizie, e gli riferii ciò che avevo vito e ascoltato. Lui da Montale era stato più volte, come da Raffaele Carrieri per interviste per il quotidiano “Corriere del Giorno”, che realizzava tutte le volte che saliva a Milano, per far visita alla figlia, Mariateresa, che stava a Monza.








mercoledì 9 marzo 2022

La storia di un viaggiatore appassionato

ANDAVA IN GIRO PER IL MONDO

PER CONOSCERE ALTRI POPOLI


 

Albertino Curti, quando lo incontrai,

aveva 92 anni e ancora il bisogno di

scoprire altri Paesi, altri uomini,

altri monumenti, altre tradizioni. 

Era il 2008 quando lo conobbi nella

libreria di viale Tunisia, a Milano.


 

Franco Presicci 

Un uomo a novant’anni lo s’immagina seduto in poltrona a leggere il giornale o un libro o a guardare la televisione; oppure oziare su una panchina d’un giardino sotto casa ad osservare i passanti. Invece Alberto Curti, dopo aver girato mezzo mondo prima su una bicicletta, poi su un motorino e poi ancora in auto, conoscendo tante persone di ogni tipo e razza, dormendo sotto le stelle e nelle stalle; aver visitato in lungo e in largo l’Italia, “che è un autentico gioiello”, dovrebbe riposare. “Riposare, e perché? Per la verità sono un po’ stanco, ma un altro giro me lo farei.

Albero Curti con bici

Per ora corro da una parte all’altro di Milano sulla mia due ruote, per sbrigare le mie faccende. Oggi sono venuto da casa via in via Uruguay 14, a San Siro, qui in viale Tunisia. Lo incontrai nel luglio del 2008 nella libreria dell’editore Nicola Partipilo; mi chiese se potevo metterlo in contatto con qualche casa editrice e si stupì nel sentirmi dire che non potevo accontentarlo. Lo sollecitai a parlarmi dei suoi viaggi e mi rispose: “Le dico subito che non faccio il vagabondo per poi vantarmi con gli amici, che non si vergognano di non saper nulla delle nostre città; Firenze o L’Aquila, Assisi o Bologna. Io viaggio per fare esperienze, appagare la mia curiosità, arricchire la mia cultura. Ho scritto 40 volumi che cerco di far pubblicare”. E mi dette appuntamento per il giorno successivo a casa sua, e ci andai in pullman, impiegando due ore andata e ritorno. Mi indicò subito un suo libro, lo prese e lo sfogliò. “Ecco, vi ho raccolto fatti storici, dialoghi con le persone più diverse, sensazioni, situazioni; ho descritto luoghi, monumenti, templi, piazze. A giorni andrò in macchina a Venezia, dove esporrò i miei libri in piazza San Marco, quindi a Firenze e a Roma”. “Dove sistemerà il banchetto nella Capitale?”. “Magari vicino al Vaticano”. Non tradiva gli anni che si portava addosso. Era scattante, brillante, spontaneo, cordiale, dalla memoria lucida. Piccolo di statura, ricco di umanità. Vedovo, viveva solo. Il suo nome? Alberto Curti, Albertino.

Marrakesc

Mi parlò di cose notevoli viste in Algeria, Siria, Irak, Iran, Giordania, Israele, Grecia, Olanda, Svezia e altrove, sollecitando la mia immaginazione. “I viaggi mi hanno aiutato a crescere, ad amare di più il prossimo, ad apprezzare le bellezze incastonate sul nostro territorio. In Sicilia, per esempio: Selinunte, Agrigento, i siti della civiltà antica, le spiagge dorate, la natura”. Dopo la Sicilia aveva sentito il bisogno di andare in altre località archeologiche sparse qua e là. “Davanti a una colonna provavo l’impulso d’inginocchiarmi, pensando alla città che fu. Non le dico la gente in cui mi sono imbattuto. A Tagiura, in Libia, e tutt’attorno, lo spettacolo di un panorama gioioso, che vanta una bella moschea del ‘500: un italiano mi mostrò la sua azienda agricola, una vasta estensione di terra ricca di ulivi, vigne, alberi da frutto. Vedevo un motore pompare acqua limpidissima da una grande cisterna. Il mio pensiero corse a quei 20 mila contadini di casa nostra che nel ’38 vennero a fecondare con un duro lavoro queste sabbie”. Era inarrestabile, spinto dalla passione. Lui pianificava scrupolosamente i suoi viaggi.

