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mercoledì 24 aprile 2024

E’ partita da piazza del Duomo

LA MARATONA DELLA SOLIDARIETA’ TRA LA GIOIA DI GIOVANI E ANZIANI





Migliaia di concorrenti e fitte ali di popolo. Una signora di 60 anni in carrozzella,
perché affetta da clerosi multipla, vanta la presenza in manifestazioni sportive in ogni parte del mondo. Molti i partecipanti provenienti da altre regioni.













FRANCO PRESICCI


Il cuore grande
Non era la Stramilano: non sgambavano 50mila concorrenti e altre migliaia sui marciapiedi oltre le transenne. Ma il numero conta poco. Anche se alla maratona corsa qualche domenica fa a Milano, partenza da corso Vittorio Emanuele sotto le guglie del Duomo, il fiume umano era alquanto lungo e largo. Con i suoi colori e la sua allegria, i sorrisi e gli urli di entusiasmo. La compagnia, lo stare insieme con spensieratezza fa bene allo spirito e correre rinforza la salute. La gente ha bisogno di muovere le gambe, soprattutto in gruppo tra la folla scatenata, scambiandosi abbracci, saluti, evviva, con il passo delle scampagnate, soltanto alcuni quasi volando per arrivare almeno tra i primi al traguardo.
Come in una scampagnata

C’è chi si è alzato all’alba per andare a godersi la fioritura dei concorrenti, il loro aggrupparsi, la formazione della fila e poi della moltitudine e poi il momento del via, sempre esaltante, senza infrangere gli argini tempo prima, cedendo al fremito della partenza. “Tutti insieme, qua e là mano nella mano, lì calati in un involucro da mostro, divertente, originale, come altri camuffamenti in queste occasioni, dove ciascuno diventa un altro, guidando un velocipede, una carrozzina spinta da un amico, da un parente, avvolto in una bandiera, con un cappuccio in testa, come in tutte le Stramilano e in altre galoppate.
Ragazze e ragazzi, innamorati, amici, vicini di casa, conoscenti, indigeni e stranieri, si sono ritrovati in piazza, provenendo da ogni regione, “veci” e giovanotti, con pettorali o senza, alpini e bersaglieri, lanciati alla conquista della città, indifferenti alla protesta degli automobilisti, costretti alla sosta dal passaggio festoso del nastro che si snodava, qua veloce, là a passo breve per godere di più e meglio la giornata. “Correte, la corsa vi rinsalda, correte siete i padroni della strada”, urlava un centauro, forse preso dal desiderio d’intrupparsi. E applaudiva da spellarsi le mani. “Che bello, mi sono levata alle 6.30 per essere tra le prime in piazza Duomo”, diceva una signora ad alcune amiche in fila. “Questa giornata è irripetibile, va vissuta in pieno”. “Vero, stanno tanto tempo seduti in ufficio, in casa, davanti al televisore, ma quando c’è da sfrenarsi ‘en plein aire’, facciamolo, tra mille sorrisi. Evviva”., si sgolava un’altra. E i sorrisi trionfavano sui volti di grandi e piccini, tutti verso la meta, non per essere primi. ”Esultate, ragazzi, esultate”, urlava un ottantenne fuori misura con i baffi alla Poirot, che navigava quasi isolato. “Attraversiamo tempi burrascosi – un’altra signora rivolgendosi alla vicina – e non sappiamo dove andremo a finire: la ‘Milano Marathon Charity Program 2024’ ci fa respirare, ingoiare il sole”. Non era il momento del pessimismo, nessuno in quell’esercito di pace, di serenità si preoccupava delle ambasce della vita quotidiana. Persino il nonnino canuto e arzillo, barbuto e un po’ increspato, applaudiva dal ciglio della strada.
Quintetto in piazza Duomo

I concorrenti procedevano a siepe o stragliati. Un quartetto di fanciulle cantavano e ballicchiavano, battendo le mani, belle, rosee, capelli sciolti e pronte per offrire i loro sorrisi da primavera al fotografo ingordo. Lungo il tragitto fitte ali di popolo festante, infervorato. Uno ha detto a un bambino: “Vedi quelli? Sono degli staffettisti; un trio con i pettorali, due uomini e una donna, bionda, con gli occhiali. “Sono gli scoppiati”. No, perché? Sono così simpatici, contenti, sereni, uno è baffuto, con gli occhiali, un po’ con il capo potato; lei è bionda, ha un sorriso comunicativo. Poi altri staffettisti, detti quelli delle 7, uomini e donne disposti per la foto di gruppo, quasi sotto un ombrellone. Altro gruppo con il megafono. Le voci arrivano fino alla Madonnina, in cima alla cattedrale, ma anche più lontano: voci di esultanza.

Un gruppo di partecipanti

“Peccato duri soltanto un giorno, questa sana baldoria, che coinvolge tutti e non dovrebbe finire mai. Andando a passo lento alcune signore commentavano la manifestazione, che, dato il successo, sicuramente avrà un seguito. “Sono appassionata delle marce – commentava una signora atletica sui cinquanta – ne ho fatte tante, compresa la Stramilano e ‘Andemm al Domm”. E ho un sogno, quello di partecipare alla maratona di New York, che mi dicono appassionante. Ma non mi va di andare da sola”.
La Milano Relay Marathon è’ stata organizzata da RCS Sports & Events, insieme a Rete del Dono. “E’ un grande progetto di solidarietà che accompagna la competizione sportiva meneghina. Rete del Dono impegna la sua piattaforma di “crowdfunding”, per rendere ancora più capillare e personalizzata la raccolta fondi, oltre a supportare le ONP (associazioni e fondazioni del terzo settore” e i runner nella fase di pianificazione delle attività legate alla stessa maratona”).
Staffette

