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mercoledì 28 febbraio 2018

Mario Jovine: un grande poliziotto


 
Mario Jovine
IN UN’INTERVISTA A VENEZIA
DELINEO’ LA MALA DI MILANO

Napoletano, molto simpatico,
elegante, giovanile, alla mano.
Fu capo della Mobile milanese,
poi questore di Roma e della
città lagunare; da prefetto fu
a Palermo e a Firenze. Guidò le
indagini sulle più spettacolari
e clamorose rapine

 



Franco Presicci



Il questore Antonio Fariello
Quando nel maggio dell’85 Guido Gerosa, collega coltissimo, autore di libri di storia e di romanzi appassionanti (in uno, se non ricordo male, fa emergere Gianni Brera dalle acque del lago di Como), profondo conoscitore della “nera” (appena facevi un nome rispolverava il personaggio), memoria inossidabile (era capace di scrivere in meno di un’ora una pagina su Sartre o Spadolini), già vicedirettore, assunse l’incarico di capo cronista mi chiamò nel suo gabbiotto, come indicavamo scherzando la plancia di comando, e mi disse che dovevo prepararmi a fare il giro d’Italia. “Devi andare a cercare tutti i questori che hanno combattuto la malavita a Milano e farti raccontare i loro ricordi; i “boss” e i gregari che hanno affrontato; le indagini su una rapina, su un sequestro; i metodi adottati per sciogliere una matassa aggrovigliata… Insomma non c’è bisogno che io ti dica quello che devi fare”.
Mario Jovine nella sua casa di Bologna



