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mercoledì 24 novembre 2021

Due volumi spettacolari della Celip

UN PERCORSO STRAORDINARIO

foto di prima
IN PAGINE RICCHE DI IMMAGINI


Tanta parte di Milano si ritrova in

queste preziose opere, che spingono

ad un viaggio tra castelli, ville, edifici,

monumenti, salotti, piazze storiche,

dando a molti la possibilità di scoprire

Milano com’era e com’è.

Cofanetto

 

foto com'è adesso
 

Franco Presicci

Chiusa una porta, può rimanere aperta un’altra. Così Nicola Partipilo, l’editore barese milanesizzato, pur avendo conservato intatto il suo dialetto, costretto qualche anno fa a spegnere definitivamente le luci della sua storica libreria di viale Tunisia, quasi all’angolo con corso Buenos Ayres, continua l’attività della sua casa editrice, la Celip, con preziosi volumi sulla città di ieri e di oggi, sui suoi aspetti più nascosti, sulle sue caratteristiche più ignorate... Volumi ricchi di fotografie di grandi maestri dell’obiettivo, di stampe della Raccolta Bertarelli, del Civico Archivio fotografico del Castello Sforzesco, del Museo di Palazzo Morando, dell’Archivio Storico… di cartoline d’epoca scelte da collezioni pubbliche e private, mappe, documenti e altro.

Copertine tutti i libri
Le pagine dei volumi, apprezzate da docenti universitari, scrittori, storici, direttori di musei… rappresentano un viaggio attraverso il passato ed il presente di questa città, con soste illuminanti di fronte a residenze patrizie, monumenti, facciate liberty di edifici importanti, sostando all’Arena, che nel 1906 ospitò uno spettacolo straordinario, quello di Buffalo Bill con cow boys, indiani, con alla testa Toro Seduto, carri, cavalli, fucili... Il viaggio inizia da piazza Duomo, nel volume “Milano di una volta”, sapientemente curato da Roberta Cordani e introdotto da Ferruccio De Bortoli, già direttore de “Il Corriere della Sera”, prima, e del “Sole 24 Ore”, dopo. Si passa per il centro storico, che durante la fase acuta della pandemia era deserto, con i negozi chiusi e adesso si rianima sia pure a fatica, riprende fiato, e non poteva essere diversamente visto che la città del Porta ha le spalle solide, tanto che tra l’altro oppose una resistenza decisa contro le invasioni barbariche, i saccheggi, e rinacque dopo le piogge di bombe che mutilarono la Scala, la Galleria, piazza San Fedele…
 
Foto prima
Ascoltiamo De Bortoli: “Questo viaggio nella memoria che vi apprestate a sfogliare e a leggere non è solo costituito da passeggiate bellissime e inaspettate, da scoperte sorprendenti lungo il filo invisibile e pure fortissimo della storia, reso possibile grazie al patrimonio di immagini conservate negli archivi e musei della città. E’ un ricostituente della identità milanese, un balsamo della cittadinanza, un biglietto da visita per i turisti e per tutti quelli che giustamente pensano a Milano come un posto in cui stare…”. D’accordo con il principe dei giornalisti, che conosce profondamente Milano, la sua storia, la sua bellezza, la sua grandezza. E l’ama, considerandola com’è giusto “la città del progresso perché sa nutrirlo con entusiasmo e innovazione”. Lo leggi, De Bortoli, e non dimentichi più le sue parole, i suoi commenti, le sue critiche. E a proposito di Milano, l’ami di più.
Foto adesso

“La memoria aiuta a far crescere il desiderio”. E allora entriamo in questi libri e seguiamone il percorso, dal Duomo e dalla sua piazza, anch’essa insidiata dal Covid, che fece sparire persino i piccioni, che non lasciarono segni dei loro rifugi, all’Arena, passando per le case di ringhiera, dove la gente un tempo era legata dal sentimento dell’amicizia e della solidarietà e nelle giornate di sole comunicava da un balcone all’altro stendendo i panni su un filo di ferro messo tra le ringhiere che si fronteggiano. E moltiplicando i passi infiliamoci in via Bigli, dove nll’800 si apriva il salotto culturale della contessa Maffei, che ospitava personaggi illustri, tra cui Verdi, Hayez…. 
 
Viale Regina Giovanna
Da qui al salotto di Milano, la Galleria Vittorio Emanuele, con l’Ottagono che vanta il Caffè Ristorante Biffi e il Savini, per i quali impegnò la sua penna Gaetano Afeltra, che li definì luoghi di appuntamenti di affari e di cuore, frequentati da Marco Praga e Gabriele d’Annunzio dalla Callas e dalla Duse., da Guido da Verona… E il Castello che svetta nella piazza che gli è dedicata. E i Navigli. Aria romantica e suggestiva, popolare, quasi sempre in festa. Provenendo da Amalfi, Gaetano Afeltra se ne trovò un pezzo proprio sotto le finestre della sua pensione, e ne andava fiero. Fu anche questo corso d’acqua, questa via liquida cara al poeta Alfonso Gatto e a tanti altri artisti a fargli amare di più Milano. Il viaggio fa una sosta davanti al “barchett de Boffalora”, che iniziò l’attività come servizio pubblico nel 1777 e dette il titolo a una commedia di Cletto Arrighi; e ai barconi che portavano la merce a Milano e da Candoglia i marmi per la Fabbrica del Duomo e i rotoli di carta al “Corriere della Sera”.
 
Corso Vittorio Emanuele
Notizie intervallate da splendide immagini della Bertarelli, con cartoline celebrative della Grande Esposizione del 1906. Un’acquaforte miniata di Luigi Cherubini del 1840 mostra una giornata di passeggio a Porta Orientale. E si presentano i musei, dove bisogna entrare per conoscere la ricchezza degli oggetti custoditi (per esempio il Poldi Pezzoli, dovuto al mecenate Gian Giacomo, che cominciò a collezionare oggetti preziosi nell’800). E il trenino a vapore che i meneghini soprannominarono “Gamba de legn”. L’altro volume, “Milano com’era e com’è” offre centinaia di altre vedute della città. Si parte con quella della demolizione del ponte della ferrovia delle Varesine, dove negli anni ’60 trovavano posto le giostre più dotate, e si prosegue con quelle dei grattacieli d’ispirazione contemporanea; e con la caserma, oggi demolita, che stava attorno al maniero; e poi con il circo di Buffalo Bill nel 1891 (la prima volta a Milano) nell’attuale piazza Cadorna con uno schieramento di soldati. 
 