In un comunicato è scritto che questa corsa permette di dividere il percorso ufficiale in quattro frazioni di lunghezza compresa fra i 6,5 e i 13 chilometri ciascuna. Questa edizione è stata un successo,: grandissima partecipazione di concorrenti e di pubblico; e grazie al suo intento, di esaltare la bellezza di Milano, “è diventato il secondo evento d’Europa per raccolta fondi”, La solidarietà ha le gambe solide. Pochi si tirano indietro, quando si tratta di andare incontro a chi ha bisogno di una mano. “Per il primo anno - aggiunge il comunicato - l’Associazione Aiutiamoli ODV, impegnata nella salute mentale con un gruppo di psicologi, psichiatri, operatori e volontari, ha partecipato alla Milano Relay Marathon con sette staffette, che hanno deciso di sostenere il progetto dell’Associazione ‘Chiedi Aiuto, non sei solo’”.
Tra l'ingresso della Galleria e il Duomo


Nessuno dovrebbe essere lasciato solo: Tutti dovrebbero poter trovare un appoggio per risollevarsi, rinascere. L’indifferenza è un peccato. Aprire la porta all’altro è anche un dovere. Si auspica che questa gara della solidarietà continui, abbia sempre più simpatizzanti, orgogliosi d’indossare il pettorale; di trovare sempre più compattezza.
E’ una soddisfazione anche vedere tante persone che sfilano con gaudio nella vie della città, da molti vantata per la sua bellezza, magari nascosta, pudìca, custodita con cura. Il corridore viene da Bologna o persino da Taranto o da Catania per dare leggerezza alle gambe, ma coglie anche l’occasione, se gli resta tempo, di dare uno sguardo alla città. Come quel vecchio alpino che a 90 anni sognava ancora la Stramilano, come la sognava a 87 Samuele Jannuzzi, già dipendente delle Poste, dov’era considerato uno Speedy Gonzales, per la rapidità con cui trattava la corrispondenza. Era di Molfetta ed era nato correndo. Aveva partecipato alla prima maratona, che partiva da viale Zara e non dal Duomo. La corsa bene, di più se porta con sé un messaggio: di pace, di amicizia, di generosità.

mercoledì 17 aprile 2024

I giorni della seconda guerra mondiale

 LI AVEVAMO QUASI DIMENTICATI MA RIECCO I RUMORI SPAVENTOSI






I disastri, i drammi, il dolore, il terrore raccontati in un volume appena uscito di Vincenzo Di Michele.
Si è  ripresentato il ricordo delle bombe su Roma, Milano, Taranto, Pescara, Palermo... Le atomiche 
su Nagasaki e Hiroshima. “Homo homini lupus”.


















FRANCO PRESICCI




Vincenzo Michele in controcopertina 
La guerra non è un’avventura, come qualcuno ha sentenziato. Non è un’esperienza di vita.
La guerra sconvolge uomini e paesi, li incenerisce, li annienta. La guerra lascia ferite, drammi, traumi che non si dimenticano mai. Il tuono delle bombe, il sibilo delle sirene, le corse ai rifugi antiaerei, le maschere antigas per i capi fabbricato, i pali messi a sostenere i soffitti dei pianterreni per evitare che un ordigno li faccia sprofondare, la paura, il terrore, gli urli delle mamme, i pianti dei bambini, il coprifuoco, le tessere annonarie, le fucilate contro persone innocue, gli stupri.
Sentii dire che la guerra ha una funzione economica, anche perché disincrementa le nascite e assottiglia le popolazioni. Cinismo, disumanità, ignoranza, e magari interessi nascosti in chi durante la guerra fa lievitare il conto in banca.
Ho novant’anni e negli anni della guerra ero in grado di assimilare ciò che stava succedendo. Con i miei familiari ero sfollato a Martina Franca, dove arrivavano le voci dei disastri. E dal piazzale del trullo la notte potevamo vedere l’orizzonte che s’infiammava. Lì c’era Taranto. Da bambini ci dicevano: arrivano gli americani, i liberatori, chissà se passeranno da qui; e se lo fanno che cosa sarà di noi? Sarà un bene o un male? I tedeschi, passati da alleati a nemici, evacuavano, facendo altre distruzioni, altri morti, altri feriti, provocando altre tragedie: per dispetto, per rabbia, per crudeltà.
Gli americani ci “regalarono” prima le bombe, poi le chewing gum, la cioccolata, le sigarette Lucky Strike, il boogy woogie. Alcuni sposarono le nostre donne, altri le lasciarono spegnendo in loro il sogno americano, altre vennero stuprate e lasciate sulla strada. Ricordo la borsa nera, il pane razionato, gli ordigni atomici su Nagasakj e Hiroshima… Terminato il conflitto, la gente sentì il bisogno di distrarsi, di dimenticare, di disperdere l’angoscia, affollando le balere. Dimenticò davvero?
Poi abbiamo vissuto quasi 80 anni di pace, con l’illusione che mai più l’uomo avrebbe perduto i lumi della ragione. E invece ci ritroviamo nell’inferno con l’Ucraina quasi rasa al suolo e la striscia di Gaza infiammata, con la tregua che balugina tra un giorno e l’altro, insanguinati. La televisione manda immagini terrificanti: palazzi crollati, sventrati, scheletri di cemento, gigantesche macerie che seppelliscono migliaia di vittime che i superstiti bagnano di lacrime. Ci domandiamo con paura: E se questa follia coinvolge altri Paesi? E se un potente fuori di testa, andando oltre le minacce, decide di sganciare davvero la bomba atomica? Sarebbe l’apocalisse.
L’uomo dissolve ciò che tocca. Chi odia la guerra e chi la teme sono impotenti, indignati, terrorizzati, disgustati nel vedere chi ordina la distruzione di massa sorridere davanti alle telecamere fra le mimose, simbolo di delicatezza, virtù delle donne, di riscatto da una condizione di ingiusta inferiorità. Che c’entra con la mimosa l’uomo che annulla un Paese con disumana freddezza? E gli altri? Hanno le loro colpe.
La galleria Vittorio Emanuele

