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giovedì 30 novembre 2023

Un Libro fotografico di Rocca e Scibona

Copertina del libro
MILANO, IL SUO CUORE, I SUOI

PALPITI SORPRESI DA DUE OBIETTIVI

MAGICI.


Due fotografi per passione antica hanno

colto la città nei suoi vari aspetti: la moda,

lo spettacolo, lo sport, l’arte, lo svago, 

il lavoro. 

“Milano, storie minime” è proprio prezioso.


 

 

 

Franco Presicci

L'editore Giacovelli
Ci sono ”cronisti” che usano la macchina fotografica anziché la parola scritta. E l’obiettivo riprende la realtà con immediatezza. Se l’operatore è anche un artista il risultato è un capolavoro. In ”Milano, storie minime” - editore Iacovelli – libro che contiene decine di fotografie stupende, Enzo Rocca e Alberto Scibona hanno ordinato perle colte introducendosi in angoli a molti sconosciuti della metropoli lombarda. Una città è come un teatro, con i suoi fondali, le sue quinte, le sue luci, i suoi attori. E loro hanno saputo riprendere con maestria ogni aspetto della vita quotidiana che va in scena ogni giorno e ogni notte: l’uomo che legge, la signora che si aggira tra gli scaffali di una libreria, l’altra indecisa sui prodotti esposti al supermercato o in una vetrina, lo spazio Alda Merini sul Naviglio Grande, dove si apre anche il museo dedicato alla poetessa…Via per via, vicolo per vicolo, piazza per piazza, bottega per bottega, negozio per negozio… ne hanno macinato di strada i due “esploratori”. Quante scarpe hanno consumato, come ne consumò Giovannino Guareschi nei primi tempi del suo lavoro e i cronisti di una volta, la cosiddetta vecchia guardia, che cercava le notizie con il lanternino, mangiando polvere e panini. Ma per questi due maratoneti curiosi, eccellenti davvero, non deve essere stata una fatica scarpinare per immortalare ciò che d’interessante passava sotto il loro sguardo.
 
foto di Enzo Rocca

Ad ogni scatto una gioia. Via Torino, via Mecenate, via Tortona; i quartieri Greco, Bovisa, Lambrate… le stazioni ferroviarie; la Galleria Vittorio Emanuele, la Gae Aulenti, segno del progresso, la gente. Gente ovunque. Quasi non c’è pagina senza una presenza umana: al Parco Sempione; in Galleria del Corso, dove negli anni ‘60 avevano la sede la maggior parte delle case discografiche (dalle Messaggerie Musicali alla Carosello); la Biblioteca Sormani; la piazza d’armi del Castello Sforzesco; le esposizioni d’arte; gli avvenimenti, che a Milano non mancano mai; le case di ringhiera. Giornate e giornate in cerca della vita di Milano, dei suoi personaggi: gente stesa sulle sdraio su un prato tra grattacieli dalle forme ardite, i mercatini, il Castello Sforzesco: forse più le persone che i luoghi o le persone nei luoghi.

Giacovelli, Rocca, Scibona, Consonni
 

Foto di Alberto Scibona
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ecco dei giovani nel giardino condiviso di via Scaldasole, antica contrada di Porta Ticinese, che ricava il nome da un tempio, San Pietro in Scaldasole: da “sculdascia”, tributo spettante ai capi longobardi; il venditore ambulante di carciofi, che ricorda una pubblicità con l’attore Ernesto Calindri, simpatico gentiluomo. Bellissime foto, tutte in bianco e nero. Voli di colombi, il Centro Barrio’s alla Barona, il Conservatorio Giuseppe Verdi, la Scala, regno della lirica, il Cimitero Monumentale con le tombe dei personaggi illustri. Bravi, bravissimi, questi due maghi dello scatto, questi indagatori instancabili della città che si evolve, che non vuole essere come prima, desiderosa sempre di aggiungere o togliere tessere al proprio mosaico. Una città bella, affascinante, con piazze meravigliose, tra cui la Belgioioso, dove sbocca la via Morone, che conteneva il salotto culturale della contessa Clara Maffei; piazza Cordusio sorta come piazza degli affari; piazza Diaz, spuntata sulle ceneri del Bottonuto, quartiere malfamato in cui oggi s’innalza la Terrazza Martini e la “Fiamma” dei Carabinieri eseguita da Luciano Minguzzi; giovani che giocano a ping-pong all’aria aperta o al pallone che fa fremere gli stadi. Ho conosciuto Enzo Rocca a Martina Franca.