Galleria
E trionfa piazza Duomo dell’epoca in cui era ancora consentita la circolazione dei tram e degli autobus. Quindi si arriva a Palazzo Marino, sede del Comune, prima del restauro, con piazza della Scala, dove la corrente elettrica arrivò nel 1885. E il laghetto di San Marco prima della copertura, con un capitolo dell’architetto Empio Malara, presidente degli Amici dei Navigli, che da sempre sogna di rivedere i corsi d’acqua scoperchiati e prende l’occasione di questo libro per riparlarne. “Nello specchio d’acqua che Giacomo Bescapè definiva un impareggiabile fiore dell’architettura milanese, si rispecchierebbero di nuovo sia i palazzi costruiti prima della sua copertura (in sostituzioni delle umili case rusticane che cingevano le sponde) sia quelli costruiti dopo”. Sì, sarebbe bello, caro Empio, vedere Milano attraversata da una ragnatela d’acqua. A riprendere la fisionomia odierna di Milano è stato Marco Partipilo, giovanotto intelligente, sveglio, sensibile e preparato. Sembra nato con l’obiettivo in mano. Si è appostato in piazza Fontana, in piazza Cordusio, in via Manzoni, in via Moroni, in piazza Belgioioso e ha fatto i suoi scatti, uno più bello dell’altro. Le sue foto accostate a quelle di ieri mettono a confronto le due città.
 
Foto adesso
 
“Milano – scrive Claudio Salsi,sovrintendente del Castello Sforzesco -si trasforma sulla spinta di necessità determinate dalla vita sociale, economica, finanziaria, ma anche perché, nel suo peculiare carattere, semplicemente non tollera che le cose restino ferme. Milano si muove animata da un’irriducibile fiducia di poter fare domani meglio di oggi. Nonostante tutto, nonostante le contraddizioni, nonostante la pandemia del Covid”, che ancora serpeggia subdolo e invisibile, annientando vite umane. Al termine di questo viaggio tra piazze e piazzali, viette, viali e strade, palazzi, cortili, ponti, darsena, vicoli come quello dei Lavandai e la sua tettoia e il suo “ricciulin” d’acqua, gli studi degli artisti, i laboratori degli artigiani, largo Cairoli e i suoi teatri, la Statale, corso Venezia e San Babila con la su splendida fontana… non si può dire di essersi annoiati un momento seguendo questo itinerario. A Milano non ci si annoia, c’è sempre qualcosa da scoprire, da ammirare, da godere. C’è sempre qualcosa che ci sorprende; qualcosa che vale la pena di essere vista, come i bagnanti nelle acque del Naviglio Martesana, i pescatori del Naviglio Grande; i tram, le vecchie botteghe; e della città scomparsa le carrozze, la prima strada ferrata da Milano a Monza, i vecchi alberghi, la vecchia stazione centrale, i carretti che trasportavano le masserizie, i giardini pensili, meno appariscenti di quelli di oggi.. A proposito dei quali Francesco Ogliari, fondatore del museo dei mezzi di trasporto di Ranco, scrisse che a Milano bisogna camminare con il naso all’insù. Ma anche “Milano di dentro”, quella che è bella anche dove nessuno la vede. Dove non la vedono neppure quelli che passano con lo sguardo fisso in avanti, L’ultimo sguardo lo rivolgo alla vecchia piazza dei Mercanti com’è oggi, con il Palazzo delle Scuole Palatine e con il passaggio che porta in via Orefici, che una volta era la via riservata appunto agli orafi. Sotto a questa foto ce n’è un’altra dell’Agenzia Argo, che risale agli anni 30. E’ bella, Milano? Come la considerate dopo aver realizzato questo viaggio affascinante?












mercoledì 17 novembre 2021

I ritorni felici in Valle d’Itria

MARTINA FRANCA CON LA NEVE

INDOSSA L’ABITO DA SPOSA

La Lama
 

E’ sempre bella, meravigliosa

la città dei trulli e del Festival

Con la pioggia e con il vento

conserva il suo fascino. Dolce

Martina, ti ho dato il mio

cuore.


 


Franco Presicci 


Via Mercadante
Quando avevo la casa a Martina, in via Alfieri 23, all’angolo in cui s’incrociano quattro vie, compresa la mia, ci andavo anche d‘inverno e godevo la neve e il rumore della pioggia che scende come un torrente verso via Mercadante. Io l’affrontavo con un ombrello grande quasi quanto quelli che fioriscono sulle spiagge, avviandomi verso il locale di Peppino Cito, che fu il primo a Martina a riparare le television. Raccontava che aveva sistemato un’antenna sulla basilica, incantato alla vista della città dall’alto. Oltre a gestire un negozio pieno di ogni tipo di oggetti, dalle ceramiche, che andava personalmente a prendere a Faenza, alle radio, ai lampadari… Una specie di piccolo emporio. In vetrina esponeva anche qualche suo quadro ad olio o realizzato con ogni tipo di materiale tra cui la plastica. Smessa l’attività dopo una cinquantina d’anni, aveva dato in affitto alcune stanze ad un bar, dove Nico Blasi, direttore di “Umanesimo della Pietra”, organizzava conferenze, volendovi ricreare l’atmosfera dei locali storici, come il Gambrinus di Napoli o il Cambio di Torino o il Taveggia di Milano.

Pierino Pavone
Le altre se l’era tenute per sè, dotando, la prima, di un forno per la cottura dei suoi trulli in terracotta o dei fischietti. Fra tutti quei manufatti, la sera alcuni amici si riunivano per la partita a scopone, in cui io ero un punto debole, avendo a che fare con campioni come Pierino Pavone, Ninì Ponte e Franco, un ex maresciallo dell’Aeronautica, capace, nonostante l’età, di fare più di due chilometri al giorno a passo svelto. Giocando, si parlava delle bellezze di Martina, dei personaggi che l’avevano onorata, dell’orologio della torre, che gareggia in altezza con la basilica, sovrastando l’edificio nel quale alloggia la Società artigiana, L’orologio era fermo da tempo e toccò poi a Giuseppe Bellucci, il famoso creatore di campane, rianimare le sue lancette. Il marciatore faceva anche spettacolo con la sua abitudine di contestare le mosse anche del proprio compagno, coinvolgendo quelli che fungevano da osservatori, fra i quali Franchino Lodeserto, inguainato in una bella pelliccia da cui spuntava il “papillon”; a volte l’avvocato Giovanni Chisena, che in gioventù firmava i suoi articoli su “La Gazzetta” con lo pseudonimo “Anchise”; Peppino Montanaro, che leggeva dalla prima all’ultima pagina “Il Corriere della Sera”, divorando gli articoli autobiografici di Gaetano Afeltra, che fu poi dirigente de “Il Giorno”; e, quando non giocava, Ninì Ponte, che aveva avuto un negozio di mobili sullo stradone e aveva poi trasportato in campagna, come cimelio, la sua vecchia falegnameria, compresa la sega elettrica. Alle 19, tutti a casa. Ma Pierino Pavone cenava quasi a mezzanotte e aveva ancora tempo da passare passeggiando per Martina; e mi prendeva a braccetto dicendo che mi doveva far conoscere quel gioiello del suo paese in ogni aspetto.