L’abbiamo già vissuta, dunque, la guerra in casa: non vorremmo che proseguisse, sconfinasse, accrescendo i lutti e il dolore. Immagino la sorpresa di Arrigo Benedetti quando entrò a Tombolo e incontrò i contadini che si tenevano lontano dai campi che erano stati minati; e nelle baracche degli Alleati erano ammonticchiati farina, birra in scatola, pizza preconfezionata, zucchero… Curzio Malaparte, futuro autore de “La Pelle” (uscirà nel ‘49), descrisse i drammi di Napoli tra “segnorine” e sciuscia, fame, miseria, disastri, tormenti, una città meravigliosa, quasi unica, sconvolta. A Livorno, e non solo, i tedeschi disseminarono le strade di penne stilografiche e altri oggetti trasformati in ordigni che strapparono dita o mani o gambe, la vita a chi ebbe l’imprudenza di toccarli. La malvagità fatta persona. Oltre a Napoli, Palermo, Roma, Pescara, Livorno.... bombardate. A Milano la pioggia di fuoco mutilò la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, piazza San Fedele, demolì una scuola elementare a Greco. Ricordi non in ordine di data, ma lancinanti.
A scatenare la memoria non sono stati soltanto i conflitti in Ucraina e nella striscia di Gaza, ma anche un libro di Vincenzo Di Michele intitolato “Le scomode verità nascoste nella seconda guerra mondiale”, interessante, stile limpido, scorrevole. Di verità nascoste ce ne sono state tante. Un esempio? Le foibe. Occultate per anni. Migliaia di corpi gettati negli anfratti, nelle grotte per sottrarli alla scoperta. Quante donne sono state violentate nella seconda guerra mondiale, in casa, in strada, ovunque. Quanti soprusi sono stati perpetrati contro le donne, ridotte allo stato di schiave anche nei posti di lavoro. Quanti uomini ridotti a scheletri nei campi di concentramento?
Piazza San Fedele

“Sul fronte orientale i tedeschi violentarono le donne russe, mentre in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito… La Germania era totalmente distrutta e in una situazione di grave indigenza”. Pagine crude, senza voli stilistici: si inoltrano nei crimini nazisti, negli orrori dei campi di concentramento, dove la vita non aveva alcun valore, dove l’annientamento di massa era fatto sistematicamente: una vita si trasformava in fumo che usciva dai comignoli dei forni crematori. “Tu passerai per il camino”. E migliaia di esseri umani ci passarono. Di Michele dà spazio ai racconti delle donne ebree che sono riuscite a salvarsi dai campi recintati col fil di ferro spinato, con ferite sul corpo e nell’anima che non si cancelleranno più. Pagine ansiogene: “Avrei voluto essere un cane, perché ai nazisti piacevano i cani… i tedeschi non avevano una coscienza o un barlume di ragione… Consideravano subumani i prigionieri: tutti esseri deboli, fisicamente tarati e sempre con le mani alzate in segno di resa, perennemente propensi alla sconfitta e al pianto.... Nel loro comportamento squilibrato i soldati di Hitler non facevano altro che infliggere violenze e umiliazioni… aizzavano i cani che mordevano i genitali agli uomini e il seno alle donne. A seguire premiavano queste bestie con carezze e coccole in maniera smisurata”. E ancora: Uomini e donne per la fame e le scudisciate erano scheletri con gli occhi infossati. Uomini e donne, persone, certi di non sopravvivere fino al giorno dopo. I racconti di chi c e l’ha fatta sono tremendi. Umiliante è il numero che portano ancora sul braccio: numero che sta a testimoniare la condizione in cui erano ridotti: un numero e basta. SeLa guerra non è un’avventura, come qualcuno ha sentenziato. Non è un’esperienza di vita. La guerra sconvolge uomini e paesi, li incenerisce, li annienta. La guerra lascia ferite, drammi, traumi che non si dimenticano mai. Il tuono delle bombe, il sibilo delle sirene, le corse ai rifugi antiaerei, le maschere antigas per i capi fabbricato, i pali messi a sostenere i soffitti dei pianterreni per evitare che un ordigno li faccia sprofondare, la paura, il terrore, gli urli delle mamme, i pianti dei bambini, il coprifuoco, le tessere annonarie, le fucilate contro persone innocue, gli stupri.
La Scala