Lella Cito e Grazia Laddomada

Tappe irripetibili Ogni anno un Paese diverso, un nuovo mondo da scoprire, da raccontare nelle sue pagine. Se sul suo cammino trovava qualche difficoltà non si scoraggiava. Viaggiava durante le ferie (in luglio o in agosto) e il caldo non lo abbatteva. “Bevevo 5 litri di acqua al giorno, e misuravo le distanze non a chilometri, ma a litri d’acqua: quelli necessari per raggiungere la mèta. Facevo 150 chilometri al giorno; 10 all’ora, perché non dovevo fare il Bartali, dovevo contemplare, apprezzare i tesori che scorgevo. Con il passare del tempo Albertino avvertì qualche difficoltà a pedalare, così applicò un motorino alla bici. Durò un bel po’, fino al ’92, quando decise di ricorrere a una Fiat Uno, che di notte trasformata in camera; di giorno in sala da pranzo. “Avevo acquistato un fornellino a gas e con quello mi facevo da mangiare. Sono un uomo libero, le comodità sono una schiavitù”.

 Lella Cito

Aprì le pagine di uno dei libri, allineati su un mobile, il dodicesimo (titoli provvisori: “La quarta sponda” (Libia): “La costa barbaresca” (Marsiglia, Algeri, Tunisi, Tripoli, Gadames), “la ballata nel caso”). E disse: “Guardi quante cartine geotopografiche, fotografie di monumenti, persone, scene di vita quotidiana. Il povero è più generoso del ricco: il contadino mi dava la coperta e mi faceva dormire nel fienile; il possidente mi offriva anche lui un letto di paglia e la coperta, ma voleva il mio passaporto. Una volta al confine tra l’Algeria e la Tunisia, un contadino espresse il desiderio di dormire con me sulla spiaggia. Diffidando, nascosi la macchina fotografica, il binocolo, la radio a cuffia e i soldi sotto la sabbia su cui stesi il materasso; ma quello, volendo solo farmi compagnia, russò fino all’alba, mentre io rimasi sveglio… Trascorsi una notte sulle calde sabbie di Abu Simbel con due coppie di francesi: eravamo arrivati con un battello partito da Assuan. E sa che dispiacere per me dover chiudere gli occhi davanti a quel cielo stellato?”. Lo ascoltavo volentieri: simpatico, brillante, energico.

Venditore ambulante

Lo ammiravo, questo vecchio che alla sua età vecchio non era. E non gli dispiaceva essere chiamato vecchio. “Chi respinge chi lo chiama vecchio ha paura della morte”. Mi vennero in mente le parole famose che invitano a non temere la morte perché quando c’è lei non ci sei tu; quando ci sei tu non ce lei. 

 

Cammelli nel deserto

Cammello a Marrakesc
Albertino precorse la mia domanda sulla sua biografia: Sono nato a Borgofortezza, in Romagna. Mio padre, un trovatello, raccoglieva la canapa con mia madre (erano stagionali). Venne a Milano quando aveva appena 9 anni. Trovò un posto come guardiano all’Alfa Romeo e fece studiare tutt’e quattro i figli. Albertino frequentò i corsi serali di ragioneria, e faceva 20 chilometri ogni sera, andata e ritorno, da viale Espinassse, dove abitava in una casa di ringhiera, a piazza Fratelli Bandiera.

