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mercoledì 27 luglio 2022

L’amore e il segretario galante

 

Taranto- via D'Aquino
SIGNORIMA, PERMETTE?

POTREI ACCOMPAGNARLA?


I più arditi osavano fermare

La ragazza per strada, altri

scrivevano lettere d’amore

o mandavano ambasciate

con amici fidati.

 

 

Franco Presicci

Quando avevo 14 o 15 anni, se un giovanotto era cotto d’amore per una ragazza, l’avvicinava per strada e si dichiarava. Oppure le scriveva una lettera o le mandava un’ambasciata tramite un amico comune. Ma non tutti sapevano combinare frasi dolci ed efficaci.

Taranto - Il Galeso
Allora ricorrevano al “Segretario Galante”, un libro di lettere melense, che fece la fortuna dell’editore. Erano in tanti ad averne una copia, dove trovavano quasi sempre almeno l’ispirazione. Devo confessare che qualche missiva l’ho scritta anch’io, per soddisfare la richiesta di un conoscente o di un lontano parente, che di mestiere faceva il pescatore. Una volta fatta la conquista, era difficile per la fanciulla sottrarsi alla vigilanza della madre: allora si parlavano lei dal balcone e lui dal marciapiede di fronte. La “guardia” aveva già preso segretamente informazioni sul giovanotto, quindi era quasi tranquilla, se le erano state date buone notizie.

Conoscevo una mamma che, per evitare pericoli (un bacio, un abbraccio) scortava la figlia fino all’incontro, all’insaputa del marito. Se lo spasimante aveva il posto fisso ed era stato ammesso in casa, doveva passare la serata a fare lunghe partite a carte con il papà e limitarsi a guardare a lei con occhi da pesce morto specie quando il padre aveva messo a segno un “pisellino” (sette di denaro) o realizzato una scolpa e quindi esultava, distraendosi. Andavano proprio così le cose a quell’epoca, e se le racconti a un ragazzo di oggi, puoi sentirti prendere: “Allora, tu hai conosciuto personalmente Giulio Cesare?”.

Milano - Il Naviglio grande
A Milano, ai primi del ‘900, gli amori fiorivano sotto i Portici, in Galleria, sui Navigli…Non c’era bisogno di appartarsi in luoghi meno frequentati e poco illuminati. C’era più disinvoltura. Certo lui doveva corteggiare lei con un certo garbo, creare un’atmosfera romantica credibile, stuzzicando la vanità di lei o aiutare la sua disponibilità. Se i passanti notavano la scena, tiravano dritto senza commentare. Il corteggiamento poteva avvenire di giorno e di sera, all’uscita dal teatro, quando piano piano un gruppetto di amiche si dirigeva verso casa.

Signorina, permette?”, chiedeva lui e lei, che, se gradiva, si staccava dal gruppetto e ascoltava, se l’approccio la interessava. ”Mi lasci pensare, sa, è la prima volta e sono un tantino imbarazzata…”; “Adesso, come vede, sono in compagnia, un’altra volta”. Intanto circolava la ronda del piacere: le signore peripatetiche, tra via Santa Radegonda e piazza Diaz, di fianco al Duomo, dove giganteggia la Terrazza Martini.

Le notti milanesi erano affollate. Il Carini, sotto i Portici Meridionali, abbassava la saracinesca alle 5 del mattino, dopo aver servito l’ultimo cognac alla giovane ambulante ormai stanca e mezza assonnata; o un cappuccino alla mezzana che, tazzina alle labbra, sorvegliava la ”protetta” posteggiata in una bicocca rischiarata da un becco a gas. “Gente, andiamo a nanna”, esortava il titolare, accingendosi a spegnere le luci. 

Il Duomo a Milano
Qualche ora dopo, dietro al Duomo, con il suo banco compariva “quell del cafè del gnoeucc” o del ginocchio, bevanda ottenuta con i fondi di altra bevanda: acqua calda tinta di nero, potabile solo - a sentir il poeta meneghino degli anni ’20 Giorgio Bolza - se vi si spruzzava un goccino di grappa. “I cafè d’i strascioni, de i pitocch… il cafè de la nott; dei locch e del brumista ghe van a bev… “, del vecchietto che andava ad appostarsi sul sagrato della cattedrale per stendere la mano alla gente caritatevole e del manovale diretto al cantiere aperto sulla strada: tutti di bocca buona. Due sorsi, cinqu ghej e via, stropicciandosi ancora gli occhi. I signori, in frac e gibus, che avevano assistito all’esecuzione di un’ opera alla Scala o a una prima al teatro, accompagnati da signore in abiti eleganti con ricami e guarnizioni di pizzi, andavano a sedersi ai tavoli del Savini, quasi gemello della Galleria, data di nascita 1867 con il nome di Birreria Stocker, o a quelli del Biffi; e anche lì poteva fiorire un amore. Verso le due si decidevano di tornare a casa; mentre i “viveur” più incalliti preferivano fare ancora un giro per la città, sfiorando gli spazzini e le passeggiatrici.. E poteva capitare che una di queste signore, intravedendo le ombre di quattro o cinque “pollè” della squadra dei buoni costumi, per evitare la cella, si afferrasse al braccio del nottivago, contrabbandandolo come fidanzato.