Sentii dire che la guerra ha una funzione economica, anche perché disincrementa le nascite e assottiglia le popolazioni. Cinismo, disumanità, ignoranza, e magari interessi nascosti in chi durante la guerra fa lievitare il conto in banca.
Ho novant’anni e negli anni della guerra ero in grado di assimilare ciò che stava succedendo. Con i miei familiari ero sfollato a Martina Franca, dove arrivavano le voci dei disastri. E dal piazzale del trullo la notte potevamo vedere l’orizzonte che s’infiammava. Lì c’era Taranto. Da bambini ci dicevano: arrivano gli americani, i liberatori, chissà se passeranno da qui; e se lo fanno che cosa sarà di noi? Sarà un bene o un male? I tedeschi, passati da alleati a nemici, evacuavano, facendo altre distruzioni, altri morti, altri feriti, provocando altre tragedie: per dispetto, per rabbia, per crudeltà.
Gli americani ci “regalarono” prima le bombe, poi le chewing gum, la cioccolata, le sigarette Lucky Strike, il boogy woogie. Alcuni sposarono le nostre donne, altri le lasciarono spegnendo in loro il sogno americano, altre vennero stuprate e lasciate sulla strada. Ricordo la borsa nera, il pane razionato, gli ordigni atomici su Nagasakj e Hiroshima… Terminato il conflitto, la gente sentì il bisogno di distrarsi, di dimenticare, di disperdere l’angoscia, affollando le balere. Dimenticò davvero?
Poi abbiamo vissuto quasi 80 anni di pace, con l’illusione che mai più l’uomo avrebbe perduto i lumi della ragione. E invece ci ritroviamo nell’inferno con l’Ucraina quasi rasa al suolo e la striscia di Gaza infiammata, con la tregua che balugina tra un giorno e l’altro, insanguinati. La televisione manda immagini terrificanti: palazzi crollati, sventrati, scheletri di cemento, gigantesche macerie che seppelliscono migliaia di vittime che i superstiti bagnano di lacrime. Ci domandiamo con paura: E se questa follia coinvolge altri Paesi? E se un potente fuori di testa, andando oltre le minacce, decide di sganciare davvero la bomba atomica? Sarebbe l’apocalisse.
L’uomo dissolve ciò che tocca. Chi odia la guerra e chi la teme sono impotenti, indignati, terrorizzati, disgustati nel vedere chi ordina la distruzione di massa sorridere davanti alle telecamere fra le mimose, simbolo di delicatezza, virtù delle donne, di riscatto da una condizione di ingiusta inferiorità. Che c’entra con la mimosa l’uomo che annulla un Paese con disumana freddezza? E gli altri? Hanno le loro colpe.
L’abbiamo già vissuta, dunque, la guerra in casa: non vorremmo che proseguisse, sconfinasse, accrescendo i lutti e il dolore. Immagino la sorpresa di Arrigo Benedetti quando entrò a Tombolo e incontrò i contadini che si tenevano lontano dai campi che erano stati minati; e nelle baracche degli Alleati erano ammonticchiati farina, birra in scatola, pizza preconfezionata, zucchero… Curzio Malaparte, futuro autore de “La Pelle” (uscirà nel ‘49), descrisse i drammi di Napoli tra “segnorine” e sciuscia, fame, miseria, disastri, tormenti, una città meravigliosa, quasi unica, sconvolta. A Livorno, e non solo, i tedeschi disseminarono le strade di penne stilografiche e altri oggetti trasformati in ordigni che strapparono dita o mani o gambe, la vita a chi ebbe l’imprudenza di toccarli. La malvagità fatta persona. Oltre a Napoli, Palermo, Roma, Pescara, Livorno.... bombardate. A Milano la pioggia di fuoco mutilò la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, piazza San Fedele, demolì una scuola elementare a Greco. Ricordi non in ordine di data, ma lancinanti.
A scatenare la memoria non sono stati soltanto i conflitti in Ucraina e nella striscia di Gaza, ma anche un libro di Vincenzo Di Michele intitolato “Le scomode verità nascoste nella seconda guerra mondiale”, interessante, stile limpido, scorrevole. Di verità nascoste ce ne sono state tante. Un esempio? Le foibe. Occultate per anni. Migliaia di corpi gettati negli anfratti, nelle grotte per sottrarli alla scoperta. Quante donne sono state violentate nella seconda guerra mondiale, in casa, in strada, ovunque. Quanti soprusi sono stati perpetrati contro le donne, ridotte allo stato di schiave anche nei posti di lavoro. Quanti uomini ridotti a scheletri nei campi di concentramento?
“Sul fronte orientale i tedeschi violentarono le donne russe, mentre in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito… La Germania era totalmente distrutta e in una situazione di grave indigenza”. Pagine crude, senza voli stilistici: si inoltrano nei crimini nazisti, negli orrori dei campi di concentramento, dove la vita non aveva alcun valore, dove l’annientamento di massa era fatto sistematicamente: una vita si trasformava in fumo che usciva dai comignoli dei forni crematori. “Tu passerai per il camino”. E migliaia di esseri umani ci passarono. Di Michele dà spazio ai racconti delle donne ebree che sono riuscite a salvarsi dai campi recintati col fil di ferro spinato, con ferite sul corpo e nell’anima che non si cancelleranno più. Pagine ansiogene: “Avrei voluto essere un cane, perché ai nazisti piacevano i cani… i tedeschi non avevano una coscienza o un barlume di ragione… Consideravano subumani i prigionieri: tutti esseri deboli, fisicamente tarati e sempre con le mani alzate in segno di resa, perennemente propensi alla sconfitta e al pianto.... Nel loro comportamento squilibrato i soldati di Hitler non facevano altro che infliggere violenze e umiliazioni… aizzavano i cani che mordevano i genitali agli uomini e il seno alle donne. A seguire premiavano queste bestie con carezze e coccole in maniera smisurata”. E ancora: Uomini e donne per la fame e le scudisciate erano scheletri con gli occhi infossati. Uomini e donne, persone, certi di non sopravvivere fino al giorno dopo. I racconti di chi c e l’ha fatta sono tremendi. Umiliante è il numero che portano ancora sul braccio: numero che sta a testimoniare la condizione in cui erano ridotti: un numero e basta. Senza un nome. Senza più una storia. Fantasmi in cammino, chi aveva ancora la forza di muovere le gambe per fare un passo.
Alla fine della guerra, davanti ai tribunali i responsabili di questi crimini si difesero dicendo che avevano obbedito agli ordini. Questo li assolve? Kappler fuggì dal Celio, un giorno di agosto. Forse raggomitolato in una valigia? L’ipotesi s’impose. Ma chi fu complice della fuga?. Erich Priebke anche dinanzi al tribunale mantenne la sua boria senza allentarla un momento, sicuro di aver fatto il suo dovere. Così quando lo si vedeva comparire sul piccolo schermo. Chi è stato complice delle fughe dei nazisti che dovevano rendere conto delle loro azioni? Di Michele risponde senza esitazioni, senza dubbi. C’è un uomo – ricorda ancora l’autore - che tenacemente, instancabilmente, cercò ovunque i criminali nazisti, acciuffandone non pochi. Si chiamava Simon Wiesenthal, ed era stato liberato dagli alleati nel maggio del ‘45 dal campo di sterminio di Mauthausen. Di Michele incalza. Episodio dopo episodio, storia dopo storia. Compresa quella della scomparsa di Ettore Majorana, il fisico scomparso la sera del 25 marzo ‘38, a 31 anni. Era molto stimato da Enrico Fermi, che scrisse al duce per sollecitarne la ricerca.
ll libro contiene anche una serie di immagini, tra cui quelle terribili delle bombe su Hiroshima (il 6 agosto) e su Nagasaki (il 9) del 1945. Scorrono anche quelle di Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio all’Istituto di Fisica e Chimica di Parigi, e tante scene delle brutalità della guerra. Ce n’è abbastanza. Speriamo di non vedere più affisso sui muri il manifesto con la scritta “Tacete, il nemico vi ascolta”. E speriamo di non vedere più nemmeno la foto della donna anziana vestita di nero che si aggira tra le macerie del suo paese.nza un nome. Senza più una storia. Fantasmi in cammino, chi aveva ancora la forza di muovere le gambe per fare un passo.
Pagina interna del libro