Uomo sotto la neve
Quindi, salutato Peppino sulla soglia del suo regno, dove, grazie alla posizione del “negozio”, in fondo ad un ampio atrio, e al portone sempre socchiuso o addirittura serrato, non arrivavano le voci del ringo, cominciavamo il nostro giro sino al bar Tripoli, tornavamo indietro, imboccavano il ringo e il cicerone mi istruiva su tutto ciò che di rilevante c’era da sapere, persino le personalità che avevano abitato in questa e in quella casa. In piazza Roma, facevamo sosta davanti al Palazzo Ducale, superavamo l’arco e ci immettevamo in via Bellini, dove lui ricordava l’omonimo cinema, e scarpinavamo fino alla Chiesa del Carmine, dove mi mostrava l’abitazione di Alessandro Caroli, scrittore pregevole, coltissimo, che era stato tanti anni in Australia, fondandovi una televisione. Caroli aveva anche scritto un bellissimo libro sulla storia del Festival della Valle d’Itria, di cui nei primissimi anni era stato l’anima assieme a Franco Punzi e a Lorenzo D’Arcangelo. Era stato anche dirigente della Rai di Bari.

Sott'a San Frangische
La storia di Caroli, esposta nei minimi particolari da Pierino, mi accompagnava fino a San Francesco, dove mi piegavo per bere un sorso alla fontana che sta vicino al benzinaio e poi mi giravo ad osservare la macelleria in cui mio zio Dionigi andava a comperare la carne, che a volte si faceva portare in campagna dallo stesso titolare dell’esercizio, che aveva i trulli vicino ai suoi, sul Chiangàro. Tornavamo sullo stradone, una stretta di mano e ognuno a casa sua. Una sera alla partita preferimmo la mostra di un pittore che era stata elogiata da Mario Rossano in un servizio su Rai3. Rossano era un giornalista barese di ottime qualità, che aveva lavorato per lungo tempo a “La Gazzetta del Mezzogiorno” ed era presente a Martina ogni anno per fare le cronache della rassegna musicale nota in tutto il mondo. Aveva scritto anche un piccolo libro in cui si lamentava di San Nicola, patrono di Bari, che a dire dei suoi concittadini aveva un occhio particolare per i forestieri, e lui proponeva che, stando così le cose, forse era meglio cambiare protettore. Le stesse lamentele si cantilenano e da sempre a Taranto per San Cataldo.

 

Trulli sul Chiancaro

Martina innevata
 

 

 

 

 

 

 

 

Mi piaceva stare a Martina d’inverno. Oltre alla pioggia, e più della pioggia, amo la neve, quando danza nell’aria, così sottile da sembrare una miriade di moscerini e quando si posa a terra, gonfiandosi anche sino a mezzo metro, costringendo la gente ad armarsi di pala per rendere percorribile la strada. Martina sotto la neve è come una sposa, come una fittissima distesa di margherite, come uno dei colori della nostra bandiera. Quando poi il sole la scioglie, lascia un po’ di amarezza in chi l’adora. Non dico che andavo a Martina per vedere la neve.

Abbascià e Blasi

Martina è bella per tante altre cose. Per il suo centro storico, per esempio. Uscivo di casa per far visita a Nico Blasi nel la sua roccaforte di via Caracciolo, dov’era la sede di “Umanesimo”, e non potevo fare a meno di osservare le donne vestite di nero che sferruzzano sulla soglia di casa e quelle che lavano anche il pavimento del marciapiede sul quale si mette il primo piede uscendo. Martina è una città pulita, Le facciate delle case sono bianco-latte. Pulito anche il centro storico. Pulito e ordinato. Silenzioso e tranquillo. E’ come un teatro, con quinte e fondali. I personaggi non sono soltanto le vecchiette con gli scialli sul capo che conversano con i vicini e i passanti; ma anche gli anziani con la coppola che vendono noci e mandorle, in misera quantità contenute in cassette da mercato o in un cesto. E a proposito di cesti, più volte ho tentato d’intervistare una sorta di lucignolo, che ne fabbrica in un locale vicino alla chiesa del Carmine (qualche anno fa era più sotto, di fronte alla rotonda di San Francesco, dove teneva appese al soffitto collane di pomodori e sull’ingresso cassette con vari tipi di verdura o funghi appena colti). Quel signore oggi forse supera i novant’anni, è brusco, sbrigativo e simpatico. I cesti di vimini confezionati da lui sono tanti e quasi non lasciano più spazio per muoversi nel vano, dove hanno girato alcune scene di un film. Avrei voluto anche intervistare “Giorno e notte”, riparatore di biciclette che sta all’inizio della salita di San Francesco e non chiude mai il negozio. 

Benvenuto  Messìa

Chissà se Benvenuto Messìa, il Coppi di Martina, abbia mai affidato la sua all’esperienza di quel lavoratore infaticabile. Se lo avesse fatto, non lo confiderebbe mai, geloso com’è della sua “due ruote”. E’ una vita che la cavalca. E stando su quella sella ha anche scattato meravigliose immagini di Martina. Adesso, che fa l’attore, per quell’arte avrà meno tempo. Lo abbiamo visto recitare in modo convincente con Lino Banfi nelle vesti di un prete, in “Braccialetti rossi”... E si è lasciato riprendere allegramente con attrici famose. Mi chiedo anche se qualche pittore consacrato lo abbia colto in una delle sue volate… Non mi meraviglierei se lo vedessi in un quadro a olio esposto da qualche parte, mentre pedala sulla circonvallazione o su via Taranto. Benvenuto, Messìa. Come fotografo, il poliedrico corridore ha doti eccezionali. 