La mappa del cosiddetto vizio era ben nutrita. Tra le altre contrade, la Vetraschi, ora scomparsa, dove le mestieranti se ne stavano accovacciate sugli scalini di uno stabile o al centro del vicolaccio su una sedia sbilenca. Molti i barboni. Dormivano addirittura su una panchina di piazza Della Scala, sotto il monumento a Leonardo (eretto nel 1872, quando erano stati definitivamente chiusi i caffè e gli altri locali attorno al tempio della lirica; o più in là, in altre zone di Milano. Le notti milanesi, rese meno buie dal “pizzalamped”, erano frequentate anche da brutti ceffi: cravattari, lenoni, ladri, sempre pronti ad architettare mascalzonate, rendendo insicuri certi luoghi di ritrovo. Allignavano alla stazione Centrale, in corso Garibaldi, a Porta Genova, al Parco Lambro, nella Galleria del Transatlantlco della Centrale, così chiamata perchè’ fino a una cinquantina di anni fa era dominata da una enorme riproduzione della “Michelangelo”, una delle regine del mare della Società Italia di Navigazione.

La Galleria di Milano
I “baloss” bighellonavano in un’altra Galleria, quella delle carrozze, sul piano stradale. A quei tempi chi doveva prendere il treno si faceva portare dal cocchiere. I loschi figuri non perdevano l’occasione per far cerchio attorno alle signore, corteggiandole. Le donne erano belle e contegnose. Non lasciavano trasparire il desiderio di essere ammirate e aspiravano a contare di più nella società: l’emancipazione femminile aveva fatto qualche passo avanti, ma la libertà completa era di là da venire. Per gli innamorati la vita non era tanto facile. Papà e mamma, se per esempio, per impegni improvvisi erano costretti a lasciare momentaneamente l’abitazione, affidavano la vigilanza dei colombi al fratellino. E il fidanzato fremeva, anche perché alle passeggiate domenicali doveva sorbirsi la presenza pressante dei futuri suoceri, che imponevano l’itinerario, di solito i Giardini Pubblici, oggi dedicati a Indro Montanelli, o le gite fuori porta. L’andazzo cambiò negli anni 30, quando i “vecchi” cominciarono a capire che era meglio latitare. Ma non rinunciarono - racconta Alberto Lorenzi - ne “I milanesi, le donne, l’amore” – ad imporsi nel caso in cui non condividessero l’unione, per la posizione economica di lui, il livello della famiglia di provenienza, il carattere… Allora ai ragazzi non rimaneva che la fuga in carrozza.

Come si vede, tra Nord e Sud sotto questo aspetto non c’erano grandi differenze.

Taranto, via Garibaldi
Durante la mia adolescenza conoscevo una signora che veniva dal… contado. Aveva una figlia, sulla quale esercitava un controllo quasi paranoico. Guai a dedicarle uno sguardo, sia pure ingenuo, più del dovuto. Scattava come un suricato, strattonava la figlia e lanciava all’uomo un’occhiata feroce. Passò il tempo e lei si accompagnò con un bravo giovane; questi dovette assentarsi per qualche mese e l’affidò ad un caro amico, che lo sostituì non solo nell’incarico ricevuto, che poi passò ad un altro ancora. Di un’altra ragazza, tutta casa e chiesa, mai vista assieme ad un uomo, improvvisamente si seppe che era rimasta impollinata. Cose che succedevano, nonostante i tempi richiedessero rigore e pretendessero che le fanciulle arrivassero all’altare pure come alla nascita, nella convinzione che la paglia vicino al fuoco non può stare.

Oggi la donna è giustamente libera di scegliere se concedersi o meno; e se lo fa nessuno deve metterci il naso. La vita è sua e sta a lei fare e non fare. Così mi diceva un vecchio amico che come me non aveva e non ha nostalgia per quei tempi. I treni arrivavano in ritardo anche ieri e gli uomini diventavano imperatori anche ai tempi di papa Galeazzo, il prete del Leccese furbo come la volpe: una volta vendette a un contadino un asino che incespicava ad ogni passo, e quando il contadino andò a protestare papa Galeazzo gli fece dei discorsi così contorti che il poveretto preferì tenersi l’asino, pur di stare a debita distanza da quel personaggio, che ne sapeva una più del diavolo, a dispetto della tonaca.



mercoledì 20 luglio 2022

Nel ’70 una notte su un’auto della polizia

VOLANTE “PIOLA” CHIAMA LA CENTRALE

QUI IN UN CIRCO SPETTACOLO FUORIPISTA

 

Mario Nardone,Enzo Caracciolo

Le sentinelle in giro per la città 

sorvegliavano, come oggi, ogni angolo

con grande attenzione e intervenivano in

un baleno. 

Io viaggiavo con ansia, aspettando il colpo

grosso. 

Ma quella volta accaddero altre cose, ma

non ci furono regolamenti di conti.

 

Franco Presicci 



“A mezzanotte va la ronda della madama e sono cavoli della malandra”, canticchiava uno dei piantoni sotto il grande portone della questura, mentre uscivano le pantere a sirene spente. Avevo chiesto al questore Allitto Bonanno di ospitarmi a bordo di questi avamposti in giro di perlustrazione notturna attraverso la città; e dal suo ufficio partì una telefonata al commissario Enzo Sciscio, un giovane sui 30 anni, foggiano di Fornara, spiritoso e svelto, preparato e solerte. L’appuntamento per la sera successiva alle dieci e mezza, nel cortile di via Fatebenefratelli. 