Alla fine della guerra, davanti ai tribunali i responsabili di questi crimini si difesero dicendo che avevano obbedito agli ordini. Questo li assolve? Kappler fuggì dal Celio, un giorno di agosto. Forse raggomitolato in una valigia? L’ipotesi s’impose. Ma chi fu complice della fuga?. Erich Priebke anche dinanzi al tribunale mantenne la sua boria senza allentarla un momento, sicuro di aver fatto il suo dovere. Così quando lo si vedeva comparire sul piccolo schermo. Chi è stato complice delle fughe dei nazisti che dovevano rendere conto delle loro azioni? Di Michele risponde senza esitazioni, senza dubbi. C’è un uomo – ricorda ancora l’autore - che tenacemente, instancabilmente, cercò ovunque i criminali nazisti, acciuffandone non pochi. Si chiamava Simon Wiesenthal, ed era stato liberato dagli alleati nel maggio del ‘45 dal campo di sterminio di Mauthausen. Di Michele incalza. Episodio dopo episodio, storia dopo storia. Compresa quella della scomparsa di Ettore Majorana, il fisico scomparso la sera del 25 marzo ‘38, a 31 anni. Era molto stimato da Enrico Fermi, che scrisse al duce per sollecitarne la ricerca.
ll libro contiene anche una serie di immagini, tra cui quelle terribili delle bombe su Hiroshima (il 6 agosto) e su Nagasaki (il 9) del 1945. Scorrono anche quelle di Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio all’Istituto di Fisica e Chimica di Parigi, e tante scene delle brutalità della guerra. Ce n’è abbastanza. Speriamo di non vedere più affisso sui muri il manifesto con la scritta “Tacete, il nemico vi ascolta”. E speriamo di non vedere più nemmeno la foto della donna anziana vestita di nero che si aggira tra le macerie del suo paese.

mercoledì 10 aprile 2024

Facendo due passi ti arricchisci




A MILANO OGNI STRADA
UN BRICIOLO DI CULTURA



Caffè Biffi in Galleria Vittorio Emanuele
In corso Venezia si ammira il
palazzo Castiglioni, del 1901,
costruito in stile Liberty: in via
degli Omenoni, cariatidi enormi
incastonate nell’architettura. Le
cascine, i Caffè, i monumenti.



 
 
 
 
 
 
 
Franco Presicci

Non si contano le strade che a Milano raccontano condensati di storia. Tantissimi anni fa Raffaele Bagnoli li raccolse in cinque volumi, allineando arterie e percorsi di periferia, da via Cesare Correnti alla via Cascina Barocco, detta così perchè a suo tempo conteneva tante strutture rurali, in massima parte scomparse, lasciando il ricordo sulle targhe di marmo incassate negli angoli, in alto.
Il Savini in Galleria

Sono passati molti anni da quando per motivi di lavoro entrai in via Cascina Barocco, all’estremo limite della città: il titolare di un’officina meccanica della zona, portando una sera a spasso il cane, su uno spazio spettinato con mucchi di rifiuti notò una grossa bambola che bruciava; al ritorno guardò meglio e si accorse che era il corpo di una donna., probabilmente uccisa altrove e gettata lì come un sacco di juta. Arrivai verso le 22 e cercai di mietere il maggior numero possibile di particolari sull’accaduto e non badai ad informarmi sull’origine del nome di quella specie di sentiero. Mi proposi di farlo in un momento più tranquillo. Da tempo m’impegnavo nella lettura di “Strade di Milano” di Bagnoli, scrittore prolifico e avvincente, che faceva parte della Famiglia Meneghina. Quei cinque volumi erano una sorta di pozzo di san Patrizio di informazioni sulle vie, le loro caratteristiche, la storia, le curiosità, le preziosità architettoniche, le trasformazioni subite, le demolizioni, che hanno riguardato anche le cascine.

Il piccone, per fare spazio a edifici moderni, ha inferto li suoi colpi, per esempio, alla Cascina Merlata, dove, nei boschi, durante la dominazione spagnola, imperversavano i briganti, i cui capi, Giacomo Leporino e Battista Scorlino, vennero poi catturati e condannati alla forca.
Piazza Cavour

Non tutte le strutture rurali hanno fatto la stessa fine: ecco la Cascina Bellaria e la Cascina dei Pomi, questa in via Melchiorre Gioia, a qualche metro di distanza dal punto in cui la Martesana smette di scorrere allo scoperto e si tuffa in un lungo tunnel. Resiste il fabbricato, sia pure pieno di rughe, dove una volta i milanesi andavano a riposarsi e a rifocillarsi, quando facevano le loro gite fuori porta o per recarsi a Monza a piedi, in carrozza, in bicicletta o con i barchetti. C’è stato anche Carlo Porta, di cui sono noti i brindisi.