Dalla gloriosa Valle d’Itria mi condusse a Taranto, al Castello Aragonese affacciato sul Mar Grande e sul canale navigabile. Sempre con la macchina fotografica per celebrare il Mar Piccolo, i vicoli della città vecchia, i ponti, le pusterle... Ovunque vada, lasciata la Bimare, a Verona o altrove, fa i suoi preziosi “clic”. A Miano, potendosi muovere più liberamente grazie alla pensione (era vicedirettore di un istituto di credito), trascorre un po’ del suo tempo sulla strada o nel chiuso di una chiesa per cogliere un’altana, i giochi di una navata, un coro, un’abside, un presbiterio, un pulpito, un fonte battesimale, devoti in preghiera. 

Alberto Scibona
Con Alberto Scibona ha fatto un ottimo lavoro, anche se ognuno ha un suo punto vista: Rocca preferisce il panorama, la scenografia, la Milano verticale, la Milano spettacolare; Alberto Scibona gli atteggiamenti delle persone, le loro espressioni, le maschere, la fatica, le abitudini, i “tic”… L’uomo affacciato alla finestra a guardare il passeggio o un accadimento; il giovane con il telefonino in mano sotto il ponte Alda Merini a Porta Ticinese, i chitarristi, la cartomante, i cantieri, un bacio fra due innamorati a Brera con una didascalia icastica, come altre: “Bacio accademico”. Si è detto che “la vita senza cantieri è come una bocciofila senza bocce”; e a Milano gli stabili incamiciati sono tanti. Ma ecco più in là tre anziani che giocano a briscola. Tutte queste immagini messe insieme fanno un quadro completo della città. Compresi i cani. Già, anche i cani sono meneghini -nota Scibona - anche se di gambe ne hanno quattro e non due. C’è anche dell’ironia a volte in queste foto. Foto da custodire nel punto più in vista della libreria. Rocca e Scibona sono testimoni del tempo. Un bel “duo” a volte divertente e sempre preso dalla una cronaca visiva o in un’opera d’arte. Chi scorre queste pagine si sente tra quelle piazze, in quelle vie, sotto quei monumenti, accanto a quell’operaio con la fiamma ossidrica o vicino a quell’omaccione grintoso con il microfono sotto il naso: il momento della protesta, dell’urlo; o alla stazione Centrale, dove, nel grande ventre, arrivava il treno della speranza, scodellando giovani spaesati che venivano dal paese tranquillo, con le case basse, le vie strette, i tetti con le tegole rosse, i vecchi seduti sugli scalini della chiesa, docenti per giovani attratti dalla loro saggezza, maturata negli anni. Quei giovani sono oggi bancari, operai specializzati, liberi professionisti, librai. Il titolare della libreria di viale Tunisia 4, Nicola Partipilo, da Bari venne con quel treno, cominciò facendo il barista, poi il commesso di libreria e, portando in bicicletta i volumi a domicilio, studiava Milano, le sue vie del centro, della periferia, decidendo infine di fare l’editore di volumi su “la gran Milan” e la Lombardia. Dopo tanti anni, quella libreria è stato costretto a chiuderla per i costi volatili e la gente quando passa ricorda che quelle vetrine erano ricche di titoli: “Le cascine di Lombardia”, “i Cortili di Miano, “Le piazze di Lombardia”, “I castelli della Lombardia”… Le edizioni Celip fanno parte della storia della città, il cui “cielo è bello quando è bello”. E a Partipilo non resta che pensare ai suoi fotografi: Mario De Biasi, Fulvio Roiter, Piero Orlandi, tutti grandi, e ai suoi autori: Gaetano Afeltra, Empio Malara, Ferruccio De Bortoli, Carlo Castellaneta, Guido Lopez, Guido