Il poliziotto al centralino
Era il settembre del ’70 e scrivevo su “La Gazzetta di Mantova”, un quotidiano con secoli di storia sulle spalle. Per carattere sono maniaco della puntualità. E arrivai mezz’ora prima, ma l’equipaggio era già lì ad attendermi. Mi presentai: i poliziotti, giovani, gioviali, sorridenti, rispettosi. La pantera si mosse lenta e silenziosa, svoltò a destra, verso via Porta Nuova, via Monte Santo, piazza della Repubblica... L’autista, Giovanni, era pugliese come me e si trovava molto bene a Milano: gli piaceva la gente e non si era mai imbattuto in qualcuno con l’abitudine di dare del terrone a un meridionale. “Che poi non è un’offesa, perché molto cibo ci viene proprio dalla fatica del contadino chino sulla terra”. Aveva letto Curzio Malaparte, Tiziano Terzani, Mario Tobino, “Un amore” di Dino Buzzati, le storie di Roma e dei Greci di Indro Montanelli… Per problemi familiari non aveva raggiunto il diploma di ragioniere: “Ho tempo”. Quelli che stavano dietro di me ascoltavano e ogni tanto intervenivano per commentare una chiamata di un’altra sentinella alla Centrale. Giovanni andava piano, in una Milano tranquilla, senza sussulti, almeno fino a quel momento. 
 
Falena
Incontrammo una decina di donne giovani che taccheggiavano sul marciapiedi, e Giovanni disse: “Di ‘segnorine’ ce ne sono tante in città. “Segnorine”, come nel ‘46 venivano chiamate le “falene” per non dispiacere ai benpensanti, soddisfatti di vedere sulle locandine gambizzato il titolo di un’opera di Jean Paul Sarte, “La p. respecteuse”, dove la p. stava per una parola facilmente immaginabile). Dopo qualche minuto Giovanni riprese l’argomento: “Svolgono la loro attività senza dare fastidio e noi non interveniamo, a meno che non facciano adescamento”, “Così vuole la legge Merlin”, aggiunse l’agente Mario, e ipotizzò: “Lei si aspetterà un delitto”, così avrà da scrivere di più”. Non risposi, ma confesso che aveva ragione. “Le nostre giornate sono quasi sempre movimentate. Pensi che una volta il dottor Mario Nardone, detto ’il gatto’, per l’abilità, la perspicacia e l’efficacia delle sue indagini solitarie, per correre sul teatro di una grossa rapina a mano armata dovette lasciare il matrimonio di un amico ed essere fagocitato da una Volante con il dottor Mario Jovine, il suo vice”.
 
Caracciolo, Olivieri, Pagnozzi
Le Volanti pattugliavano 24 zone. Naturalmente, non soltanto per dare uno sguardo alle “lucciole”, che a volte creavano fermenti per l’insolenza di qualche cliente o erano vittime di qualche matto o dello stesso “protettore”. “In una notte può succedere di tutto: un regolamento di conti, una rissa, una ‘dritta’ (rapina) in un cinema, in un bar, in un ristorante; un ferimento o peggio”. Improvvisamente, in fondo a una strada senza sbocco notarono un giovane che armeggiava attorno a una 500. Giovanni accelerò e arrivati sul posto scendemmo tutti. Il ragazzo aveva in mano una forbicina da donna, da utilizzare per aprire la portiera. “Non volevo rubare, non ho casa e volevo dormire lì dentro”. Destinazione questura. La pantera riprese il suo itinerario. Ogni tanto le sentinelle pescavano un tipo sospetto, controllavano i documenti, trasmettevano le generalità alla centrale operativa, da dove la guardia D’Ambrosio, un venticinquenne che aveva ricevuto una medaglia per la solerzia, la preparazione sostenute dall’entusiasmo, controllava, presente il maresciallo Mantovani, che conosceva bene tutta la provincia e i cunicoli che si tuffano sotto il Castello Sforzesco, quelli in cui una volta si attestavano le scolte del signorotto e nei nostri giorni cappelloni inebetiti dalla marjiuana e falene in minigonna.
 
Operazione polizia
Chiamò il dottor Sciscio per sapere se andava tutto bene. “In caso di novità avvertitemi subito”. “D’accordo”. La serata procedeva calma. I grossi calibri del furto e del mitra erano forse in vacanza o sbaloccavano in un night di lusso con fiumi di sciampagna e sorrisi di bionde prosperose; o erano intanati in labirinti insospettati a progettare colpi da maestri. Intanto ci arrivavano le voci delle altre Volanti e degli uomini che presidiavano la Centrale operativa. Mantovani: “Per quell’incendio avvertiamo anche la squadra di emergenza dell’Edison e se è il caso facciamo sgomberare gli stabili vicini”. la notizia era stata data dalla Volante Romana. I clienti del night posarono i calici, appena si videro assediati dalle fiamme. Urla, panico, il fuoco stava per divorare le porte e ostacolava l’uscita. La Romana richiamò: “I vigili del fuoco sono arrivati con due autopompe. Nessun pericolo per le case vicine. Il night è in una specie di villetta isolata. Le tubature del gas sono al sicuro”. Volante Monza: “In un bar due persone hanno bevuto un po’ troppo e stanno dando i numeri”. Mantovani: “Identificateli!”. La Sesto, che da un pezzo non si fa sentire: “Nulla di nuovo”. “Unitevi alla Monza e fate un posto di blocco sulla solita strada della Brianza”. Spesso su questi asfalti restavano intrappolati i ladri che da Oggiono, Cantù, Erba, Merate… facevano bottino a Milano. Sono le due e le ore si sfilano tra dialoghi delle Volanti e la Centrale, e domande a soggetti in atteggiamenti equivoci. Un tale protestò, “perché in Inghilterra, dove aveva soggiornato a lungo, i gentiluomini vengono riconosciuti a naso e quindi non vengono importunati”, e la memoria di via Fatebenefratelli in pochi minuti scodellò un polposo “curriculum” penale. L’uomo cambiò “refrain”.
 