Pensai subito a Mario Jovine, che era questore a Venezia; poi a Vito Plantone, a Catanzaro; ad Antonio Fariello a Torino, e a Mario Nardone, detto il “Gatto” per il suo fiuto formidabile. Jovine lo conoscevo da quando era capo della Mobile meneghina (’63-’65), lo avevo incontrato spesso, anche al Teatro Sant’Erasmo, dove sulla pista ottagonale calcata dagli attori si rappresentava “Il generale della Rovere” di Indro Montanelli. Avevamo tessuto ottimi rapporti. Il giorno dopo gli telefonai. “Domani sono da te, dobbiamo fare una chiacchierata”. All’arrivo in piazza San Marco trovai un motoscafo della polizia, che puntò verso la questura. Persona cordiale, ospitale, disponibile, simpaticissima, mi ricevette nel suo ufficio al primo piano di un edificio del ‘700; ci sedemmo uno di fronte all’altro; e dopo aver ricordato Milano, via Fatebenefratelli… voltammo pagina. Mario prese la rincorsa, parlando della rapina di via Osoppo, che Don Whitehead aveva incluso nel suo “Journey into crime” (Viaggio nel crimine), intitolando il capitolo “Saint Rita and the Robbers” (Santa Rita e i rapinatori), perchè il capo della Mobile di allora, Paolo Zamparelll, dopo la clamorosa impresa si era rivolto alla sua santa preferita; e, risolto il caso, grazie anche alla scoperta di una tuta nel canale Olona, aveva convocato nel suo ufficio dirigenti, funzionari e agenti che avevano collaborato all’inchiesta e detto loro: “Domani tutti a messa alle 8”.
Jovine-Plantone-Caracciolo
Nessuno mancò all’appuntamento nella chiesa dedicata alla santa alla Barona: Nardone, lo stesso Jovine, Barone, De Rose, Visconti, Oscuri, Giannattasio. Qualcuno, preceduto da Zamparelli, fece la comunione. Jovine mi elencò i nomi degli elementi del commando, le loro personalità, le loro origini criminali, la tecnica con cui avevano realizzato la “dura”, il 27 febbraio ’58, ricavando 115 milioni, che per quei tempi era una cifra rispettabile. E i “bravi ragazzi di Angera”? “Ah quelli. Formavano la banda del lunedì. Lavoravano solo il primo giorno della settimana, in modo artigianale. Erano in tre, tutti cresciuti sulle rive del lago Maggiore. Una vita noiosa. Un giorno uno della combriccola, che assunse il ruolo di capo, stimolò gli altri a darsi una mossa e il 4 dicembre del ‘61 sfoderarono le armi (due pistole e un mitra rubato in una caserma) nella Banca Popolare di Tronzano Vercellese, bottino un milione e mezzo. Improvvisatori, dilettanti; eppure i giornali li definirono assi della rapina”. Il 15 aprile del ’64 in via Montenapoleone, zona elegante, della moda, delle vetrine brillantemente addobbate, di solito un’oasi di tranquillità, si svolse una scena da Chicago anni ‘30. I “duristi” assaltarono l’oreficeria Colombo, “grisbì” 350 milioni.
Arnaldo Giuliani e il prefetto Mario Jovine
Un’azione spettacolare, un’operazione da manuale. In via Fatebenefratelli balenarono elementi che fecero cadere i sospetti sui marsigliesi. L’intuizione si rafforzò con il ritrovamento di un polsino di camicia con il disegno della Torre Eiffel. In pochi giorni scattarono le manette. “Passarono quasi tutti davanti alla mia scrivania. Uno di loro, detto ‘Bocca cucita’, rimaneva ostinatamente muto. Sapevo che mi sarebbe stato difficile tirargli fuori una frase e le inventai tutte per poter avviare il dialogo; intanto studiavo la sua psicologia. Disse soltanto che la cella non lo deprimeva né fisicamente né moralmente”. Quando aggiunse che era un tipo forte, Jovine lo sfidò a saltare a piedi uniti al di là del tavolo tenendo appoggiato una mano sullo spigolo. “Mi tolsi le scarpe e feci il salto. Lo avevo fatto altre volte, ero bravo. Accettò la sfida e ci riuscì, ma continuò a tacere”.
Il cronista de Il Giorno Giancarlo Rizza
Mario, napoletano spassoso, amava raccontare. Qualche anno dopo, già in pensione dopo essere stato questore di Roma, prefetto di Palermo e di Firenze, lo fece anche da Paolo Limiti, in una trasmissione su Rai due. Raccontando, si divertiva; e tra una vicenda e l’altra battuta sfornava una battuta. Dopo quasi tre ore d’intervista e di ricordi milanesi, mi invitò a pranzo a casa sua, ma io nel pomeriggio avevo un impegno a Milano. Rimandammo l’invito. Avevamo ancora un po’ di tempo, e Mario rievocò l’omicidio dell’affittacamere di via Anfossi. Nel novembre del ’64 una signora di 74 anni venne trovata uccisa nella sua pensione: colpita al capo con quadretti di porfido e poi strangolata con la cintura di un pigiama. Il motivo? Una rapina. “Oddio l’’hanno ammazzata!”, urlò una donna, e subito un brivido corse per la tromba delle scale. “L’urlo provocò un coro disperato. L’allarme rimbalzò in questura, oltre che alla centrale operativa dei carabinieri, e in via Anfossi piombò anche Carlo Alberto Dalla Chiesa, allora colonnello. Terrificante la scena del delitto: sangue dappertutto, quattro sassi avvolti in una copia de “Il Corriere della Sera”. “Scorremmo le inserzioni apparse sui giornali, esplorammo gli indirizzi più vicini...
Il direttore de Il Giorno Rizzi,Gerosa,Olivieri,Giuliani
In una ditta la segretaria aveva annotato su un foglietto i nomi di quelli che si erano sottoposti a un recente colloquio. Il pezzo di carta era finito appallottolato nel cestino. L’impiegata descrisse tutti candidati e ci soffermammo su uno di loro, al quale aveva già accennato la portinaia dello stabile. L’uomo aveva bussato alla guardiola alla ricerca di un posto-letto ed era stato fatto salire. Anche quello fu un lavoro di gruppo”. Sbrigato in fretta, nel timore che qualche giornalista dei più attenti, Giancarlo Rizza, de “Il Giorno” e Max Monti de “Il Corriere della Sera”, che amava definirsi il “re di Monforte”, fiutassero qualche particolare e pubblicandolo mettessero sull’avviso il colpevole. Non furono soltanto questi gli episodi che Mario Jovine, allora 56 anni, sempre giovanile, elegante, rispolverò nei dettagli. Ripercorse anche i suoi rapporti con la stampa, sempre civili.

Mario Nardone e Enzo Caracciolo
Glieli aveva affidati Nardone, all’epoca dirigente della Mobile. “Ed ero io che subivo l’ira di Rizza e dei suoi colleghi quando una notizia non era stata data o non era stata data in tempo utile. Comunque fra noi c’era molta stima, anche affetto, tanto che il giorno in cui lasciai via Fatebenefratelli proprio Rizza mi abbracciò piangendo, trasmettendomi la sua emozione”. E i rapporti con la malavita? “Tutti rispettavano il gioco delle parti. Eravamo avversari ma non nemici. Io davo del lei ai cittadini che arrestavo; e cercavo di farli parlare usando l’intelligenza”. Quale personaggio della “mala” lo aveva colpito maggiormente? Joe Adonis, soprannome derivante dal fatto che una donna gli aveva detto “Joe, sei un Adone”; e da quel momento Giuseppe Doto fu ribattezzato con il nome del bellissimo pastorello che, allevato dalle Naiadi, da giovanotto affascinò Afrodite, che per vivere con lui abbandonò l’Olimpo. Una mattina, convocato da Jovine, Adonis s’inchinò più volte ma non si sedette. E si rifiutò di rivelare la sua data di nascita, perché negli Stati Uniti aveva fatto la galera per aver sbagliato quei numeri. Non era soltanto Adonis ad avere riguardo per le forze dell’ordine. “La ‘malanda’ sapeva che chi stava dall’altra parte faceva solo il suo dovere. Negli anni ‘70 questa mentalità cominciò ad incrinarsi. “Hobby, Mario, oltre alla chitarra?”. “Quella la strimpello”. Non era vero, suonava bene anche il pianoforte. “Giocavo al pallone nel ruolo di portiere. Poi a Bologna in una partita con i carabinieri m’infilarono quattro gol e smisi. Vado in bicicletta, mi piace molto…”. Sposato con la signora Pia, due figli medici, aveva ancora un’aria da ragazzo e una gran nostalgia di Milano.












mercoledì 21 febbraio 2018

L’ultimo dei grandi cantastorie


FRANCO TRINCALE RITORNA

A INTONARE LE SUE BALLATE?