Forno
Conservo con cura una “brochure” con suoi scatti bellissimi: un vecchio forno acceso; un vicolo che sgattaiola verso una piazza… Benvenuto è nato su una bici e con una macchina fotografica in mano. Se si fanno due passi a Martina, può capitare d’incontrare persone che a Milano o a Roma sono diventate importanti in diversi ambiti: del giornalismo, della televisione, dell’arte, dell’imprenditoria... I martinesi tornano sempre al nido. Un fotografo impegnato in un quotidiano milanese mi disse di non essersi più fatto vivo a Martina dopo averla lasciata tanto tempo fa. Lo riferii una sera a Peppino Montanaro, che la mattina aveva accompagnato una scuola a visitare la Galleria dell’Inferriata con i dipinti di Domenico Carella a Palazzo Ducale, e mi rispose: “Non era martinese”. Se lo era, aveva cambiato casacca, sposando una ligure. Io ho sposato una fanciulla nata a Taranto e come me è legata alla nostra città “accùme le còzz‘a zòche” e a Martina. E insieme ci veniamo con gioia con ogni mezzo tutti gli anni. A volte con il treno, perché da Bari alla Bimare gioisco alla vista di tutti i paesi che vi si avvicendano: Rutigliano, Noci, Alberobello, Locorotondo, la campagna… I vagoni affollati di ragazzi che vanno a scuola e gli alberi che corrono alla velocità del convoglio rendono più felice il viaggio. L’ho confidato al professor Francesco Lenoci e lui, martinese doc., mi ha regalato un’immagine della sua città sotto la neve. Benedetta Martina.
 
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LA "FILASTROCCA" DI FRANCO PRESICCI

     

 

 

 

N‘AMìCHE ‘MBRA LE STèDDE


Quànne n’amìche se ne ve’ ‘mbrà le stèdde

se pòrte apprìesse ‘na ndìcchie de ce l’hà’ vulùte bbène

assèje fu ‘u dulòre a nutìzzie

ca Gerìne no’ge stàve cchiùne

l’avèven’acchiàte le fìgghie

ndesàte ‘ndèrre, cu ‘na tàzze de cafèje mmàne

indr’a ccàse, a Bològne

Me chiamò Nenùcce ‘u fràte, da Tàrde

e me scennèrene le làcreme

accumbagnàte da ‘na mòrre de recùerde

le passiàte ‘a via D’Aquine

a sère e ‘a dumèneche

le bbàgne, le sciuèche

le ‘nzagàte d’a cummèdie indr’a candìne

c’avèveme sdevacàte pè’ fa’ cchiù làrie

le uagnèdde ca purtàvem’a le festezzòle

a ccàse de quìdde e de qìdd’òtre

tùtte stuèzze d’a cumbagnìe

Nu ggiùrne me decìe

Dumàne vòch’a Bbàre cu ‘a bececlètte

se vuè cu avìene, sciàme ‘nzìeme”

Addò hàgghi’avenè’ s’a do rote no’nge a tègne”

E se ne scì’ suletàrie turnànn’a sère

cu ‘na mùrte de le sbìrre

ca l’avèvene ‘ngazzulàte abbendàte sus’a ‘na banchìne

Addelettàve, Gerìne, l’òre ca se passàven’apprìesse a ijdde

èr’accùnge, allècre, speretùse

Sendève prescèzze a passìà’ pe’ Tàrde

scèveme abbasci’a marìne, mmèr’a Duàne

a vedè’ chìdde ca vennèvene vònghele

javatùne, cacasànghe, spuènze

nùce, rìzze, òstreche, dàttere

N’addecriàvene le còzze, mundàgne

quàse a rìpe de màre

Uàrdele, uàrdele cu attanziòne

tènen’a ‘nzegne de ‘na varchetèdde

gnòr’accum’u caravòne.

U sé’ ca jè ‘u tresòre d’u paìse nuèstre?

Nu furastìere c’avèn’ a Tàrde da lundàne

vo cu vè o ‘Gàmmere’ o a ‘Pèsce frìtte’

pe’ ‘nu dentàte, pe’ ‘na trègghie, pe’ ‘na racòste

ma pùre pe’ ‘nu piàtte de mennelècchie”.

Ere bbuène accum’u pàne

addò fatiàve, ‘nu càpe de rròbbe

gnègnere tenève indr’o cerevìedde

Tutt’ama murè’, se sàpe

ma accussì ggiòvane jè ‘na bbòtt’o còre de ci rumàne.

L’avève chiamàte tànd’anne arrète

e me recanuscì sùbbete d’a vòsce

rialànneme ‘na lambesciàte de penzìere

Tàrde de ‘na vòte, ‘a vìlle, ‘u màre

u Castìedde, ‘u puète Dièghe Fedele

ca jàvetàv’a via Messàpie

e screvève de le Caggiùne, de le carrettìere

d‘a frascère, d‘u pezzàre, de vie Dièghe Peluse

a stràte d’a càse de Gerìne

addò je scève, sunàve ‘u cambanìedde

e aprève ssèmb’a màmme,

na segnòre chiène de criànze

Mo’ ’nguàrche sère je òz‘a cape mmèr’u cìele

e no’nge ‘u vète, Gerìne

ma addà stè, so’ secùre: jè ‘na stèdde.





 











mercoledì 10 novembre 2021

LA FEBBRILE ATTIVITA' DELL' ASSOCIAZIONE

 

QUANTI PUGLIESI HANNO CONTRIBUITO

A FARE GRANDE LA CITTA’ DI MILANO


  Abbascià e Al Bano
Da piazza Duomo a via

Pietro Calvi, a via Marsala

8, dov’è oggi la sede, le

iniziative nel nome della

Puglia sono state e sono

numerose e prestigiose, a

cominciare dal Premio,

che ha messo in risalto

negli anni il valore di tanti

personaggi della nostra

regione.

 

Franco Presicci

Anni fa l’Associazione Regionale Pugliesi aveva la sede in piazza Duomo. Due saloni, il bagno un vano adibito a cucina e il bagno. Presidente era Bruno Marzo, funzionario della Regione, originario di Lecce, riservato, umano, volitivo, dinamico, disponibile. 

de Milato e Selvaggi
I soci non erano numerosi come quelli che il sodalizio, alloggiato in via Marsala 8, in una zona elegante e tranquilla, conta oggi, con il generale Camillo de Milato in plancia; e lo scrittore Pino Selvaggi, di Bisceglie - la città del compianto Dino Abbascià, che per anni fu l’anima, nella veste di presidente, dell’organismo – con incarico di comandare gli ingranaggi culturali. Selvaggi veniva anche in piazza Duomo, assieme a Bruno Marzo, ma preferiva tenersi in seconda fila, da dove seguiva quello che facevano gli altri, tra cui il grande pittore Filippo Alto, che si occupava anche delle pubbliche relazioni. E’ a lui infatti che mi rivolsi per la presentazione del libro “Belmonte” di Franco Zoppo, autore dallo stile amabile e coinvolgente, che per anni aveva insegnato latino e greco al liceo classico Archita di Taranto. Filippo accettò immediatamente, e a sedersi sulla pedana per parlare dell’opera fu Arnaldo Giuliani, giornalista eccellente de “Il Corriere della Sera”. 