Plantone e Borsellino
La Volante Ticinese dette tre nomi: il primo era un rapinatore. Due ragazzi evasero dal Beccaria, misero le mani su un’auto, l’avviarono con il sistema del ponte. Mantovani ricevette una segnalazione: una ciurma di giovani si divertiva a fare carosello attorno alla villa di un industriale, scatenando le marmitte e ancor di più i claxon. “Volante Genova, andate immediatamente!”. La Romana: “In un bar si è scatenata una rissa ed è spuntato un coltello. La “Piola” viene spedita a San Donato, dove in un circo stava andando in scena uno spettacolo fuoripista: un dipendente in divisa, di quelle che sotto gli “chapiteaux” ricordano i soldati napoleonici, e un altro in borghese se le stavano dando al ritmo di uno strumento a percussione. Il dottor Pippo Micalizio chiese notizia dei ragazzi del Beccaria. “Volatili…”: la Magenta spezzò la parola: “Abbiamo acciuffato gli evasi e recuperato l’auto”. L’”Adriatica” piombò in questura, attraversò il lungo cortile e si fermò davanti alla porta che si apriva dall’interno con un congegno elettronico. Scesero una signora e un giovane allampanato. Lei lo accusava di essere entrato il giorno prima nel suo negozio e di aver acquistato merce con un assegno falso di 96 mila lire, esibendo una carta d’identità contraffatta: uscendo dal cinema con amici, lo aveva riconosciuto e bloccato.
 
 Prefetto Mario Jovine e Arnaldo GiulianI
Mezz’ora dopo nella stanza comparvero i commissari Achille Serra (che chiuderà la carriera da prefetto dopo essere stato capo della Squadra Mobile, dello Sco (Servizio centrale operativo) e questore di Milano, e il suo collega D’Orta. Serra appoggiò le mani sull’orlo di un tavolo, compì un salto e si sedette facendo dondolare le gambe. Pippo Micalizio offrì un bicchiere di birra, mentre una telefonata non ufficiale informò che era arrivato “all’improvviso il dottor Enzo Caracciolo, diretto nel suo ufficio”. Caracciolo era il capo della Mobile, un signore alto, severo, intransigente, del quale tutti avevano un timore riverenziale. Siciliano, coltissimo, perspicace, snello, baffetti alla David Niven. Diventeremo amici, dopo un’intervista in casa sua, in viale Piave. Ricordo che mi confidò di avere ancora uno scrupolo per non essere riuscito a risolvere il delitto di Simonetta Ferrero alla Cattolica.
 
Oscuri,Bonanno,Gino Cervi,Caracciolo,Plantone
In seguito presi a frequentare assiduamente via Fatebenefratelli, stringendo amicizia con personalità prestigiose e di grande valore, tra cui Mario Jovine, Vito Plantone, Antonio Pagnozzi, Francesco Colucci. Filippo Ninni, Paolo Pifarotti, Paolo Scarpis, Eleuterio Rea, i questori Tria, Fariello, Carnimeo…, il “judo man” Ferdinando Oscuri, che incuteva paura a chi scivolava nel codice penale. Ci alternavamo con il mio collega Giancarlo Rizza, posato, lento, impassibile, riservato. Se fiutava una notizia la inseguiva come un ghepardo la sua preda. Una sera i funzionari invitarono a cena i cronisti in un ristorante dalle parti di via Padova; e a un certo punto Rizza andò in bagno. All’uscita, intercettò alcune parole di una conversazione intessuta sottovoce tra Micalizio e un altro funzionario. Sgattaiolò verso la porta e sparì. Quando ci accorgemmo della sua assenza ci chiedemmo dove fosse finito. Era già in questura a farsi dire da un amico fidato ciò che era successo. Avevano concluso un’operazione clamorosa e la notizia doveva essere data il giorno successivo in una conferenza-stampa, presenti le tv private e pubbliche e la carta stampata. Invece uscì su “Il Giorno” in esclusiva. E tutti gli altri cani da tartufo abbaiarono. Ho trascorso notti anche nella sala-stampa della questura. Appena sentivo il rombo di una volante mi affacciavo alla finestra che dava sul cortile e osservavo chi scendeva. E ho passato qualche altra notte con le pantere e ore sull’elicottero del Gruppo Volo Malpensa della polizia, dove, al momento della pensione, il colonnello Cipriani mi ha dato una targa, in cui si attesta la mia passione nello svolgimento del lavoro di “cacciatore”.



mercoledì 13 luglio 2022

Incontro con Vincenzo Gallone

Vincenzo Gallone
OVUNQUE METTA LE MANI

RICAVA UN CAPOLAVORO

Vincenzo Gallone, 89 anni, memoria

lucida, simpatico, talentuoso, fonte

inesauribile d’informazioni, narratore

gradevole e interessante, collezionista

di ricetrasmittenti trovate nei mercatini

rionali della Puglia.

 

 

 

 

Franco Presicci

Ogni volta che faccio un salto da Michele Annese a Crispiano, gioiellino a un tiro di schioppo da Taranto, tranquillo, riposante, le vie strette, silenziose, mi aspetta una sorpresa: un incontro importante, una vita da raccontare, un’attività speciale di una persona che sta per arrivare agli ottanta o ai novant’anni o c’è già arrivata…

Come in altre città, grandi o piccole, ma più o meno movimentate, più o meno frenetiche, chiassose, molto trafficate, c’è chi invece di oziare all’ombra degli alberi nei giardini, magari sotto casa, passa ore in un laboratorio per costruire oggetti in legno o in metallo, a volte vere e proprie opere d’arte, o testimonianze a decorare il suo mento di eccellenza.