Franco Trincale


E’ una speranza. I suoi temi:

la disoccupazione giovanile,
 
i politici ballerini, gli scandali,

il malcostume, i femminicidi,
 
l’indolenza della burocrazia,
 
le tragedie, le incertezze della
 
gente.






 



Franco Presicci


All’alba del Novecento, e anche dopo, decine di voci vibravano per le strade di Milano. Voci sonore, cavernose, tonanti: dello spazzacamino; del venditore di uccelli imbalsamati, che grazie alla pubblicità avevano il potere di sconfiggere le tarme; dell’ombrellaio; dell’arrotino; della donna che commerciava in segatura; della banda musicale del Tirazza, in scena in via Passerella quando non nelle bettole; dei pattee, rigattieri, che nel Medio Evo avevano i depositi in via Pattari, alle spalle del Duomo; dello strillone, che urlava le notizie del giorno: “La ‘figlia di Jorio’ di D’Annunzio è rappresentata a Milano dalla Compagnia Talli con grande successo!!!”.
Lo strillone
“Lo sciopero generale si estende rapidamente da Milano a Monza, a Genova, a Torino… per protestare contro la determinazione delle forze dell’ordine nelle manifestazioni popolari!!!”. “Inaugurato il traforo del Sempione, il più lungo del mondo con i suoi 19,825 metri”... Nel ’60 questa voce si era già spenta. “La Notte”, quotidiano del pomeriggio, che usciva a mezzogiorno, sistemava le copie sul pavimento dell’entrata da piazza della Scala della Galleria Vittorio Emanuele e i lettori si servivano lasciando il denaro. E non c’era il furbo che approfittasse dell’assenza di sorveglianti. Gridava il gelataio che girava con il suo carrettino a forma di rapace, assorbendo le storielle che lì attorno si snocciolavano assottigliando la zuccherosa cupola multicolori. Stando a una di queste, la giovanissima e affascinante contessa russa Giulia Samoyloff, patita di cavalli e altri animali, in un carnevale organizzò un corteo di gatti e vendeva sottobanco a un ben frequentato Caffè dell’epoca, noto per i suoi sorbetti, il latte d’asina in cui s’immergeva ogni giorno nella propria casa di via Borgonuovo 20. Davanti ai Magazzini Bocconi un vecchietto si sgolava per reclamizzare una sua invenzione: l’anello che consentiva di chiudere l’ombrello con maggiore facilità. Fra le tante voci che s’incrociavano a Milano non si udiva mai quella di Teresina Bardi, che gestiva un banchetto di fiori tra le vie Verdi e Manzoni, a un passo dal Teatro alla Scala.
Piazza Scala intorno al 1850-Stampa Raccolta Bertarelli
Aspettava pazientemente gli avventori; e quando questi arrivavano architettava con abilità e gusto i suoi mazzetti di rose rosse o gialle o di orchidee che i signori per simpatia pagavano mettendo i soldi in una busta chiusa... Questo era un mestiere diffuso, tanto da ispirare una canzone: “…la va girand, pass a pass/ neij anni anca lèe la sfioriss…me on fior pass…”. Il testo era dedicato ad ambulanti, sprovviste di postazioni stabili. Altri versi vennero composti per Teresina, che aveva dimestichezza anche con orchestrali e cantanti, fra cui Angelica Pandolfini, Mimì nella “Bohème” scaligera del 1897. Teresina era rispettata, considerata quasi una prima donna. Un brutto giorno uno spasimante, rampollo di una famiglia d’alto rango, la ferì sfregiandola. Il processo, che provocò grande interesse e curiosità in tutta la città, e non solo, concluse la drammatica pagina con l’assoluzione, suscitando la rabbia di quanti avevano seguito con commozione la vicenda. Passarono gli anni, i decenni, e Teresina Bardi non entrò nell’oblio. Ancora oggi qualcuno la ricorda. Fino a poco tempo fa i meneghini diretti alla Banca Commerciale attraversando piazza della Scala, si fermavano, davano uno sguardo al vecchio banchetto di Teresina e mandavano un saluto a quella bella e dignitosa signora che vendeva “gilji”, “margaritt”, “dali”… con garbo e discrezione.
La Scala su un cartellone
Altre fioraie comparvero laddove aveva avuto il posto Teresina: offrendo “bouquet” facevano la ronda da un angolo di strada all’altro, ma per quanto ce la mettessero tutta, non riuscirono ad entrare nel cuore dei milanesi come Teresina, che alimentò anche il repertorio del Barbapedana, figura del teatro meneghino portata sulle scene da Enrico Molaschi. Accompagnandosi con la chitarra cantava filastrocche e ballate in dialetto e in estate portava l’allegria esibendosi all’aperto proponendo un almanacco che si pubblicava nel 1635. Con i suoi emuli, considerati gli antesignani dei cantastorie, nell’ultimo dopoguerra tenevano banco anche nei “trani”, aperti dagli immigrati provenienti dalla città pugliese. Oggi i vecchi milanesi usano la parola “tranatt” per indicare i clienti più assidui di questi luoghi, mentre ai tempi del Porta il termine in uso era “boeucc”, (buca), da cui prende il nome un famoso ed elegante ristorante di piazza Belgioioso (oltre 600 anni attività: data di nascita 1696).