A sinistra De Grada, a destra Alto
Tra il pubblico, il capo di gabinetto della questura Paolo Scarpis, oggi prefetto in pensione, e l’allora vice questore Lucio Carluccio, oltre ad altre autorità. Bruno Marzo, lo sguardo sopra gli occhiali, sembrava, come sempre, soddisfatto. Senza togliere nulla ai considerevoli meriti degli anfitrioni dell’odierna Associazione, che tra l’altro da tempo alimentano un prestigiosissimo Premio dedicato alla Puglia (hanno dato riconoscimenti anche a Renzo Arbore, che è di Foggia, Livia Pomodoro, di Molfetta, Al Bano, di Cellino San Marco), il gruppo di piazza Duomo fino a quando ha potuto ha realizzato manifestazioni rilevanti. Tra queste, la serata per i trent’anni del periodico “Il Rosone, che, nato a Milano tra gli odori della cucina di Chechele e Nennella al ristorante “La Porta Rossa”, in via Vittor Pisani, se n’era andato a Foggia, perchè il direttore, Franco Marasca, di Troia, professore di lingue straniere e conoscitore di quella russa, vi era stato trasferito; e a Foggia è cresciuto, diventando adulto.

Antonio Velluto
“Il Rosone” era stato accolto con entusiasmo e alla sua nascita celebrata, come detto, fra i tavoli luculliani del “pugliese”, come Gaetano Afeltra indicava Chechele, parteciparono moltissimi milanesi e non solo. Ricordo Antonio Velluto, giornalista e assessore comunale all’Edilizia Popolare, anch’egli di Troia, detto “il principe” per i suoi modi garbati, che ispirarono una simpaticissima battuta al collega Grassi del “Corriere”, arroccato sopra di lui: “In casa io cammino sul velluto”. 

Bruno Marzo

Per la riuscita della serata del trentesimo, Marzo, che, sempre attento a tutto, si prodigò al massimo, tanto che, mentre in auto andavamo alla Galleria “Prospettive d’Arte”, di Mimmo Dabbrescia (anhe lui di Bisceglie), in via Carlo Poma, a due passi dal Naviglio Grande, accorgendosi che non c’erano i bicchieri, si fermò alla Standa della circonvallazione per acquistarli insieme ad altre cose. Anche quella sera, tanti meneghini, le autorità comunali della Capitanata, sindaco compreso, prese la parola Velluto, con il suo solito modo di fare che faceva pensare a padre Mariano, il convincente e pacato predicatore della televisione. C’erano ovviamente anche Falina e Marida Marasca, moglie e figlia di Franco, che nel frattempo era deceduto, e Duilio Paiano, che aveva preso il timone del giornale con Falina, sempre in movimento, sempre impegnata a produrre imprese. E anche questa volta fece la sua parte Chechele Jacubino, di Apricena. E la fece ancora in una serata svoltasi nei locali dell’Associazione in piazza Duomo (in cui apparve come una meteora la giornalista Rai Rosanna Cancellieri), offrendo una “cena” con prelibatezze pugliesi e il pane confezionato da lui stesso.

1989-Vittoria Palazzo(critica d'arte),Bruno Marzo,Filippo Alto

E in quella sede si commemorò Filippo Alto, morto nel ’92, in seguito a un incidente stradale accaduto la vigilia di Natale nei pressi di Ancona, mentre con la moglie Ada e i figli Diego e Giorgio andava a Foggia per trascorrere la festa con la mamma. Nell’occasione qualcuno lesse una commovente poesia dedicata all’artista da Mario Azzella, giornalista e documentarista della Rai, amico da tanti anni di Filippo, di cui aveva seguito tutto il percorso, da molto tempo prima di via Calamatta.

Mario Azzella e Nino Palumbo

Uomo spiritoso, quella sera non seppe trattenere le lacrime. Come non ci riuscì Sebastiano Grasso, critico d’arte de “Il Corriere della Sera”, che aveva scritto tanti articoli per il pittore barese, che in una sua cartella di litografie aveva inserito parecchie poesie del censore siciliano. Filippo era apprezzato anche sul piano umano da tutti: dal commercialista Giacomo Lezoche - studio in corso Venezia 8 e amico dello scrittore tranese Nino Palumbo (“Pane verde”…) -, che in tempi lontani aveva guidato l’Associazione; dal presidente del tribunale civile di Milano Romeo Quatraro, che prese parte alla commemorazione. Bruno Marzo era affranto. Tra l’altro, con la morte di Filippo perdeva un amico e un collaboratore insostituibile. Una settimana prima di Natale volle esporre un presepio in sughero fatto da un socio. Poi a poco a poco il numero dei soci si assottigliò. Alcuni tornarono al paese d’origine; altri scomparvero, come Nedo, ingegnere solito a suonare la chitarra fra gli applausi soprattutto della moglie, una bella signora affabile che sapeva tenere su la compagnia nei momenti di svago, tra balli e chiacchierate, e spesso parlava con simpatia del generale Bramato, che aveva conosciuto il pittore Roberto Crippa, padre dello spazialismo, precipitato con un aereo privato all’aeroporto di Bresso.

Il giudice Romeo Quatraro
 

Fra le attività di Bruno Marzo, va evocata una mostra della sua raccolta di giornali leccesi del primo Novecento, che venne presentata con grande competenza da Guido Gerosa, vicedirettore del quotidiano “Il Giorno” e scrittore (indimenticabili un suo libro sulla fuga di Kappler dal Celio, un altro su Bettino Craxi, “Le piazze di Lombardia”…, le sue biografie di personaggi illustri, di cui una su Fellini… e un suo discorso storico alla Camera dei Deputati). Non andò invece in porto una esposizione di tarocchi storici dell’eminente collezionista Vito Arienti di Lissone, che aveva accettato, ma fu costretto a rinunciare per ragioni di salute. Poi Bruno, tra l’altro importante collezionista di francobolli, cominciò ad apparire stanco, svogliato. Lo notai ancora una sera a cena a casa sua, dove mi regalò una decina di grossi volumi sulla Lombardia. Gli proposi alcune idee da realizzare insieme, e lui accettò senza il solito slancio. Ci sentimmo parecchie volte al telefono, parlammo dell’Associazione, senza però fare progetti. In piazza Duomo continuavano a farsi vedere l’ingegnere Martino Colafemmine, la moglie, la pediatra Anna; Teresa Manfredda, appassionata del sodalizio; un tale, di cui non ricordo il nome, innamorato di Leopardi; e pochi altri. 