 

FRANCO

PRESICCI

CON

CENZINO

GALLONE

 

 

 

Questa volta mi sono trovato di fronte ad un collezionista di ricetrasmittenti militari, tutte funzionanti, acquistate nel tempo frequentando mercatini di diversi paesi della Puglia, pellegrino particolare e instancabile. Annese, uomo colto e molto sensibile, mi aveva parlato di questo signore, dicendomi che era un raccoglitore di radio antiche e io per associazione di idee, ho pensato al libro “Abbassa la tua radio per favore: storia dell’ascolto radiofonico nell’Italia fascista”, di Gianni Isola, pieno di notizie e di opinioni, tra cui quella del regista, saggista e critico cinematografico Anton Giulio Bragaglia, secondo il quale la radio aveva bisogno di poesia.

 

MOTO D'EPOCA 

COLLEZIONATE 

DA GALLONE

Quando poi mi sono trovato di fronte a Vincenzo Gallone, 89 anni, alto, un bel volto con una barbetta bianca, pantaloni scuri e camicia bianca, aspetto da gentiluomo di campagna, simpaticissimo, saltellante da un fatto all’altro, da un argomento all’altro, costringendomi ad un lavoro mentale di cucito, ho scoperto che non le radio erano il suo “Hobby”.

“Colleziono anche auto d’epoca (una 1500 coupè corazzata Vignale, una 600 D da corsa, una Land Rover, fuoristrada…, oltre a una serie di moto (il leggendario  Falcone sport 500CC, motoveicolo Guzzi con cui si partecipa alla Milano-Taranto). Parla con distacco dei suoi esemplari, come un marito geloso che tiene nascosta la moglie per paura che gliela portino via.

Dice lo stretto necessario. Conversiamo immersi in una congerie di oggetti, molti coperti da teloni, forse per evitare che prendano polvere, lui affondato in una poltrona anteguerra, io seduto su una sedia bassa a cui tremolano le gambe, senza un piano d’appoggio, in una stanza con poca luce, con un piccolo “corridoio” fra cumuli di cose che consente di andare da un estremo all’altro. Comunque ascolto con interesse quello che dice Vincenzo, che spesso accompagna le parole ad un sorriso da uomo che ha attraversato tante strade, piane, impervie, sterrate, senza vacillare. A volte comunica con gli occhi, ammiccando verso Michele Annese, che sta invece in piedi e si guarda intorno incuriosito da  un bel po’ di ricetrasmittenti allineate su una mensola e altrove e coglie nella memoria la figura che l’intervistato ha indicato con il solo soprannome: “Beh, a quello rifeci tutta la moto con pezzi di ricambio introvabili fatti da me”. Vincenzo scantona, svirgola, accenna ad altri concittadini usando sempre i nomignoli, mai offensivi (nei paesi ognuno ha il suo ricavato da una caratteristica fisica, dal mestiere che esercita, da un’abitudine o ereditato dal capo famiglia… e poco manca che li inseriscano anche nella carta d’identità) e Michele annuisce, ricordando: a Crispiano con i suoi 13 mila abitanti ci vuole poco a conoscere tutti. “Prima di partire per il militare facevo l’ebanista con mio padre Tommaso, però avevo la passione per l’elettronica e la meccanica, quindi studiai da solo queste materie.

Al centro: Vincenzo Gallone

"Sotto le armi feci il 'marconista' (radiotelegrafista del Genio Trasmissioni), attività che con i suoi punti e linea per me era una musica"… E qui deraglia nuovamente: “Suono bene la chitarra e il mandolino, strumenti con i quali, assieme ad altri, ho fatto tante serenate, quando questa pratica era in voga. Con mio fratello Michele facevo parte di un gruppo che si chiamava ‘Magagallo’, e andavamo a suonare ai matrimoni, alle cresime, ad altre feste”. E ritorna al binario originario. “Come radiotelegrafista nel 1956 acquistai un Rice-Tra mod. R19 MK III e, dopo adeguata preparazione, conseguii la patente di Radioamatore con la sigla I7KVG. Iniziai, così, a collezionare apparati radio militari, ceduti dai vari Corpi Militari Nazionali. Ho una ricetrasmittente WHF tedesca anni 40, un ricevitore HF, anch’esso tedesco, una radio RRIA, Ar18, TELEFUNKEN E 52 KOLM, nonchè COLLINS, BC MARELLI ed altre marche italiane di varie epoche, il tutto perfettamente funzionante". Ma non si conclude qui il campo d’azione di Vincenzo Gallone, che ha davvero molto talento e altrettante conoscenze. Per esempio ha creato un sydecar Bianchi MT61(e non è stato il solo), precisando che "la costruzione e le riparazioni dei Sidercar sono state eseguite nelle autorimesse dei rispettivi proprietari, con i loro  mezzi e materiali, l'aiuto loro e degli amici, in uno spirito comune di vecchia amicizia e grande passione". Finita la leva, Gallone fu autorizzato ad aprire un’autofficina Fiat. Poi se ne andò a lavorare a Taranto alla Montubi, quindi passò alla Riveltubi, assunto a Milano, in trasferta nella città dei Due Mari.