La Resistenza su un cartellone
Per anni gli storici ebbero il sospetto che la volontà dei meneghini d’insorgere contro gli austriaci fosse maturata più nei locali eleganti che nei salotti della contessa Clara Maffei o della marchesa Trivulzio. E a proposito di menestrelli, sono in tanti a Milano ad avere nostalgia di Franco Trincale, e si augurano che quanto prima torni alla ribalta. Nato nel ’35 a Militello in Val di Marsala, il cantastorie siciliano salì nel ’46 a Milano, dove pizzicando le corde della sua chitarra ha sciorinato le sue ballate prima in piazza Duomo e poi, dal ’92, in piazza San Babila.
Trincale va in piazza San Babila
I suoi temi: “Mani pulite”, le lotte degli operai, a volte irritando il potere; i fatti clamorosi che hanno avuto risonanza nazionale. Si ricordano la scomparsa, il 31 gennaio del ’69 a Viareggio, del dodicenne Ermanno Lavorini, poi scoperto da un cane sepolto sotto la sabbia nella Pineta di Vecchiano, dopo tante affannose ricerche (si ricorse anche a una sensitiva). Franco Trincale tra l’altro incise un 45 giri, esortando i rapitori a restituire il bambino alla famiglia. Raccontò il sequestro di Milena Sutter, avvenuto il 16 maggio del ’71 (la ragazza non rientrò mai più a casa); e la fine delle tre bambine di Marsala, sparite il 10 ottobre dello stesso anno e trovate morte successivamente; l’assassinio a Dallas di Jhon Kennedy... Nel 2002 un’ordinanza comunale del 19 luglio, che vietava l’uso di amplificatori per evitare molestia alla cittadinanza e disturbo alle attività, suscitò polemiche e proteste perché ritenuta un fulmine contro il cantastorie contestatore, che se la prendeva con la politica, il malcostume, la corruzione, la sonnolenza della burocrazia….
Piazza San Babila
Ne parlarono anche i giornali: Francesco Merlo, sempre garbato e dallo stile signorile e avvincente, scrisse sul “Corriere” che Milano senza Franco Trincale sarebbe più povera. Poi il sindaco Albertini spiegò che il provvedimento non aveva l’intenzione di zittire Trincale, e Merlo aggiunse che sarebbe stato un peccato se al menestrello siciliano, noto anche oltreconfine (l’”Herald Tribune” a suo tempo gli aveva riservato una pagina), fosse stato impedito di esprimersi. Nel gennaio del 2005 un personaggio molto in vista si credette insultato dai versi di Trincale e un giornalista osservò che chi ama Gaber non può sentirsi diffamato da un artista di strada che di Gaber è il gemello povero.
La Banda musicale del Tirazza
Uomo intelligente, dinamico, artista di notevoli qualità, Trincale, con il suo cartellone alle spalle e le sue corde, è l’ultimo menestrello di Milano, e non solo. Lo rivedremo, non importa se in uno dei suoi antichi prosceni? Non credo che uno come lui voglia solo godersi il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli che nel gennaio del 2008 ha ottenuto dal governo Prodi, la Medaglia d’Oro di benemerenza civica che Il 7 dicembre successivo il Comune di Milano gli ha consegnato, oltre ai tanti successi conseguiti. Nel ’69 gli operai dell’Alfa Romeo in lotta gli regalarono una chitarra, che il cantastorie considera storica. Ci sarebbe tanto altro da dire su questo menestrello, che ha una biografia lunga quanto l’autostrada Milano-Taranto e un archivio che la sua abitazione forse non riesce più a contenere. Eletto “Trovatore d’Italia” nel ’67 e nel ‘68”, è uno degli ultimi rappresentanti dei cantastorie siciliani. Sono in molti ad avere nostalgia della sua voce. Trincale, uomo combattivo, non può rimanere in pantofole. Con tutto quello che ha ancora da dire sugli scandali, i femminicidi, i politici saltimbanchi e parolai, le lotte intestine nei partiti, le defenestrazioni degli avversari… Il Barbapedana, gli strilloni, i venditori di ogni sorta di mercanzia… sono soltanto un ricordo che resiste in chi è appassionato della storia di Milano. Franco Trincale, un artista autentico che prende nota di ciò che accade ogni giorno e lo racconta, ha tutta l’energia necessaria per riprendere il suo ruolo.

