 Vito Plantone e Arnaldo Giuliani
 

Lezoche sul balcone a Trani
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una mattina mi telefonò Teresa e mi riferì che l’Associazione stava per cambiare sede con la guida di personaggi nuovi: tra questi, Dino Abbascià, illuminato imprenditore ortofrutticolo, che tra l’altro sedeva in vari consigli di amministrazione ed era vice presidente di Confcommercio, stimatissimo dal presidente, il comasco Carlo Sangalli; Pino Selvaggi, funzionario di banca, che proprio in questi giorni, parlandomi di Bruno Marzo, mi ha detto che sentendosi alla fine, Bruno gli chiese dove avrebbe potuto trovare delle buone aragoste e dei tartufi. Non seppi subito della scomparsa di questo gentiluomo leccese, che amava la vita e la gente. Quando c’erano le elezioni, politiche o amministrative, invitava tutti i candidati pugliesi, nessuno escluso, perché venissero ad illustrare i loro programmi. Venivano tutti, e qualcuno è rimasto fedele all’Associazione, come Riccardo De Corato, di Andria, la città di un altro pugliese famoso: Guglielmo Miani, che a Milano ha costruito anche lui un impero, e ospitò nella sua abitazione Filippo di Edimburgo ed altre altissime personalità. Con Abbascià e poi con il generale Camillo De Milato, le iniziative si sono moltiplicate e continuano con fervore, sempre in nome della Puglia. 

Lenoci, Gualtiero Marchesi e Abbascià
Ho in mente le presentazioni di libri; le gite per conoscere paesaggi, storie, ambienti, persone; gli incontri con gli autori, le conferenze, i contatti con altri sodalizi, le feste all’Hotel Quark o in quello di via Washington, animati da Dino, sempre impegnato a valorizzare anche attraverso il Premio, uomini e imprese, come, per esempio, le donne del vino di Manduria.
Oggi con De Milato il programma si è fatto più intenso, con manifestazioni in sedi prestigiosissime, storiche, davanti a un pubblico elevato. Da parte mia, mi sono assegnato il compito di mantenere viva la memoria dei pugliesi che hanno dato un grosso contributo a Milano, distinguendosi nei giornali, nell’imprenditoria, nelle banche, nel giornalismo ... Ovunque, tenendo alto il nome della nostra regione. Sono tanti: Guido Le Noci, che nella sua Galleria di via Brera accolse i maggiori rappresentanti dell’arte contemporanea; Nino Palumbo, Giacomo Lezoche; Martino Colafemmina, che morì travolto da un treno in una stazione; il giudice Romeo Quatraro; il professor Ferruccio Miraglia, tra l’altro artefice del parto indolore e innovatore dell’Ospedale per bambini Castelvetro; Guglielmo Miani, che da semplice sarto negli anni crebbe a tal punto da essere inserito nell’albo d’oro dei grandi maestri dell’ago, noto e apprezzato anche in Gran Bretagna; Peppino Strippoli, che a Milano aprì diversi ristoranti (uno: “’Ndèrre a la lànze”) e il supermercato del vino a Saronno); Vito Plantone, che fu uno dei pilastri della questura, sin dai tempi di Mario Nardone, (Vito fu poi promosso questore e resse le sedi di Catanzaro, Brescia, Palermo…, sempre inflessibile, altamente professionale); Ferdinando Oscuri, il maresciallo di ferro… A proposito, sento dire che nel capoluogo lombardo è sorto un nuovo sodalizio, “Pugliesi a Milano”. Andrò a curiosare anche lì. Non si lascia indietro nessuno.

                                                          

mercoledì 3 novembre 2021

ENZO VALLI, ATTORE NOBILE E PRESENTATORE / In calce: ‘U SUE’NNE(filastrocca sulla cozza tarantina) di Franco Presicci - UNA PROPOSTA PER TARANTO

Enzo Valli
RIDETTE VITA AL PERIODICO 

‘”U PANARIJDDE” FONDATO NEL 1902 DA

VINCENZO LEGGIERI

 

Lo storico giornale aveva avuto tra i

direttori Alfredo Lucifero Petrosillo,

commediografo e poeta, autore pure

d’“’U travàgghie d’u màre” Valli, al

secolo Vincenzo Murgolo, era un

figlio d’arte, noto e stimato non solo 

nella Bimare.

 

 

Franco Presicci

Una mattina degli anni 80, fra lo stupore dei cittadini più anziani, nelle edicole di Taranto ricomparve “’U Panarijdde”, il periodico satirico umoristico fondato nel 1902 da Vincenzo Leggieri, dialettologo e tipografo.

Non era stato preceduto da suoni di tromba o da grancasse pubblicitarie; e ai meno attenti era sfuggito. A dirigerlo era Enzo Valli, al secolo Vincenzo Murgolo, che aveva seguito le orme del papà, maresciallo dei vigili urbani, sui palcoscenici della Bimare e non solo, dimostrando il suo talento di attore. Partecipò tra l’altro come protagonista e regista in tante commedie, in lingua e in vernacolo, del Teatro stabile “Emanuele Murgolo”, intitolato al padre. Lo conobbi personalmente quando avevo vent’anni: un eccellente giovanotto, con un chiosco di alimentari in piazza Marconi, mercato che in seguito venne trasferito in piazza Fadini. Era alto, generoso, disponibile, cortese. Erano i tempi di interpreti come Mirabile, Casavola, Murianni…, tutti bravi anche nella vita. 

Diego Marturano
Quando ci incontravamo, l’argomento preferito di Enzo erano le opere dei nostri poeti, scrittori, commediografi, da Diego Marturano ad Alfredo Nunziato Majorano, a Bino Gargano, ad Alfredo Lucifero Petrosillo … Avevo l’impressione che sapesse quasi a memoria alcuni dialoghi di ’U cuèrne de Marije ‘a canzìrre” di Marturano, autore fra l’altro di quella commovente, elevata poesia “’U relògge d’a chiazze” e di altre. Ricordava anche “’A stutàte” di Majorano, che tanto piacque a Rizzo, il direttore de “La Voce del Popolo”, tranne la battuta finale del padre che scopre la figlia e il fidanzato nell’atto di scambiarsi un bacio. Avrebbe dovuto, per Rizzo, valente critico teatrale, esprimere perplessità senza profferire parola. 

Il Ponte girevole
 

Nella sala del cinema Dopolavoro Ferroviario, quella sera, c’era anche Saverio Nasole, che ha lasciato versi deliziosi, ancora oggi recitati. Taranto ha una ricchezza di poeti. Un ceramista della città vecchia, Santoro, mi regalò in fotocopia una quindicina di pagine del 1959, titolo “Le nuove canzoni tarantine” del Complesso folkloristico “Armonie dei due mari” diretto da Saverio Nasole, in cui, fra disegni di Ila Vincenzo Greco, leggo “’’U cucchière”, versi e musica di Saverio Nasole; “’A ferbaròle”, musica di Saverio Nasole”; “Ci ‘a pìtte ‘sta cìttà”, musica di Nasole e versi di Carmelo Tommaso Imperio, che negli ’60 fu direttore dell’Enal, con la passione per il teatro. 