Vincenzo Gallone nel suo "museo"a Crispiano
Intanto frequentava i mercatini militari rionali a Bari, a Castellana Grotte… dove acquistava o faceva cambi. Ed era socio di un Club di collezionisti di Roma, G2 C.R.O.S.E.M. AROC, affiliato ad altre organizzazioni similari estere (francesi, olandesi, belghe, inglesi) dove discutevano di argomenti riguardanti il loro “hobby”. Si scambiavano consigli, pareri, idee, riguardanti la ricerca, la riparazione e l'uso di radio ex-militari di tutto il mondo. Insomma Vincenzo Gallone non se n’è stato mai con le mani in mano. Ha anche costruito, per un appassionato, la parte meccanica di un ricetrasmettitore per spie italiane anni '40. Come elettromeccanico specializzato, poi come responsabile dell'Officina Macchine Utensili dell'Officina Generale, in più occasioni, Vincenzo sbalordisce consulenti tecnici giapponesi, per la semplicità e la efficienza delle soluzioni di ordine elettromeccaniche con cui risolve annosi problemi tecnico-industriali. Costruiva pezzi di ricambio che non si trovavano più; e oggi tanti amici anche di alto livello "mi chiedono di fare per loro oggetti non più in circolazione”. Una notizia dietro l’altra. Vincenzo è inesauribile: racconta e si racconta con un pizzico di orgoglio, proclamando: “Mi sono fatto da me”. E scusate se è poco. Ha fatto il motore e l’impianto elettrico di una Topolino 500C (nessun esperto ci voleva mettere mano). Il suo talento stupiva e, diciamolo sottovoce, faceva serpeggiare un pizzico d’invidia: capita anche nelle migliori famiglie. 

Era sempre presente ai raduni, ovunque si svolgessero. E' andato in Calabria con una moto appena rimessa in sesto, con la moglie, Lucia, seduta sul sellino posteriore. Non era uno spericolato, ma ogni tanto lo coglieva lo spirito d’avventura. E' ritornato  in Calabria con una moto sprovvista del corredo richiesto, e per un pelo riuscì ad evitare una pattuglia dell’Arma. Una volta lo scambiarono per un prete: una signora barese gli si avvicinò e chiese di essere confessata. Vincenzo s’infilò nel confessionale e le chiese se avesse compiuto atti impuri, sentendosi rispondere di sì. “Da sola o con altri?”. “Tutt’e due”. Oltre che burlone è anche miscredente, quindi non si preoccupa se Lassù hanno annotato. E’ anche un tantino ribelle. Quando era ancora in divisa il caporale gli chiese di sbucciare le patate, e lui si rifiutò. Il sottufficiale glissò in cambio di un pezzo di ricambio che era ormai sparito dal mercato. Ha anche costruito utensili da cucina; con il padre una chitarra e un contrabbasso.

Riuso del legno al tornio
Terrazza Ristorante "Tuttobuono"
Oggi si dedica alla tornitura del legno. Da una porta demolita ha ricavato dei portagioie. Il tornio di papà era in legno; con il tempo lo stavano rodendo i tarli; lui lo ha bruciato e ne ha costruito uno in metallo. “Al militare mi misero a riparare radio. Quando c’era la Messa avevo l’incarico di mettere i 78 giri nella sala di proiezione e sbagliavo dischi e tempi, Si guastò il proiettore e lo riparai. Riparavo anche i telefoni”. E’ un uomo geniale, Vincenzo Gallone. Che ha anche la virtù di farsi ascoltare con attenzione e godimento anche quando cambia rotaie, imponendoti di rincorrere il treno, che comunque attraversa terreni fioriti. Mentre stavamo per salutarci ha sollevato un telone che copriva una motocicletta, la "California II" e ho visto che gli brillavano gli occhi. 
Poco dopo, eccoci in un bel ristorante con le mogli, Irene la mia, Silvia quella di Annese, sulla terrazza arredata del ristorante “Tuttobuono” di Giuseppe Russano, segnalato da “Repubblica”. Un locale originale, con giganteschi girasoli decorosamente dipinti sulle pareti da Pamela Miola. Arte pittorica e gastronomica. Il cameriere, molto cortese, ci serve accompagnate da un bicchiere di birra, una pizza, "lievitata 48-72 ore" certifica il titolare Pino, venuto a porgere il suo saluto, e un assaggio di lumache, arrostite o al sugo, molto gradite. Poi, ritorno a Martina Franca, pensando amaramente che a Crispiano non vanno più in scena le manifestazioni antecovid, come il presepe vivente nelle grotte basiliane, il carnevale estivo del fegatino... ; e gioiosamente alla terrazza di casa Annese, da dove si gode la vista di uno spiazzo pieno di bambini che giocano, gridano, si riconcorrono e si sente il fischio della locomotiva che corre verso Taranto o verso Martina Franca, mentre le mamme conversano tra loro. Tornerò presto a Crispiano, per incontrare ancora Vincenzo Gallone, uomo straordinario, ricco di esperienze, dalle narrazioni godibili, dalle marachelle spassose; uomo che arricchisce chi l’ascolta con interesse, fonte d’informazioni preziose, memoria inossidabile. Mi piacerebbe interrogarlo sulla radio italiana (dall’Eiar in poi), che si vorrebbe senza pubblicità, a volte discutibile, senza blà blà interminabili, senza atmosfere da pollaio e senza “gossip”. Anche di quella Vincenzo avrebbe forse cose da dire.















mercoledì 6 luglio 2022

Dieci anni dalla morte di Nicola Caputo

UN GRANDE, APPASSIONATO CICERONE

FA RIPERCORRERE LA CITTA’ DI UNA VOLTA

 

Nicola Caputo (Foto Renato Ingenito)
 

Giornalista e scrittore colto,

autore di molti libri sulla Bimare,

che per lui non aveva segreti.