mercoledì 14 febbraio 2018

La stirpe dei ladri non si estingue


CHI INVOCA I TEMPI DI UNA VOLTA

FORSE NON LI RICORDA ABBASTANZA



Vito Plantone


Anche allora i ladri impazzavano,

erano intrepidi, veri specialisti e usavano

sistemi in parte in voga
ancora ai giorni nostri,

almeno nelle grandi città.








Franco Presicci

Una volta – dice la gente – potevamo lasciare le porte aperte senza avere sorprese al ritorno; oggi non possiamo stare sicuri neppure se ci blindiamo: I furti in appartamento e nei negozi sono all’ordine del giorno; i ladri sempre più spericolati, ostinati e aggressivi. Non se ne può più. Ci sentiamo insicuri, indifesi.
Giornalisti di nera degli anni '50 in Questura

Enzo Caracciolo in un disegno di Piero Lotito
Ma neanche in tempi più lontani c’era tanto da stare allegri. Il gergo della malavita elenca le categorie di queste pellacce: l’aporridore era l’esperto del furto di bestiame; il cubista dello svaligiamento delle case; il ladro acrobatico una sorta di trapezista che non conosceva ostacoli; il balaustrista agiva a qualunque altezza saltando su un balcone da una finestra sulle scale: un ladro-scimmia emulo di Tarzan.                          Questo il soprannome di cui si gloriava un “professionista” che li superava tutti. C’era anche il “gatto”, così detto per il suo fiuto nell’individuare l’obiettivo giusto e nel passare, per raggiungerlo, anche in un buco. Erano così arroganti che nell’abitazione di uno di loro venne trovato un documento che esortava la categoria a formare una specie di sindacato per la difesa dei loro diritti. E sembra non fosse uno scherzo. Le consorterie dei ladri erano bene organizzate.
 
Individuavano l’appartamento da depredare, studiavano le abitudini dei proprietari, telefonavano ripetutamente per verificare se ci fosse qualcuno e operavano lasciando nei pressi un “palo” incaricato di dare immediatamente l’allarme nel caso di pericolo. Un noto musicista, credendo di poterli ingannare, prima di una “tournèe”, registrò sul nastro più volte la parola “pronto” con toni gradatamente elevati per simulare il fastidio per non ricevere risposta. Ma sottovalutava l’intelligenza dei “mastri”, che, se dovevano entrare dalla porta e non volevano prendersi il fastidio di fare il calco della serratura e fabbricare le chiavi da sé, ricorrevano ai noleggiatori di “bambole”: le chiavi false appunto, che non potevano essere usate per più di tre volte. Uno di questi accrebbe la sua fama compiendo personalmente un furto per dimostrare l’efficacia della propria
merce.

Achille Serra,oggi prefetto in pensione
Negli anni ’50 gli uomini del commissariato di viale Papiniano fecero irruzione in un laboratorio di Porta Genova, dove tra pialle, seghe, saracco, menaruola, banco, mola a smeriglio trovò oltre 2500 “bimbe”, altro nome in gergo di queste apriporte. Il commercio era gestito addirittura da una vecchietta, che aveva sulla testiera del letto una preziosa opera d’arte trafugata in una villa gentilizia. Chi forniva le chiavi false era troppo esigente nella spartizione del bottino, e così un “cubista”, avendo deciso di rimanere autonomo, non dovendo spartire il “grisbì con alcuno, divenne ricco con tanti di quei colpi da suscitare nell’ambiente l’ammirazione e l’invidia. Lavorava sempre nel pomeriggio e ad ore fisse, come la banda di rapinatori detta del lunedì, che colpiva soltanto in quel giorno e i vicini di casa li consideravano normali impiegati. La polizia lo fece seguire da due agenti centauri che gli stavano dietro da quando usciva da casa e metteva in moto la sua potentissima moto. Lo catturarono nel pieno esercizio delle sue funzioni. Da moltissimo tempo non era più in servizio il Dondina, il signor Mazza, capo della squadra volante temutissimo dalla “ligera”, che si limitava a piccoli reati, e ai delinquenti di spessore più grosso.