Piero Mandrillo
Assistetti con Piero Mandrillo al Circolo Sottuffuciali alla commedia “Trenta secondi d’amore” della filodrammatica dell’Ente, che aveva la sede in via Di Palma, sul Teatro Odeon. Enzo Valli era sostenitore del vernacolo. Nel 2000, ripescandolo, diresse “Uelìne ‘u panarijdde”, dove rendeva omaggio anche all’ispirazione di Carmen Adamo. Lo ammiravo e gli volevo bene. Era dinamico, pieno di idee, legatissimo alla città. Dette la sua collaborazione a una tv privata che valorizzava il vernacolo, svolgendovi vari ruoli, e ottenne molti consensi anche al di fuori dei confini della Bimare. Lo incontrai un giorno, dopo tantissimo tempo (ero già a Milano), sotto casa sua. Mi venne incontro e mi abbracciò calorosamente. Mi fece tante domande e io ne feci a lui. E andammo indietro nel tempo, quando Enzo era un attor giovane con una strada già aperta a una carriera brillante. 
Mar Piccolo
Mi parlò di Taranto, ricordò la figura di Falcone, altro noto attore e regista ben collaudato, che provava al circolo dell’Arsenale, con attori di ottimo livello, fra cui Murianni, che lavorava non ricordo se all’Arsenale o al Cantiere Tosi, personaggio che dominava il palcoscenico anche per la sua statura. Notevole sulle scene anche D’Andria, persona cortese e rispettosa. Questi i nomi rimasti nella mia memoria, ma ce n’erano molti altri. La signora Casavola mi fece l’onore di recitare nella commedia di Majorano “’A Sànda Mòneche”, al Circolo dei Marinai, nel corso di una festa della matricola, fra gli applausi del pubblico e dell’autore, che poi scrisse su “La Voce del Popolo” un commento lusinghiero, augurandosi che noi mettessimo in piedi il teatro universitario a Taranto come quello di Bari, che venne a recitare alla grande fra i due mari un testo di Jean Anohuil.
 
Lungomare
Eravamo infatuati del teatro. Fra gli studenti, soprattutto il simpaticissimo Minguccio Montrone, che poi divenne direttore delle Poste, se non sbaglio a Varese, e Ninì Vanacore, che, mi riferirono, si guadagnò un rispettabile successo nell’ambito dello spettacolo. Enzo Valli continuava la sua strada, mietendo consensi, anche autorevoli. Ne aveva accumulati sin dal giorno del suo esordio, nel ’46, c on il nel Teatro Stabile di Taranto, con il quale nel ’48 apparve alla ribalta del Teatro Orfeo con “I figli di nessuno”. Successivamente fece un giro per l’Italia nella veste di presentatore in una compagnia di avanspettacolo, arricchendo la sua esperienza e incrementando la sua popolarità. Ma il primo amore non si scorda mai, e rieccolo in teatro a Roma. E poi ancora presentatore in manifestazioni canore con Mario Merola, Sergio Bruni, Miranda Martini… E ancora presentatore alle semifinali di Miss Italia. Vinse premi, collaborò con Enzo Tortora, fu amico di Walter Chiari… Insomma un bel “curriculum”, vissuto anche su scala nazionale. 
 
Alfredo Nunziato Majorano

Nel gennaio del 2007, trovandomi tra le mani “Uelìne ‘u panarijdde” (ca no tène pìle sus’a lènghe) edito da lui, ebbi il piacere di leggere “’U sfòghe de Memème ‘a frusckelòne”, “Strìtte ca ère… càvete ca facève” e una splendida poesia di Claudio De Cuia, poeta consacrato oggi ultravovantenne, del quale avevo da poco riletto “Arie de Pasche”, pubblicato da Mandese. Mi tornarono alla mente a valanga i miei anni giovanili, i miei contatti con Tommaso Carmelo Imperio, di cui presentai un libro di poesie, “Contrasti”, nella sala di rappresentanza dell’Amministrazione provinciale, presenti, fra gli altri, la poetessa Anna Tancorra e il vicequestore Barbalucca. Accennai anche a Vincenzo Leggeri, che aveva fondato il primigenio “’U Panarijdde” nel 1906 nella sua tipografia alle spalle dell’Ospedale Santissima Annunziata, dove era primario traumatologo il professor Michele Pierri, grande poeta in lingua, che nel 1948 ebbe una rilevante segnalazione al Premio St. Vincent di poesia e Giuseppe Ungaretti lesse in pubblico alcuni suoi versi. Il dialetto è musica per me. 

La Concattredale

Sono cresciuto “c’u Panarijdde”, che aveva avuto sulla plancia anche Alfredo LuciferoPetrosillo, autore prolifico e amabile. All’epoca di Leggieri moltissimi leggevano “’U panarijdde”, che poi passava di mano in mano. E quando tornò in vita con Enzo Valli tanti anziani si dissero felici, come lo erano stati quando prendevano il progenitore. I giovani non ne avevano sentito mai parlare ed erano meno interessati alla parlata del popolo, che Majorano andava ad ascoltare “abbasci’a marìne”. A portarmi una copia del periodico era stato un mio parente, lo sfogliai subito e telefonai a Enzo congratulandomi per l’dea che aveva avuto. Lui torno a rispolverare gli anni giovanili, ricordando che era stato il padre, attore nobile, a cooptarlo nel 46 per una parte in “Eva in vetrina” di Guglielmo Giannini. Enzo dimostrò di avere talento e fu spronato. 

Poi venne il cinema ed eccolo protagonista nel film “Vedova del trullo”, con Rosa Fumetto, Renzo Montagnani…. Quanti ricordi, quanti successi: la vittoria al Festival nazionale di prosa di Pesaro con “In nome del padre” di Cesare Giulio Viola, l’autore drammatico che nel ’24 aveva ispirato a De Sica, con il suo “Pricò”, “l bambini ci guardano”. Di Viola vidi al Teatro Orfeo “Venerdì Santo” con Emma Gramatica ed Elsa Merlini. Se non sbaglio, c’era anche Paolo Carlini. Non mi limitai a telefonare a Enzo. Scrissi anche un articolo, che lo commosse. Mi capitò di parlare tra amici di Enzo a Milano in occasione di una serata per la Bit al circolo dell’Unione del Commercio, dove mi aveva invitato Dino Abbascià. 