In via Cesare Corrente, nome di un personaggio che nato a Messina e trasferitosi a Milano nel 1811, prese casa in via della Spiga, alimentò le riunioni segrete che si conclusero con i moti del ‘48; inviò un proclama che sollecitava il governo austriaco a prendere decisioni liberali.
via Della Spiga

Nominato senatore nell’86, ebbe anche incarichi ministeriali. In questa via sorgeva la Pusterla dei Fabbri, che dava ispirazione a molti pittori. Sull’arco campeggiava una scultura che si pensava rappresentasse il dio protettore dei nubendi, e per questo gli veniva tributato omaggio dagli sposi. La decisione di cancellare dal tessuto urbano la Pusterla scatenò molte proteste in Consiglio comunale, ma il destino era ormai segnato e ai primi del 900 venne abbattuta.

Milano ha sempre avuto il bisogno di rinnovarsi, nel bene e nel male. Come oggi tante belle donne si sottopongono a interventi chirurgici, qualche volte addirittura dannosi, nell’ansia di correggersi il naso o le labbra…

A volte la ruspa è stata necessaria, per eliminare qualche bruttezza, come il Bottonuto, via squallida e malfamata, in cui tra l’altro si esercitavano affari di sesso.
Via Dante
La città – affermava Carlo Romussi in “Milano che sfugge” del 1899 … è famosa per le sue vie: il sindaco Belinzaghi soleva anzi dire a questo proposito che al proverbio di raddrizzar le gambe ai cani si poteva sostituire quello di raddrizzar le vie di Milano. Ma è la nostra storia che vuol così: perché Milano tante volte distrutta risorse sempre dalle rovine…”. . Anche Vittore e Claudio Buzzi hanno scritto un bel libro, “Le vie di Milano”, molto interessante, perché racconta le vie, la loro storia, i personaggi che hanno dato lustro alla città, la vita quotidiana, i mestieri che si esercitavano.... Piazza Vetra, a Porta Ticinese, per esempio, è famosa perché in essa venivano giustiziati i condannati che non appartenevano alla nobiltà; via dei Fontanili prende il nome dalle sorgenti di acqua di falda che irrorava i campi; via Della Spiga, che va da corso Venezia in via Manzoni, si chiama così per un’antica insegna a forma di spiga di un’osteria; piazza Belgioioso, celebrata per la sua armonia come la piazza più bella di Milano, ricorda i sospiri d’amore di Stendhal per Matilde Dembowscki Viscontini; corso San Gottardo (da piazza XXIV Maggio a via Meda), le cui case hanno cortili simili a vicoli che sfociano in via Ascanio Sforza, lungo il Naviglio Pavese, viene ricordato come luogo in cui ai primi del ‘900 si custodivano 200.000 “ruote” di formaggio (“Ghe n’è de forma tonda/ quadra e guzza/ Che n’è che sa de bon/ ghe n’è che spuzza...” .
Piazza Belgioioso

Queste pagine sono un racconto lunghissimo, che comprende i monumenti, le chiese, le attività commerciali, i caffè, dove non si beveva soltanto, ma si trascorrevano ore di spensieratezza, conversando, facendo pettegolezzi, discutendo a volte in modo acceso dei fatti accaduti, di politica, di costume, argomenti che calamitavano gruppi di avventori di ogni lignaggio. “La Ca’ de la comaa” apparteneva a una non meglio identificata Caterina de Padroni, che vendeva paglia e fieno ai proprietari di quadrupedi, ma faceva anche la levatrice. Forse perché stanca di fare l’uno e l’altro mestiere, anziché escluderne uno cedette il locale ad Antonio Cova, che dette al locale ben altra dignità e brillantezza, attirando una clientela di altissimo iivello anche per il suo panettone speciale e i gelati insuperabili.

Caffè, teatri, signorili luoghi di ritrovo. Ecco il Caffè Teatro della Scala, frequentato da artisti e uomini politici; il “Gambrinus” in Galleria; il Caffè Greco, di fronte al Duomo, meta di Petro Verri; il Caffè Campari, aperto in Galleria Vittorio Emanuele; il Caffè dell’Accademia, luogo di riunione di critici musicali e artisti; il Caffè dei Servi nell’omonima corsia; il Caffè del Duomo, dai milanesi denominato Caffè dei muti, perchè le parole non dovevano distrarre i lettori di giornali.

I Caffè possiamo ammirarli anche nell’arte. In principio erano aristocratici, poi divennero borghesi e infine proletari. Tutte le città più importanti, Napoli, Torino, Roma, oltre a Milano, hanno avuto i loro Caffè famosi, frequentati da celebrità, dalla Callas a Toscanini, da D’Annunzio a Eduardo De Filippo a Totò.

E’ lunghissima la serie dei Caffè di Milano, ognuno con le sue vicende. Al “Caffè dei Pompieri”, secondo gli esperti, nacque la famosa “Barbaiata”, inventata dal proprietario, che si chiamava appunto Barbaia.