Enzo Rocca

Gerosa, Andrea Bosco… altrettanto grandi.
Rocca e Scibona, se Partipilo avesse continuato l’attività, avrebbero potuto essere tra i suoi maestri dell’obiettivo, e sarebbero nati volumi sul canto, sulla danza, sulla pittura “en plein air”, come l’annuale Bagutta, all’aperto, nell’omonima via, sui riti… Due parole merita l’editore Paolo Iacovelli. E’ di Locorotondo, un paese-bomboniera della Puglia in territorio barese; ha trent’anni e ha giù pubblicato un bel numero di titoli, uno degli ultimi: “Milano, città di passaggio o di nuove radici?”, seconda edizione, presentato poco tempo fa al Book City, nel capoluogo lombardo, e sempre nella città del Porta sono stati presentati altri libri editi da lui, uno al mercato di Porta Romana, quartiere caro a Giorgio Gaber. Ora bisogna presentare una seconda volta questo di Rocca e Scibona, un libro fotografico per i milanesi e per gli innamorati di Milano, che sono davvero tanti, nativo e non. Enzo Rocca aveva vent’anni quando ha cominciato a fare fotografie, con la voglia di scoprire nuove culture e nuove atmosfere, nuovi luoghi, nuove persone; di raccontare storie per immagini. Preferisce il ritratto, il reportage, la gente, la sua anima. Alberto Scibona è musicista e passa la sua vita fra note e “clic”. Ha scoperto la fotografia grazie al padre e al nonno. Usa la macchina per documentare la vita di ogni giorno, le passioni e i comportamenti della gente così come la sorprende nel contesto urbano. “Tutto il suo percorso fotografico è caratterizzato dalla ricerca del ‘lato teatrale’ e spesso grottesco dell’umanità”, offrendo un profilo della città a chi la conosce poco. Un libro da tenere ben custodito soprattutto, ripeto, da chi ama Milano, qui scrutata con occhio vigile e attento nelle sue arterie: lo spettacolo, giostre comprese, la moda, l’arte… E anche il gioco, lo svago, l’umorismo, le chiese, la vita conventuale. Milano, con le sue anime.












sabato 25 novembre 2023

MANIERISMO - RELAZIONE DI ANTONIO SANTORO


 

IL DECADENTISMO: LUIGI PIRANDELLO - Novelle: pagine scelte

Relazione:

Silvia Laddomada
21.11.2023 - 2° INCONTRO

Relazione di Silvia Laddomada

Originario di Agrigento, nacque in una villa che si chiamava "Caos", nel 1867.

Uomo di cultura, poeta, scrittore, autore di opere teatrali. Pirandello ha scritto poesie, romanzi e opere destinate alla rappresentazione teatrale. Seguiva le Compagnie che portavano in scena le sue opere. Opere presentate in prestigiosi teatri europei ed americani, con enorme successo.

La sua fama è mondiale, il suo pensiero, la sua filosofia sono universali. Ricevette il premio Nobel per la letteratura.



Il padre gestiva delle miniere di zolfo, aveva investito tutti i capitali, compresa la dote della moglie di Luigi, figlia di un socio di papà Stefano.

La moglie soffriva di crisi depressive. In seguito all'allagamento della miniera, la famiglia subì un forte crollo economico e la moglie ebbe un tracollo nervoso.

Ricoverata in una cosa di cura, Luigi le stette sempre vicino, limitando la sua libertà e proteggendola con il suo amorevole affetto. Collaborava come scrittore a riviste e giornali, per superare le ristrettezze finanziarie.

Un'altra tragedia che lo coinvolse riguarda il figlio Stefano (aveva 3 figli). Fatto prigioniero, nel primo conflitto mondiale, dagli Austriaci, fu tenuto in un campo di concentramento fino alla fine della guerra.

Queste amare esperienze di dolore influirono molto sulla sua triste concezione della vita.