Via Dante
Sentii un gruppetto di ospiti, che, seduti a un tavolo vicino a quello occupato da me, dal professore Francesco Lenoci e da altri, parlare di Taranto, della Mostra d’arte contemporanea, svoltasi nel ’51, del teatro amatoriale e non, delle cozze tarantine, che erano l’oro della città e tesi le orecchie. Lenoci, sempre curioso, mi interrogò su quegli argomenti, soprattutto sulla rassegna artistica, sulla quale avevo scritto un articolo pubblicato da “L’Unità”. E concludendo sul teatro, accennai ad Enzo Valli e in breve alla sua carriera. Mentre il gruppetto i tarantini a tratti usavano il dialetto e ci arrivavano vocaboli come “splennòre”, “grand’ome”, “’mennelècchie” “lippe”… Li usavano con gradevolezza, incastonandoli nelle loro conversazioni. Mi vennero in mente le commedie a cui avevo assistito o che avevo soltanto letto e i vari interpreti. Poi volò la parola furbòne. Ce ne davamo tanti da ragazzi, incrociando le dita, soffiando aria nel palmo delle mani tenute a coppa e colpendo sulla nuca i compagni di gioco. Lenoci tornò a chiedermi di Enzo Valli, e subito dopo mi accorsi della presenza di Costa, presidente dell’Ente per il turismo di Taranto, e andai a salutarlo. Enzo aveva visto la luce il 7 ottobre del ’31. Ed è morto all’età di 88 anni nel gennaio del 2020. L’ho saputo tardi e per caso, intrattenendomi con un amico sui vecchi tempi tarantini, così lontani e così presenti in ogni momento.

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2021 - Pescheria via Galeso - Taranto

 

U SUE’NNE

di Franco PRESICCI

(2^ "filastrocca" sulla cozza tarantina. La 1^ è stata pubblicata sul precedente articolo "Il viaggio in volo affascina").



 

 

 

 

DALLA VOCE DELL'AUTORE:

 

 

DAL TELEFONINO:  'U suenne


U SUE’NNE


Je no’nge vòche ssèmb’o mercàte d’u quartìere

camenànne pòzze pùre scunecchiàre

e ‘u bastòne no’nge avàst’a fàrme stà’ ’mbìede

Na matìne, ère ‘nu splennòre de sciurnàte

sènze mànghe ‘na jatàte de vìende

accumbagnàte d’a segnòre

lemme-lemme hàgghi’azzardàte

e passànne da ‘nu bànghe a l’òtre

mere ‘nnànde, mère rète

a mmàna dritte e a mmàna tòrta

hàgghie sendùte ‘na vòsce da trumbòne

ca candàve: “Accattàte ‘ste gàmmare, ste pùrpe

uardàte quànd’e jè bbèdde ‘stu dentàte

zùmbe angòre, accùm’a ‘n’angelìedde

e le calamàre, le sècce, le sàreche

le sàrde le dòche a sùle quàtt’eure

e le còzze, po’, so ‘na raretàte

pròpete bbòne so’, m’avìta crèrere

mduvenàte d’addò me l’hànne mannàte

da Tàrde, ‘u paìse d’addò avègne pur’je

le canuscìte le còzze tarandìne?

Accùme le vulìte cucenà’? V’u ‘mbàr’je

a racanàte, ‘a puppetègne, ‘a scapèce

o ‘a marenàre.

A fàcce d’u culòre d’a castàgne, màzze e jrte

le capìdde mìenze viànghe e mìenze gnùre

facèv’a mòsse de sunà’ ‘u viulìne

e repegghiàve ‘nzurdescènne.

Tòtte ‘na vòte ‘nu vecetàre ‘n’accattò’ ddò chìle

e se ne scì’ cundènde, cu tànde de surrìse

ndramènd’a mmè’ me ferfèv’u sànghe

secùre ca chìdde còzze

no’ng’èrene d’u sciardìne d’u Mare Peccerìdde

U pesciauèle, pe’ capacetàr’a ggènde

fòrs’avève ‘nzeccàte indr’a mamòrie

nguàrche cìgghie d’a parlàta nòstre

e l’ausàve pe’ vandà’ mègghie ’a mercanzìe

A mmè’ no’nge me dè’ prescièzze

mettèrm’a descòrrere cu ceccessije

ma ‘o pesciauèle m’avenève da dìcere

Cumbà’, ’a còzza tarandine jè ‘n’òtra còse

na meravìgghie, ’na reggìne, ‘nu capetàle

n’‘accellènze, mèrete respètte, anòre

mbàcce ‘a jèdde accòrr’ascenucchiàrse

le còzze ca stònne arruccàte sus’a ‘stu bànghe

no’nge dìche ca no sso’ bbòne

ma no sso’ de Màre Pìcce

na vòte t’hàgghie dàte adènzie

peccè da tànda tìembe tenèv’u spiùle

e ‘u sapòre no’ng’ère quìdde ca sacc’je”

Ma s’je aprèv’a vòcche e pretecàve

Attìend’a a no’nge fa’ sendè’ ‘a fòdde

putève sciucà’ ‘na brùtta càrte

ggià ‘u pesciauèle parèv’appezzecalìte

Accussì cangève stràte penzànne

ca s’addà defènner’a còzze ca n’appartène

ce dìce ca jè l’òre d’a cetàte dìce ggiùste

sarà ‘u màre, ’a maistrìe, ‘u ggènie de le sciardenìere

a còzze ca nàsce abbascie ‘a Marine

no se po’ ‘mbarendà’ cu l’òtre

no’nge l’assemègghie.

Po’… ‘nghiùmma-‘nghiumme m’hàgghie descetàte.


                                                                   Franco Presicci

     

                               

UN MONUMENTO ALLA COZZA TARANTINA A TARANTO

UNA PROPOSTA DA ACCOGLIERE SIMILMENTE ALL’INIZIATIVA DEL COMUNE MODENESE

Castelfranco Emilia dedica un monumento al ‘tortellino’

Castelfranco Emilia, lungo la via Emilia fra Modena e Bologna, è la ‘patria’ del tortellino: nonostante le eterne rivalità fra le Due Torri e la Ghirlandina, la leggenda racconta che qui nacque la pasta che è emblema dell’Emilia. E proprio per celebrare questa sua lunga tradizione culinaria, la città di Castelfranco ha dedicato un monumento al tortellino tradizionale, in piazza Aldo Moro. 

L’opera è firmata dallo scultore Giovanni Ferrari di Pavullo.  

Nel bronzo è stata rappresentata la ‘famosa’ scena della genesi del tortellino, celebrata anche dal poeta Alessandro Tassoni: si narra infatti che il tortellino sia stato ideato all’osteria Corona di Castelfranco, dall’oste che aveva spiato l’ombelico di una bella signora, ospite della sua locanda. Il monumento raffigura quindi il curioso gestore dell’osteria che sbircia, attraverso un ideale buco della serratura, la bella dama che si sta spogliando: al centro sta il tortellino, re della tavola di Castelfranco e di tutta la regione. Le sculture sono incastonate in una fontana.