In “Vieni c’e una strada nel

borgo”, pubblicato dall’editore

Scorpione, accompagna il lettore

in una camminata lunga e

istruttiva, procurando

tanta  commozione.

 

 

                                                     Franco Presicci

Nasse indr'o strìttele

“Vieni, c’è una strada nel borgo. Taranto com’era”. E’ il titolo di uno dei tanti bellissimi e interessantissimi libri di Nicola Caputo, giornalista e scrittore sensibile, attento, appassionato cultore della storia, delle tradizioni popolari, degli usi, costumi tarantini. E un vero gentiluomo. Mi aveva mostrato questo testo prezioso, affollato di immagini d’epoca, Paolo Aquaro, di Martina Franca - giornalista in pensione dopo una lunga e prestigiosa carriera a “Il Corriere del Giorno” e allora direttore de “La Voce del Popolo”, periodico che aveva preso il titolo da un glorioso e battagliero settimanale dei fratelli Rizzo - una sera che mi aveva invitato a casa sua in pieno centro storico nella città dei trulli. Paolo non era facile agli elogi, anzi: se un fatto, una situazione, un evento avevano delle pecche, lui ne scriveva senza peli sulla penna. “Questo è un libro che tutti quelli che amano la Bimare dovrebbero leggere. E’ un’opera, la seconda di due, che fa vivere tempi che non ci sono più – disse – merita, dunque, che tu lo recensisca”. E telefonò a Nicola. “Franco Presicci? – fu la risposta – visto che si trova a Martina, venga domani in via Berardi, sotto la sede del tuo periodico. Intanto salutamelo caramente”. Il giorno dopo, alle 10 precise, lo vidi arrivare da corso Umberto e gli andai incontro. Eccoti il libro”. Mi fece domande sulla mia attività professionale a Milano; io gli dissi che una volta lo avevo seguito nel suo racconto della Settimana Santa mentre si svolgeva la processione e ci stringemmo la mano. Attraversò la strada di fronte al convento delle suore, svoltò verso via Di Palma e scomparve. Io tornai a Martina, dove stavo trascorrendo le vacanze, aprii subito quelle pagine e iniziai un viaggio ideale nella mia città di una volta, avendo come cicerone un collega che della Bimare sapeva tutto, il presente e il passato, angoli, negozi, case patrizie, personaggi, storie, negozi famosi, figure caratteristiche del tempo che fu… Nicola Caputo era una guida esperta, sicura, disponibile.

Artigiano a Taranto Vecchia
Narrando, dava un piacere immenso, persino gioia: di una piazza, che come si sa è il luogo degli incontri, delle conversazioni, delle polemiche, delle liti, delle rivolte, snocciolava ogni momento, creando emozioni. Piazza Fontana, con l’orologio che ha ispirato al poeta Diego Marturano una poesia toccante, poesia che Antonio De Florio - al timone del gruppo “Foto Taranto com’era” su Facebook - ha riproposto in uno stupendo video. Nelle parole di Nicola, il lettore la vede com’era, questa piazza che si apre di fronte alla “Dogana”, la percorre entrando in un’altra epoca. “Fu denominata prima Maggiore, perché rappresentava l’unico respiro, l’unico sorriso di una Taranto aggrovigliata fra vicoletti, case di popolo, palazzi padronali, chiese, conventi; capriccio e varietà di stretti budelli intrecciati gli uni agli altri. Divenne poi piazza Mercato, con tutto quel ben di Dio che arrivava ogni giorno dalle campagne; infine piazza Fontana, grazie all’acqua che zampillava in alcune conche piccole e grandi…”. E la piazza posta tra le vie D’Aquino e Di Palma? Carica di episodi belli e brutti. “Inizialmente – ricorda Caputo nel volume - si chiamò Giordano Bruno; poi, d’accordo federale e podestà, Italo Balbo; in seguito ancora Giustizia e Libertà…”; infine sulla targa comparve il nome di Maria Immacolata…”. Se non ricordo male, fu l’arcivescovo Bernardi a prendere quella decisione, anche per spegnere le turbolenze accese in città tra le truppe sparpagliate del regime e gli altri.
 
La Cattedrale
Dalle piazze ai palazzi con le loro facciate, i loro balconi con le cariatidi, i mascheroni, i fermaportoni, la data di nascita dello stabile in rilievo. Caputo apre le porte degli interni, mostra e descrive gli arredi: un letto matrimoniale smaltato con dipinti sulle testiere, un “separè” primo 900 a tre ante con pomelli in tela decorata… Si sofferma persino sulle maniglie, sui pavimenti, sulle stufe. Amante dei dettagli, li osserva e li delinea. Poi presenta i forni a legna, ricordando i tempi della guerra e “…’u pane cu ‘a tessere annonarie”: la spesa con la “libretta”; le ostriche, le “còzze gnòre” e le “còzze pelose”; le signorine del bancolotto che segnavano i numeri intingendo nei calamai una penna che era “una lunga asticciola con tanto di pennino Cavallotti, e rispondevano alla vecchietta: “Segnorì’, quante fàce ‘a desgràzzie?”. E ‘U sànghe?”. “E ‘u puèrche”. Il botteghino allora stava nella città vecchia; e i numeri vincenti li distribuivano crocchiando gruppi di ragazzi scatenati. Un viaggio affascinante, durante il quale il lettore divora notizie, particolari persino sulle case di tolleranza, chiuse il 20 febbraio del ’58, in virtù della lege Merlin. La memoria del cronista ricorda quelle di corso Umberto, la più lussuosa; e quelle d via Regina Elena, le due di via Leonida, di cui una era definita il “casermone”, frequentata soprattutto da marinai. “Ragazzi, allora?”: la voce della “maitrèsse”, che stimolava i perditempo a consumare. C’è un libro con il titolo che esorta i camerati a non fare flanella“. Un viaggio reso più appassionante da tutte quelle foto che rendono ariose le pagine, nelle quali non mancano i vecchi mestieri: “’u mèst de le caùre”, “’u ‘mbrellàre”, “’u seggiàre”, “’a levatrìce”, l’uomo del ghiaccio: “In tempo di guerra il ghiaccio era quasi impossibile trovarlo.
 