Giannattasio e Oscuri
In questura, tra il ’42 e il ‘70, erano arrivati il Poirot Ferdinando Oscuri, il maresciallo Giannattasio, il mitico Mario Nardone, i giovani commissari Vito Plantone Achille Serra, Francesco Colucci, Enzo Caracciolo, Oscuri conosceva molto bene la frenetica attività di questi personaggi: dal “lader de pan de mej” o “rati di giornata”, che rubavano, e lo fanno ancora oggi, per esigenze elementari; al ladro “del pidocchietto” o “stoffaro”, “trapanante”, che ricavano anche loro un bottino magro, al “violinista, l’asso in furti con destrezza. Ne aveva spediti a San Vittore chissà quanti. Per la cronaca, un passante (non ricordo il luogo), notò un giovane scalare uno stabile, avvertì la polizia e si scopri che si trattava di una signora che a una certa ora si chiudeva in camera da letto e riceveva l’amante mentre il marito guardava la tivù. I segugi s’impegnavano per stroncare il fenomeno dei furti di ogni genere, ma quelli sono come la coda della lucertola. Dopo la leggendaria rapina di via Osoppo, 27 febbraio ’58, e l’arresto di tutta la banda (uno acciuffato da Nardone e Oscuri in Argentina), i “duristi”, autori dell’assalto a mano armata, pensarono che bisognasse mutare comportamento: abbandonare i “cannoni”, in gergo pistole e mitra, e di dedicarsi alle imprese senza violenza eccessiva, per far sì che, se “bevuti” (arrestati), rispondessero di solo furto aggravato.

Nardone e Oscuri
Ma nelle aule di giustizia spesso le cose non andavano secondo i loro piani. I ladri, che di solito studiavano i piani in una” diocesi” (un’osteria o un caffè in cui erano di casa), non si lasciavano scoraggiare e le inventavano tutte. Con una scaletta-rampino si trasformavano in alpinisti o scendevano dall’ultimo piano; forzavano addirittura le porte corazzate, dopo essersi naturalmente accertati se ne valesse la pena. Ma dalle dimore patrizie non si poteva uscire a mani vuote. Nel maggio dell’84 una banda si nascose il venerdì sera in un istituto di credito del centro con un’attrezzatura sofisticata, e lavorando sabato e domenica conquistarono il “caveau”. La combriccola venne acciuffata pochi giorni dopo in Spagna a bordo di un panfilo. Calarono le “dure” e le “spaccate” (furto eseguito mandando in frantumi una vetrina con un mezzo pesante), e s’incrementarono le “mani di velluto” o “giocolieri”: i borseggiatori che a Milano hanno sperimentato tutte le tecniche delle diverse scuole: siciliana; della “monta”... Si registravano un centinaio di borseggi al giorno, compiuti nei luoghi affollati e sui mezzi pubblici, campi d’azione preferiti dai “professionisti”, per la possibilità di fare le pressioni necessarie per sfilare la “fisarmonica” ( il portafoglio). I più esperti nel “caschè” o “forbice” o “impettata”, come il dizionario della malandra definisce le varie azioni, una volta erano i cileni, che avevano sempre le tasche piene di biglietti del tram, come dimostrò un noto e dinamico maresciallo della polizia negli anni ‘80 durante un’irruzione in un bar adibito, dopo la mezzanotte, a bisca. Le vittime, quando si scoprivano senza più il “tesoretto”, andavano a denunciare lo smarrimento senza pensare di essere stati “denudati” da un manolesta.

Francesco Colucci,oggi prefetto in pensione
I borseggiatori, detti anche “scarpari” (“scarperia” la tipologia) ritengono di avere sangue blu e guardano dall’alto in basso le altre razze, anche se per motivi d’interesse a volte sono costretti a bazzicarle. La categoria è stata raccontata in un film, protagonista James Coburn. Nei mezzanini della metropolitana ogni tanto sono appesi cartelli che segnalano ai viaggiatori la presenza dei “topi”. Questi i tempi di una volta, non certo da rimpiangere. Oggi si è aggiunta la malavita d’importazione, molto più agguerrita, i colpi si sono moltiplicati e la gente è disperata, esce di casa temendo non sapendo se al rientro avrà una sorpresa amara; è costretta quasi a barricarsi, a mettere inferriate sui balconi, porte blindate; installare sistemi di allarme, telecamere, che qualche volta vengono neutralizzati, perché l’audacia e l’abilità del ladro specializzato è al di là di ogni immaginazione. Polizia e carabinieri ce la mettono tutta, ma non si possono pattugliare tutti gli edifici e tutti i negozi di una città come Milano. Gli svaligiatori sono metodici, osservano gli orari in cui passano i metronotte e quelli dei nottambuli che abitano nei pressi, non lasciano niente al caso. Anni fa venne istituito il Cct, piano coordinato del territorio (le due forze vigilavano a turno gli obiettivi detti sensibili: oreficerie, banche, abitazioni appetibili…), ma a quanto pare il risultato fu deludente. La banda del buco non si arrese: attaccava le casseforti prendendole alle spalle da un locale attiguo; mentre quella della “gomma a terra” azzoppava l’auto di un signore che aveva appena prelevato in banca una grossa somma, osservato da uno della “batteria”, e mentre la vittima era piegata per riparare la ruota, la borsa con il denaro spariva. Fu imballata da Mario Nardone. Il furto è una violenza non soltanto alle cose; il “Vincenzo”, la vittima, subisce, oltre al danno, una lesione psicologica, non è più sicura, ritiene vulnerabile il luogo in cui vive. Ma il verme cattivo – recita un detto – non muore mai.