Annnibale Del Madre alle spalle di Tignoli
Fu assunto come impiegato alla stessa azienda che fabbricava automobili, ma voleva fare il maestro. Andò in guerra. Smessa la divisa, dopo quattro anni, cominciò a viaggiare. “Ho preso da mio nonno, che probabilmente era uno zingaro”. Dopo d’allora lo vidi soltanto una volta, quando venne a casa mia, in bici, con un biglietto in cui mi nominava erede dei suoi libri. Forse nella speranza che prima o poi sarei riuscito a trovare un editore ben disposto. Rifiutai per paura di deluderlo. Lui pensava a Nicola Partipilo, data l’amicizia che ci lega da oltre 30 anni. Ma non pensava che il libraio editore sforna soltanto libri su Milano e sulla Lombardia, unica eccezione per Annibale Del Mare, che aveva una bella storia professionale: corrispondente di guerra de “La Gazzetta del Mezzogiorno”; nell’ottobre del ’43, nella veste di addetto stampa di Pietro Badoglio in un noto articolo dette la notizia del ritorno della libertà di stampa. Trasferitosi a Milano nel ’45, si occupò per lungo tempo degli italiani emigrati all’estero e pubblicò per loro il quotidiano “Il Corriere dell’Italia”. Avevo conosciuto Annibale tantissimi anni prima, gentile, riservato, in occasione di un convegno a cui prendevano parte il senatore Cifarelli e l’onorevole Mario Mazzarino; e lo ritrovai altre volte, anche nella libreria di Partipilo, che da editore aveva già pubblicato, tanti anni prima, un libro di ricette, contenente anche notizie sulla salute. Ma poi cominciò un’altra storia, con i volumi sulle piazze, sui navigli, sui cortili, sulle le cascine, sui castelli, sulle dimore di villeggiature dei milanesi… Non se la sentiva di impegnarsi con i voluminosi libri di Albertino Curti, i ricordi di viaggio di un uomo che andava in giro per incontrare i suoi simili e i luoghi in cui vivevano.









mercoledì 2 marzo 2022

Il mercato all’aperto di largo Augusto

PER IL POETA CARLO PORTA IL VERZIERE

ERA ANCHE UNA ”SCUOLA DI LINGUA”


Il mercato dell'antiquariato
Vi si parlavano diversi dialetti

anche perché era frequentato da

gente che veniva dai paesi vicini. 

Per tenerlo al riparo dai 

malandrini la confraternita di

Santa Croce fece erigere una

colonna con la statua di Cristo

Redentore.


Franco Presicci

Guarda chi si vede. Da quanto tempo. Sono passati due anni o più da quando hai cambiato casa. Beh, ti trovi bene, in quel quartiere che si va sviluppando a macchia d’olio, con un bel giardino in cui puoi, se vuoi, respirare ossigeno sotto gli alberi?”. “Bene, bene; e voi? Che si dice in quel condominio che abbiamo visto nascere?”.

 

Il banco del pesce
I colori del mercato  
 

 

 

 

Conversazioni che s’intrecciano ai mercati rionali all’aperto, magari mentre si è in fila alla bancarella preferita per la qualità della merce e per i prezzi. E un po’ anche per la simpatia del fruttivendolo, che pesa, infagotta e consegna canticchiando storie del suo paese come un menestrello. Indovinate da dove viene? Ma dalla Puglia; altrimenti, non direbbe “Accattàteve le cime de rèpe ca ve facìte ‘na bbèdda mangiàte e ‘a pròsema vòte me decìte grazzie”. Anche il giovanotto di colore nero che gli dà una mano slaccia parole della nostra terra, dicendosi nato a Cerignola. E’ delicato, disponibile, ti fa scegliere “pumedòre”, “scarciòppele”, “lambasciùne” e “marangiàne con un sorriso schietto. In questo mercato “en plein aire” milanese, zona Niguarda, sono più d’uno gli extracomunitari che servono il pubblico da titolari o da garzoni.

 

Il vecchietto arzillo che impugna il bastone dalla punta tenendo il pomo in alto come fosse l’asta di una bandiera, fa: “Se mi dai la roba buona ti faccio sposare la ragazza più bella del mio palazzo”. “Ho già due fidanzate”, la risposta. Io abito in una via che sta quasi al centro tra due mercati. Quando ci vado, per accompagnare mia moglie, sono attirato più dallo spettacolo che dalla merce. 