Alla sua morte, nel 1936, Mussolini aveva decretato i funerali di Stato, ma lo scrittore, prima di morire, aveva espresso il desiderio di essere portato al cimitero, nudo, avvolto in un lenzuolo, col carro dei poveri.

Le sue ceneri riposano in un cratere, sotto l'albero di pino a lui caro, nella sua villa "Caos".


Vissuto nella seconda metà dell' 800, Pirandello riflette la crisi del Positivismo: la scienza aveva perso il carattere di verità assoluta, la sfiducia nella ragione aveva generato insicurezza, dubbi, scetticismo, incomunicabilità. La nuova fisica si fondava sulla teoria della relatività dei fenomeni. Ogni punto di vista era relativo, non c'erano certezze. Si respirava un' aria di generale inquietudine che Pirandello esaspera e rappresenta in situazioni paradossali, che a volta si verificano realmente, facendo parlare di "vicende pirandelliane".

La vita é una grande "pupazzata", egli dice. Gli uomini sono tanti pupi nelle mani di un burattinaio invisibile, il caso.

Quando nasciamo ci troviamo inseriti, per puro caso, in una società con le sue leggi, le sue convenzioni, le sue abitudini. In questo contesto la società o noi, ci assegniamo una parte, ci fissiamo in una forma, indossiamo una maschera, e ci muoviamo secondo schemi ben definiti. Ciascuno di noi ha un ruolo: magistrato, maestro, medico, sacerdote, commerciante.

Sotto l'apparenza della "forma" però, noi abbiamo sentimenti o impulsi che spesso sono in contrasto con la maschera che altri, o noi, ci siamo imposti.

C'è sempre questo contrasto tra vita e forma, tra realtà e maschera.

C'è sempre un contrasto tra ciò che vorremmo essere e ciò che ci costringono ad essere.

Una volta avuto un ruolo, ci comportiamo come quella maschera impone, freniamo gli im pulsi, gli istinti, per non urtare contro i principi della società, o per buona pace del nostro spirito.

A volte però l'anima istintiva esplode, facendo saltare i freni inibitori. Allora la maschera si spezza e siamo come "un violino fuor di chiave", cioé stonato, nel contesto sociale.


La libertà che abbiamo cercato, togliendo la maschera, é però di breve durata, in quanto il nostro nuovo modo di vivere ci imprigiona in una nuova forma, in una nuova maschera, diversa ma altrettanto soffocante.

Quando l'uomo scopre questo contrasto tra la maschera e l'essere, può reagire in 3 modi dice Pirandello.

1) La reazione passiva: rassegnarsi alla maschera, vivendo con dolore la frattura tra la vita che si vorrebbe vivere e quella che si é costretti a vivere.

Vive in modo sdoppiato (Il fu Mattia Pascal).

2)La reazione ironica-umoristica, l'uomo non si rassegna alla maschera, ma visto che non se ne può liberare, sta al gioco delle parti, con un atteggiamento ironica, "umoristico" in senso pirandelliano, per la pietà che suscita in chi lo osserva nella sua pena (La patente).

3) La reazione drammatica: l'uomo non si rassegna alla maschera, nè sorride, stando al gioco delle parti. Si chiude in una solitudine disperata, che lo porta al dramma: suicidio o pazzia (Enrico IV, Uno, nessuno, centomila).

Si arriva alla disgregazione della persona umana.

Non solo si vive un rapporto sdoppiato con la società, ma si può arrivare a un rapporto sdoppiato con sè stesso (Uno, nessuno, centomila).

L'uomo é uno, perché é quello che crede di essere; é centomila, perché quelli che lo avvicinano lo vedono a loro modo, ed egli assume tante forme (ha tante "maschere") quante sono quelle che gli altri gli attribuiscono.

Quindi non é nessuno, perchè non riesce a fissarsi in una personalità chiaramente definita, cioè nella maschera che gli altri gli attribuiscono Questo vedere frantumata in tanti aspetti la propria personalità, lo può portare alla follia, o all'autodistruzione.