mercoledì 7 febbraio 2018

La storia dell’Angelo dei poupon



DOSOLINA DEI NAVIGLI UCCISA DAI TEDESCHI

MENTRE PORTAVA IN SALVO UN BIMBO EBREO


Il Ticinello sui francobolli di Aldo Cortina
Negli anni Sessanta molti giuravano di aver visto il suo fantasma. Oggi non se la ricorda quasi più nessuno.  Un medico prese male una curva, rischiando di finire nel naviglio, frenò per evitare d’investire una giovane donna in bici che gli sorrideva.  Uscì dall’auto per ringraziarla, ma lei fu inghiottita dalla nebbia fitta. Il professionista era uno dei tanti bimbi che le dovevano la vita?




 



Franco Presicci



Fu l’”Angelo dei poupon” ad attirarmi tanti anni fa sul Naviglio Grande, strada liquida che ha affascinato poeti, pittori, scultori, artigiani…Mi raccontarono la vicenda di questa giovane donna uccisa una notte da un colpo di fucile tedesco mentre portava in salvo in Svizzera un neonato ebreo, e andai sull’alzaia e sulla ripa per ascoltare quelli che giuravano di aver visto anni fa il suo fantasma aggirarsi sul piazzale della darsena, in vicolo dei Lavandai, in via Magolfa, in via Ascanio Sforza, lungo la quale scorre l’altro canale, quello che va, placido, a Pavia.
Il Ticinello 2
Volevo anche visitare, se ancora in piedi, la casa di Luisa, la proprietaria del magazzino di roba movimentata alla chetichella, che durante la guerra aveva dato lavoro all’Angelo, Dosolina dei Navigli. Che non era nata a Milano, ma a Vione, in provincia di Sondrio. A Milano era arrivata dopo aver abbandonato il lampione sotto il quale sostava in attesa di clienti per volere del marito: un forestiero che aveva incenerito i suoi sogni. Accolta da Luisa, sua compaesana, s’improvvisò contrabbandiera, favorita dai sorrisi che, bella e bionda, sapeva dispensare. Appena calava il buio Dosolina inforcava la bicicletta, una gerla pesante sulle spalle, e attraversando boschi, sentieri accidentati, saliscendi sfiorati dalla luna, quando c’era, e andava, veloce, attenta a non farsi scorgere dalle pattuglie nemiche.
Festa sul Naviglio


Traguardo, la Svizzera. Insomma, ogni notte Dosolina rischiava la vita trasportando merce necessaria alla sopravvivenza, Avvertiva l’abbaio rabbioso dei cani, qualche rumore sinistro, e il cuore le batteva sempre più forte: fino a quando non sentiva le voci amiche dei partigiani che intonavano “Bella ciao”: il messaggio che la rassicurava. La stessa ansia sulla via del ritorno: l’insidia poteva aspettarla dietro un albero, un cespuglio, un muro. Ma lei non desisteva. Quelli erano i tempi: gli orrori, la miseria, la paura dei rastrellamenti, delle deportazioni. Una notte, verso la primavera del ’44, alla porta di Luisa bussarono due orchestrali della Scala, ebrei polacchi, e la supplicarono di portare in salvo, in cambio di beni e di denaro, la loro creatura appena nata. Luisa accettò, e Dosolina fece del cesto una culla imbottita di panni di lana. Da allora niente più generi alimentari né armi; ma bimbi da sottrarre alla ferocia. Ogni viaggio uno. Finchè una notte, nei pressi della postazione dei partigiani, la creatura, avvolta in una copertina a fiorellini (violette), pianse, e un colpo di fucile colpì Dosolina a un fianco, senza farla crollare.