Mi soffermo soltanto davanti al pescivendolo per fotografare il pesce spada e i granchi, che quando si mettono l’uno sull’altro non capisco se lo facciano per lottare, per giocare o per altro. L’uomo che sta dietro il banco mi conosce e si mette in posa davanti ai sacchetti di cozze e vongole, che dice di Taranto, chiedendomi di mettere la foto su facebook. Frequento anche, in estate, il mercato di Martina Franca, dove una volta ho cercato di avere uno sconto per due bocce e l’ambulante, una donna, è stata dura come il ferro. “Se abbasso il prezzo ci rimetto”. Mi ha detto di no per un mese, ogni mercoledì. Poi un amico ragioniere mercanteggiò al posto mio con il marito della signora, che era assente, ed ebbe più fortuna. Pensai che l’ambulante avesse voluto fare spazio sulla bancarella. Il mercato di Martina è enorme. Occupa tutta una via e una piazza: il foro boario. Mi dispiace che non ci sia più quello che vendeva gli uccelli e i polli. Una ventina di anni fa tra galli e galline ne portai in campagna trenta e organizzai un pollaio, dove cornacchie, passeri e galli pasteggiavano insieme.

 

Mercato sul Naviglio Grande
Poi una notte arrivò la volpe e fece una strage. A Milano secoli fa c’era il Verziere, nato come giardino dell’Arcivescovado. Si trasformò in mercato con numerose tende e baracche nel 1779, lo trasferirono da piazza Fontana a largo Augusto, che era a pochi passi. In seguito passò nella vicina piazza Santo Stefano. Esponeva verdura, frutta, generi alimentari… e gli avventori vi si assiepavano, come oggi in piazzale Lagosta. Anche nella nuova sede si mischiavano tanti dialetti, una miscellanea che dava anche piacere a chi amava il vernacolo: al Verziere dunque venivano anche dai paesi vicini. Ogni tipo di persone e di comportamenti. Il Verziere era uno spettacolo tutto da godere, soprattutto da scrittori e da eventuali cantastorie, che avrebbero tratto moltissimo materiale. C’era ovviamente spazio anche per i poeti. Chi non ricorda “La Ninetta del Verziere”, opera scritta nel 1814 da Carlo Porta, durante il suo lavoro di cassiere negli Uffici del Debito Pubblico. Un’opera celebrata come un capolavoro di poesia in dialetto meneghino.
 
Mercato di frutta e verdura
Non si è persa la memoria di questo grande, che a 25 anni sposò Vincenzina Prevosti, con la quale andò ad abitare in via Montenapoleone al civico 2. Il Porta definiva il Verziere “scuola di lingua”, appunto per la varietà dei dialetti che vi circolavano. Come ricordano gli studiosi, da Raffaele Bagnoli a Carlo Castellaneta, ad Alberto Lorenzi… “Ma perché il mercato è stato spostato?”, si domandavano gli avventori. “Perché inceppava il traffico”, la risposta. E forse anche per rispetto all’immagine della sede arcivescovile. All’inizio del 900 al “Verzee” toccò Porta Vittoria, dove oggi sorgono il parco del Marinaio e la Palazzina Liberty, dove nel ‘70 recitò il grande e indimenticabile Dario Fo. Il Verziere interessò anche gli artisti, tra cui Giovanni Ambrogio Figini, che a Milano dipinse molte tele di carattere religioso, ritratti e nature morte. I mercati antichi e nuovi sono pittoreschi. C’è chi ci va per fare due passi tra quella policromia gioiosa: carote, ciliegie, arance, banane…, e per osservare i atteggiamenti, le scelte, le insofferenze, le polemiche di chi trova troppo caro o scadente un prodotto. C’è chi tenta di tirare sul prezzo; chi compera un piccolo merluzzo, due pere, due peperoni, mentre un cinico le mormora: “Signo’, hai ospiti”: “No, sono vecchia, sola e mangio quello che mi permette la mia pensione”… C’è chi va per vedere le facce, le espressioni, le sagome. Tra la folla emerge un signore alto, magro, austero, barba e baffi cespugliosi, giacca e pantaloni bianchi, panama, che cammina tra un filare di cassette, senza avvicinarvisi e poi si ferma davanti a un minuscolo carretto somigliante a quelli siciliani, posto lì per sfizio dall’ambulante con il chiosco pieno di delizie pugliesi. Ecco, questo signore, invece di farsi la sua passeggiata in Galleria se la fa al mercato all’aperto. Sembra appena uscito da uno sceneggiato televisivo.
 