Andrei ancora oggi, potendo, in giro per Milano con il naso all’in su per leggere i contenuti delle targhe e scoprire per esempio che via Della Palla, nei pressi di via Torino, fu battezzata con questo nome, perché a quanto parte vi si praticava un gioco molto in voga nel XVI secolo; che in via degli Armorari, la figlia di un artigiano si vedeva uscire dalla casa di un feudatario, che la sedusse e l’abbandonò togliendole la figlia e lasciandola a piangere e cantare “vezzeggiando” una bambola; (parola di Romussi); che via Olmetto faceva parte di un’antica contrada in cui sorgeva un olmo secolare; che via Caminadella fu battezzata così per un’abitazione munita di camino, allora privilegio esclusivo e diventato comune nel XIII secolo.
Corso Venezia

In corso Venezia si possono ammirare facciate di palazzi affascinanti in stile Liberty, come quella di palazzo Castiglioni; via Sant’Andrea come altre arterie vanta magnifici cortili con aiuole policrome, semiarchi, fontane, sculture, pozzi... Ed ecco via degli Omenoni, nei pressi di piazza Belgioioso, così denominata per le grandi cariatidi, giganti incastonati nell’architettura di uno stabile, costruito dall’artista Leoni Leone ((1509-1590) e obiettivo dei fogli satirici dell’800, che li immaginavano in divertenti colloqui con il “sciur Carera”, l’”omm de preja”, l’uomo di pietra, al quale venivano appiccicati le proteste, le polemiche, le indignazioni, gli sberleffi dei cittadino contro il potere: il Pasquino meneghino. Insomma a Milano ogni strada, a voler guardare bene e avendo tempo e voglia, contiene indicazioni che ci arricchiscono.






mercoledì 3 aprile 2024

Uno stimato personaggio pugliese

 IL BARESE PEPPINO STRIPPOLI DIMENTICATO RE DEL VINO





Peppino Strippoli
Negli anni Cinquanta-Sessanta a Milano aprì molti ristoranti: “’Ndèrre a la Lànze” il più noto. A Saronno il supermercato del vino, dove allestiva manifestazioni per celebrare il nettare che domina le tavole. Nato a Cerignola, tutti credevano fosse del capoluogo pugliese.














Franco Presicci



Fu il grande pittore Filippo Alto, barese doc, a parlarmi per primo di Peppino Strippoli, detto l’apulo-milanese. Eravamo a tavola con un nutrito numero di amici e il discorso cadde su Chechele e Nennella, ambasciatori della nostra terra nel capoluogo lombardo; e da lì a Strippoli il passo fu breve.
Filippo lo conosceva bene. Qualche volta lui bussava alla porta di via Calematta, la casa del commendator Guglielmo Miani, altro nostro corregionale che ha dato lustro alla Puglia, dove l’artista abitava, salutava, gustava un paio di polpette, se era domenica, guardava il quadro in fase di esecuzione, qualche battuta e via.
Vincenzo Buonassisi e Jbrahim Kodra

Un giorno Filippo portò me in uno dei ristoranti aperti da Peppino e ne ebbi un’ottima impressione: pulito, ordinato, con camerieri pronti al servizio, gentilissimi, proprio come avevo sentito dire da chi a quei tavoli si era seduto più volte. Poi un tale nato nei dintorni di Bari e preso da quel sentimento che porta ad essere contro quelli che sono nati “fuori” (tra l’altro sdegnava il suo dialetto per non sfigurare con i milanesi, di cui voleva essere copia conforme), aggiunse che la cucina di Strippoli era esemplare e che nei suoi locali i pugliesi si sentivano a casa. Come se da Strippoli ci andassero a gustare le pietanze soltanto i “terroni” (uso il termine con orgoglio). Un’altra volta fu Chechele a chiedermi di accompagnarlo a Saronno, al supermercato del vino dell’apulo-pugliese. E incontrai per la prima volta Strippoli, con cui scambiai solo poche parole.
Dopo qualche tempo organizzò una serata memorabile: belle ragazze che a piedi nudi pestavano l’uva da trasformare in vino, gioia di stare insieme pugliesi e meneghini, bergamaschi e bresciani... Avevo in mente di scrivere un pezzo per il giornale e lo intervistai, catturando un suo sfogo: “Il vino nei contenitori di cartone? Un sacrilegio”.
I questori Caracciolo e Plantone

Ogni tanto coinvolgeva Gillo Pontecorvo, che era d’accordo. “Il vino va tenuto in bottiglia – ripeteva – da dove viene questa novità?”. Io ero in compagnia di Paolo de Barros, già comandante di Jumbo, che mi aveva fatto tanta compagnia in un viaggio in mare da Trieste a Smirne; e insieme simpatizzammo con tante persone, ammirando anche la biblioteca ricca di libri sul nettare, mentre tutti, noi compresi, assaporavano un bicchiere di quello inebriante.
Strippoli lo conoscevano tutti, non solo a Milano. C’è stato un periodo in cui si parlava più di lui che di Gino Bramieri o di Piero Mazzarella, che furoreggiavano uno in televisione, l’altro al Teatro Gerolamo. In un lungo periodo, sin dagli anni Cinquanta, aprì ristoranti, trattorie, cantine, dove serviva orecchiette a giornalisti, scrittori, artisti. Spesso, se al “Corriere della Sera” avevano bisogno per un’emergenza di parlare con il capocronista Vittorio Notarnicola, lo rintracciavano da Strippoli, dove si potevano trovate Salvatore Giannella, che dirigeva l’importantissimo periodico della Mondadori “Airone”; il sindaco Carlo Tognoli, Vincenzo Buonassisi, il commendator Guglielmo Miani, personaggio venuto da Andria e famoso non solo per i suoi eleganti negozi nel pieno centro di Milano, ma anche per aver ospitato nella sua abitazione il principe Filippo di Edimburgo e per aver ricevuto, per i suoi meriti, l’Ordine della Giarrettiera. Da sarto era diventato molto importante: vestiva i vip con pregiata stoffa inglese e andava a cena con il prefetto, come scrisse sul “Giorno” Nantas Salvalaggio, giornalista dallo stile brillante.
Vernola, Strippoli, Alto