    
Ciclisti lungo il naviglio
A dispetto di un dolore forte, che aumentava a ogni pedalata, e delle energie che si esaurivano, la ragazza di Vione resistette fino alla frontiera, dove, compiuta la missione, cedette. Fu sepolta nel cimitero del suo paese, frazione di Mazza di Valtellina, 624 metri di altezza, una manciata di abitanti. con una cerimonia semplice. Quanti uomini devono a lei la vita? Ho ritrovato Dosolina in “Milano segreta” di Francesca Belotti e Gian Luca Margheriti; e ancora nelle pagine di       “Viole d’ombre” di Marilou Ceria, dove un medico, rientrando a casa dopo il turno di notte in ospedale, prese male una curva e frenando rischiò di finire nel Naviglio Grande, per non investire una bella ragazza dai capelli d’oro in bicicletta, comparsa improvvisamente.
Naviglio grande o Ticinello
Scese dall’auto per ringraziarla, ma lei, dopo averlo guardato sorridendo, fu inghiottita dalla nebbia fitta, lasciando un profumo di violette. Il medico rimase scosso, si confidò con un amico incredulo, poi con un altro; tornò nel luogo della visione, chiese in giro. Non si dava pace: quell’immagine era sempre davanti ai suoi occhi; gli toglieva il sonno. Entrò in un bar, si sfogò con una giovane bella e cordiale, figlia della titolare. Fraternizzarono, giorni dopo lei lo invitò a casa, pregandolo di darle una mano a mettere ordine nella soffitta. E lì, quasi per volontà del destino, spuntò un quaderno pieno di cifre intervallate da un racconto. Chi era l’autrice? Chiesero a Luisa, piangendo parlò dell’amica Dosolina, della sua attività, della sua ultima fatica, soffermandosi su quel bimbo, che era arrivato strillando alla sua porta e lo fece, secondo i partigiani, a poca distanza da loro, causando la reazione dei nazisti.
Cascina lungo il naviglio
Le lacrime di Luisa bagnarono il diario, mentre si faceva largo il sospetto che fosse proprio il medico il marmocchio della tragica spedizione. Sul diario erano indicate due lettere: D. W e una data. “Ma sono le mie iniziali - esclamò il professionista - e sono nato e cresciuto in Svizzera. Sono io quel bimbo!”. Dosolina usava scrivere le iniziali e il giorno dell’affidamento del bimbo. La storia mi commosse. Pensai spesso, sia pure con diffidenza per un tratto del seguito, a Dosolina. Ne parlai una sera a cena con una insegnante di lettere interessata a saperne di più. Mi propose di andare insieme sul Naviglio alla ricerca della casa di Luisa e di eventuali conoscenti o amici della ragazza di Vione. Poi l’insegnante partì per la Calabria e affrontai l’impresa da solo. M’imbattei in gente venuta da poco ad abitare sul Naviglio e quindi di Dosolina sapeva nulla.
Guido Pertuzzi
Gigi Pedroli
In vicolo dei Lavandai trovai il pittore Guido Bertuzzi seduto sotto la tettoia, che è monumento nazionale, lo interpellai, ma lui aveva solo sentito, negli anni 60, di persone che giuravano di aver visto il fantasma di Dosolina. La voce al Carletto, indicato scherzosamente come il sindaco del vicolo, per la cura che aveva del ricciolino d’acqua in cui a suo tempo le donne lavavano i panni, prendendo la lisciva da Elvira Radice, una signora che aveva 90 anni all’epoca in cui la incontrai la prima volta. Mi confermò le risposte del pittore, ma non potè andare oltre. Gigi Pedroli, grande acquafortista e appassionato cantautore (“El pitur”, “El barbun”, “Vegia osteria”, “El cartunist”…), uno degli ultimi artisti rimasti sul Naviglio, mi disse che se fosse ancora vivo Armando Brocchieri (il poeta che definiva il vicolo “una chiesa di pittori”, forse avrebbe potuto soddisfare la mia domanda.
“Io ero un bambino”. Rinunciai, anche perché il rifugio di Dosolina, casa e magazzino di Luisa, era forse stato fagocitato dal cemento armato. Molti mi parlavano di questa Montemartre milanese, dove Gino Cervi aveva girato alcune scene di una serie tivù nei panni del commissario Maigret; dello sceneggiato televisivo interpretato da Ottavia Piccolo. Ma non dell’argomento che mi stava a cuore.
Il Ticinello
Una donna avanti negli anni, bassa, pienotta, argentata, occhi neri come il carbone, frettolosa, avvicinata a due passi dal “pont de preja”, mi rispose: “Non mi crederà, ma io ho visto una luce abbagliante in una cornice dorata, lì, all’altezza dell’officina del fabbro e ho sentito un profumo di violette. Non ne parlo con nessuno, per il timore di essere presa in giro. E so che altri hanno visto il fantasma di una ragazza splendente che sorrideva”. Una storia che si svolge tra realtà e inverosimiglianza. Eppure i milanesi non amano gli spiriti e le loro passeggiate: con tutta la gente che, accusata di malefatte e di stregoneria, fu uccisa nei secoli scorsi in piazza Vetra, gli ectoplasmi dovrebbero essere una popolazione numerosa. Domenico Porzio ha scritto che a Milano gli esseri immateriali non hanno diritto di cittadinanza. Essi stessi non ci abiterebbero volentieri. Le anime dei defunti riposano nei cimiteri e non hanno voglia di vagabondare di giorno o di notte. Si mettano il cuore in pace quelli che ancora hanno memoria dello spettro di piazza Maggi, o della nuova sembianza di un tale morto nel manicomio della Senavra; o della dama nera che si appostava al Parco Sempione per adescare i giovanotti, che dopo l’amplesso fuggivano per il terrore, scoprendo che sotto il velo c’era un teschio.