Mercato in Ripa Ticinese
Così deve essere stato anche al Verziere. Che ebbe una cattiva fama, per colpa di gruppi di delinquenti che, annidati anche nei pressi di piazza Fontana, si dedicavano a furti di biciclette, moto e altro. A Milano la malandra non è mai mancata. Nel 1906, la “scopola”, combriccola abile nelle rapine e nell’uso del “martino”, coltello in gergo di malandra e anche “maresciall”. Oltre alla “scopola” allignavano la compagnia della teppa, i “locch”, la “ligera”, fatta, questa, per lo più da giovinastri che rasentavano o scivolavano nel codice penale per piccoli peccati. Li si trovava alla malfamata e squallida taverna del Bernini in via dei Guast, e dovevano vedersela con il cavalier Mazza, detto “el Dondina”, poliziotto della squadra mobile dei primi del 900. Per difendere il “Verzee” dai “tiradir de spada”, i borsaioli, e da altre categorie di malfattori, la Confraternita di Santa Croce fece erigere nella zona del Verziere, la colonna con la statua di Cristo Redentore. Il ”Verzee” non era il solo mercato del capoluogo lombardo. C’era anche quello di Porta Ticinese, caratteristico perché lambito dal Naviglio Grande e da quello Pavese (il primo arriva in darsena, tranquillo e silenzioso, il secondo da lì parte per andare a Pavia).
 
Mercato di frutta e verdura
Un tempo sulle acque del Ticinello navigavano i barconi carichi di sabbia e di marmo di Candoglia destinati alla Fabbrica del Duomo; e vi navigava anche “el barchett di Boffalora”, al quale Paolo Valera, sfoderando la sua penna mordace, ha dedicato pagine dai toni crudi. Il barchetto è anche il titolo di una commedia di Cletto Arrighi, pseudonimo di Carlo Righetti. Ogni quartiere aveva il suo mercato. Al Cordusio, per esempio; al Carrobbio; in piazza Vetra (dove avvenivano le esecuzioni); in Foro Bonaparte: in via San Maurilio, vicino a Via Torino, dove sbocca via Piatti, l’ex zona degli orafi. E non dimentichiamo la “Sciostra della Luna”, mercato di generi alimentari. Infilo nell’elenco anche la Fiera di Sinigaglia, che un tempo si svolgeva lungo la darsena e oggi in ripa di Porta ticinese. Vi si può trovare ogni sorta di mercanzia, dalle biciclette usate agli orologi parlanti, dalle stampe ai vetri dei lumi a petrolio, ai paioli, alle campanelle, ai pennini usati al tempo che fu, a forma di torre, di mano con l’indice puntato, di fascio littorio, alle puntine dei grammofoni, ai dischi di Tito Schipa. Anche questo è un punto di aggregazione e non sempre chi ci va ha in mente di acquistare. Lo attraversa da capo a fondo, guardando le bancarelle e se becca un oggetto interessante lo acquista. Spesso vi trova un amico o un conoscente, con il quale chiacchiera, magari facendo la visita insieme e insieme cercano una radio anni 40, una maschera antigas del tempo di guerra da tenere come cimelio, una vecchia macchina per scrivere, meglio se una lettera 22 della Olivetti, che magari non scrive più, ma è pur sempre una testimonianza. Il mercatino è da quelle parti fin dall’800: una bella storia.