Del Mare, Tognoli, Vernola
Da Strippoli ci andava anche Luigi Veronelli, che scriveva sul vino sullo stesso quotidiano dell’Eni, articoli insaporiti di poesia. Coltissimo, vero esperto della bevanda, Veronelli abitava a Bergamo Alta. Persona cortese, mi invitò a casa sua ad assaporare uno dei suoi vini pregiati. Gli avevo telefonato per conoscere la sua opinione su Edoardo Raspelli, e mi rispose che era stato proprio il giornalista de “Il Corriere d’Informazione”, passato a scoprire cascine, attività agricole, casearie, sapori, usi e tradizione dei diversi borghi dell’Italia per Canale 5, a creare la critica gastronomica.
Veronelli mi disse anche che lui non andava nei locali di Strippoli soltanto per gustare la cucina pugliese, ma anche per informarsi sulla Puglia, sulle sue bellezze e sui modi di vivere dei suoi abitanti. A “’Nderr’a la lànze, uno dei locali dell’apulo pugliese, vicino all’Università Statale, si faceva vedere Mario Capanna, “leader” del Movimento studentesco, che un giorno, in un contesto di alti personaggi, fece un discorso tutto in latino in risposta a chi aveva accusato i sessantottini di essere perditempo ignoranti che manifestavano per marinare la scuola. E a volte si videro Vito Plantone, non ancora questore, e la moglie Emma, sempre in compagnia degli amici più cari. Plantone, amante delle fave con la cicoria, a richiesta raccontava di Strippoli tutte le attività e lo sapeva delineare molto bene anche nel carattere. Ricordava anche com’era vestito una certa sera. Plantone amava frequentare i locali, di notte e di giorno. Era di Noci, paese di cui adorava soprattutto il centro storico. E amava la buona cucina; e la Puglia, la terra del sole, delle masserie, degli ori di Taranto, delle cozze. La Puglia che vanta lo splendore di Martina Franca, di Lecce, centri storici come quelli di Locorotondo con fondali e quinte di teatro.
Una sera dal ristoratore pugliese si sedette tutta la compagnia del Teatro Bolscioi, a cui lui in persona servì il pane fatto venire da Altamura, che condivide con laterza la fama e il merito dei forni più prestigiosi e fra le altre delizie il vino, che Strippoli cercava in Puglia, girando per i luoghi che lo producevano, compresi Martina Franca e Manduria, di cui parlò anche Mario Soldati nel suo volume “Vino al vino”. Di vino Strippoli era un vero esperto. Non aveva bisogno di fare i gesti filodrammatici che caratterizzano certi personaggi nell’atto di sentenziare sul sangue dell’uva. Era un difensore del vino pugliese, e non perdeva occasione per osannarlo. Da Milano scendeva spesso nella terra amata da Paolo Grassi e da Filippo Alto, che la celebrava nei suoi dipinti. Era un po’ l’ambasciatore di Puglia, prima che questo onore venisse assegnato a Michele Jacubino, detto Chechele, titolare del ristorante “La Porta Rossa” di via Vittor Pisani.
Chechele Jacubino

Fu Mario Dilio a dire a Filippo Alto e a me, ospiti di una delle tante manifestazioni che il pugliese, come lo chiamava Gaetano Afeltra, aveva organizzato con la sua genuinità. “Quest’uomo fa per la nostra regione quanto non fanno più ambasciatori messi insieme”. Qualcuno lo sentì e dopo un po’ di tempo la voce si diffuse e Chechele si trovò insignito di quel titolo che gli fu riconosciuto da tutti, avventori e non.
Tornando a Peppino di Strippoli, era nato a Cerignola, ma barese sulla bocca di tutti. Era stimato non soltanto da Luigi Veronelli, ma anche da Edoardo Raspelli, che con Vincenzo Buonassisi e altre personalità fece parte della giuria del Premio Milano di Giornalismo (Gino Palumbo, direttore de “La Gazzetta dello Sport”, Raffaele De Grada, illustre critico d’arte, Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”, Giuseppe Giacovazzo, sulla plancia de “La Gazzetta del Mezzogiorno”…), che si teneva appunto alla “Porta Rossa” di Chechele.
Ma oggi chi parla più di Peppino Strippoli? Se si domanda di lui ai giovani, non si ottengono risposte. Ma anche molti anziani non ricordano più neppure il nome di Peppino Strippoli. La memoria dell’uomo è corta: un deposito che si esaurisce presto, un fiume che si prosciuga, una batteria che si scarica. Peccato. Tra i ristoranti che ha aperto quanti ricordano “’Ndèrre a la lànze”?
Edoardo Raspelli
O il locale che stava vicino al Piccolo Teatro, che ebbe come frequentatore Paolo Grassi e Piero Valpreda e il corrispondente de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e autore di libri Annibale Del Mare, che bazzicava la libreria di viale Tunisia, di Nicola Partipilo, barese emigrato a Milano, che con la sua casa editrice gli pubblicò un libro. Essendo io amico di Nicola, mi conforta sapere che lui non ha dimenticato Strippoli, il ristoratore venuto da Bari, terra di uomini intraprendenti, di Tommaso Fiore, della Fiera del Levante, della Casa editrice Laterza, de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, dell’Università in cui insegnò Aldo Moro.
Un giorno il commercialista Giacomo Lezoche m’invitò a pranzo a Trani, sua città natale, nella sua bella casa con affaccio sul mare; e mi parlò tanto di tutti i pugliesi che avevano operato a Milano, soffermandosi sulla figura di Strippoli. Tirò fuori anche articoli di giornali che parlavano di lui e accennò ai “trani” (Giorgio Gaber), le osterie che i suoi concittadini a suo tempo avevano messo su a Milano. E mi parlò anche dello scrittore Nino Palumbo, autore fra l’altro di “Pane verde”, che aveva vissuto nel capoluogo lombardo per un un certo periodo di tempo, ritirandosi poi in Liguria, pur continuando a mantenere rapporti con Lezoche e con altri pugliesi.