'A vrascère
A volte però veniva dato gratuitamente, e allora si vedevano uomini, donne, ragazzi correre verso il distributore con i recipienti più capienti: “’u uacìle”, “’nu sìcchie”, “’na cadàre”. Che gioia attraversare queste strade scoprendo elementi insospettati o ascoltati vagamente dai nonni, seduti attorno “’a vrascère”, magari la notte di Natale aspettando la nascita del Bambino. E “incontriamo” i portoni non ancora con i campanelli, ma con i battenti di ferro, qua e là lavorati. I portoni del borgo antico e di quello che si offre al bacio del mare al di là del ponte girevole: portoni spesso con i numeri civici scritti a mano libera.
 
Copertina del libro

’U strecatùre
 

 

 

Quante informazioni, in questo libro da guardare e riguardare. Le immagini ti aiutano ad immergerti negli ambienti della Taranto che fu. E di quella che sopravvive, bellissima ieri e bellissima oggi, dal Mar Piccolo al Faro di San Vito, a viale Venezia, un tempo campagna e ai giorni nostri arteria chiassosa e affollata, con tante architetture. Nicola Caputo, che tra l’altro veniva chiamato per accompagnare con la sua voce al microfono la processione dei Misteri e altre, riproponendo la storia e perfino le botteghe che hanno creato le statue; parla a lungo anche di questi cortei aperti da “’u trucculànde”. Non sfuggono alle sue rievocazioni nemmeno i vespasiani, poi smantellati per ragioni di decenza, addirittura i chiusini, quelle lastre quadrate di acciaio o di ghisa messe a copertura dei pozzetti di fogna stradali: a Taranto se non antichi, molto vecchi.

Il canale e il ponte
 
Chi, come me, ama Taranto ha sicuramente avuto tra le mani quest’opera edita in veste elegante da Scorpione, e l’ha goduta, anche commuovendosi, grazie anche allo stile arioso, limpido, fresco, scorrevole come un ruscello, di Nicola Caputo; alle foto, alle cartoline d’epoca che costellano il volume: la Villa Peripato; il laboratorio della rinomata pasticceria di Raffaele Fornaro, anni 20; un manifesto pubblicitario della “Regia azienda demaniale del Mar Piccolo”, riconosciutissima in Italia per la produzione di squisiti fritti di mare; cappelli, ventagli, le prime auto, le carrozzelle, “’ u sciarabballe”, i giornali diffusi a Taranto: “La Tribuna Illustrata”, “Super Marc’Aureio”, “Il Vittorioso”, la “Domenica del Corriere”, “l’Intrepido” ; i biglietti augurali, il pianino, con il pappagallo che estraeva i foglietti con l’oroscopo da una cassetta; gli stabilimenti balneari: “Elena”, “Sirena”, “Nettuno”, “Lido Taranto”; le feste della matricola (che in qualche città si svolgono ancora); i balilla. E poi l’indimenticabile “La Sem” del cavalier Messinese, in via D’Aquino, con i tavolini per i signori sul marciapiedi di fianco al cinema Fusco. (“Quando l’appuntamento era La Sem via D’Aquino era già da un pezzo il salotto del Borgo”). Che più? Ah, il grammofono a tromba e il suo tempo (i solchi magici mandavano le voci di Luciano Tajoli, Achille Togliani, Nilla Pizzi, Beniamino Gigli…). E la ronda? Gli oggetti (“’u strecatùre”, “’u lìmme”, “l’assucapànne”, “’a zeròle smaltàte”. “’a cadàre”, “’u mòneche”, “’u scarfalìette”…). No, non stanca questo pellegrinaggio per la città dei due mari, d’a Duàne a San Catàvete, da “’u pònte de pètre” “’o sciardìne de le còzze”; “d’a chiazze Marie ‘Mmaculàte” a” l’arsenàle”… Grande merito di Nicola Caputo, per questa lunga, attraente, istruttiva, edificante camminata a ritroso in questa Taranto amata da poeti e scrittori, indigeni e stranieri. Una città luminosa, straordinaria, dignitosa, orgogliosa. Una terra che, nonostante l’età, non ha bisogno di cosmetici o di chirurghi estetici per essere ammirata e adorata, celebrata. Una signora d’antan che conserva intatto il suo splendore. Nicola Caputo non c’è più. La sua voce si è spenta 10 anni fa, eppure è ancora vivo nel ricordo di tanti concittadini. Compreso il mio. Un mio conoscente, fans da sempre di Nicola, ,i ha detto: “Ere grànne. Mo’ stè’ ‘u figghie”.