In tutte le sue opere i personaggi appartengono alla piccola borghesia, vittime delle condizioni alienanti della società industriale, una società attenta alle apparenze, alle convenzioni sociali, una società ipocrita ed egoista, piena di pregiudizi e inganni propri e altrui. Non é un uomo ancorato a valori oggettivi, universali ma un uomo frantumato con molte problematiche psicologiche.


I personaggi di Pirandello non sono però dei vinti, dei rassegnati; essi si ribellano, protestano contro la società ipocrita e alienante,urlano in maniera goffa, vivono in modo paradossale, ma il loro comportamento non è comico, ma "umoristico", alla maniera pirandelliana.


In un saggio, Pirandello presenta la sua poetica dell'umorismo..

L'umorismo per Pirandello é il sentimento del contrario, che nasce dall'azione di due forze: il sentimento che crea le situazioni comiche e la ragione che le analizza, le scompone, per capirne i meccanismi e ispira pietà.

Pirandello porta l'esempio di una vecchia signora, che si tinge i capelli, si trucca e si veste come una giovanissima.

Nel vederla così conciata, viene da ridere, si avverte il lato comico della situazione, perché la signora é il contrario di ciò che dovrebbe essere una donna della sua età. Questo é il momento comico dell'avvertimento al contrario.

Poi interviene la ragione, che vuole capire, e scopre che quel modo di presentarsi é un autoinganno.

La signora spera che nascondendo i suoi difetti possa trattenere l'amore del marito, molto più giovane di lei.

Questo é il momento del sentimento del contrario, perché alla comicità subentra la pietà per il dramma penoso della signora.

 


 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

martedì 21 novembre 2023

Serata entusiasmante al Libraccio dei Navigli

Maria Carmela Ricci e l'editore Giacovelli
UN “BOUQUET” DI SCRITTORI

E L’OMAGGIO A MILANO


Maria Carmela Ricci ha declamato a

memoria due sue poesie, in dialetto

martinese come ha voluto il folto

pubblico. Ha poi accennato al suo

libro “Quella nevicata del ’56 in valle

d’Itria”, editore Giacovelli.

 

Franco Presicci


A Milano non fa freddo”, “Mal di Galleria”: titoli di due libri di Giuseppe Marotta, indimenticabile scrittore, che, nato in un vicolo della vecchia Napoli, si trasferì nel ’25 a Milano, e se ne innamorò. 

Il Libraccio
Dopo una lunga e brillante come critico cinematografico dell’”Europeo”, elzevirista del “Corriere della Sera… tornò a casa pur continuando ad amare la terra del Porta. Si riteneva un terrone prestato a Milano, come dice Carlo Castellaneta nel suo dizionario. Milano dal cuore in mano; Milano accogliente; Milano che ha tutto; Milano che non distingue tra meneghini e meridionali; Milano laboriosa; Milano creativa; Milano che sa valorizzare l’intelligenza e la voglia di fare… Se si viene a Milano, non si ha più voglia di tornare indietro.

Il Naviglio Grande
A Milano molti pugliesi si mimetizzano sotto la lingua del luogo, adorano Meneghin e Cecca, conservano il ricordo di Piero Mazzarella, del “Barbapedana”, ammirano il Naviglio Grande, sulle sponde del quale negli anni ’50 molti “terroni” come me trovarono alloggio: si possono ritrovare nelle composizioni del cantautore e acquafortista Gigi Pedroli, con i tanti artigiani che si sono trasferiti o hanno abbassato la saracinesca. Chi viene a Milano continua a sentire nostalgia del paese, ma resiste al suo richiamo. Il manzoniano Francesco Lenoci dice “Com’è bello il cielo di Lombardia quand’è bello”. Queste voci si sono succedute durante il Book City giovedì sera al Libraccio dell’alzaia Naviglio Grande, dove un bel “bouquet” di artisti della penna (oggetto ormai rimpiazzato da telefonini e computer), hanno glorificato Milano, città ricca di sogni realizzati e di speranze. Milena Vaccaro non viene neppure sfiorata dall’idea di lasciare il suo locale in corso San Gottardo, l’antico borgo dei formaggiai, al Ticinese, dove un tempo nelle case di ringhiera la gente conversava sui ballatoi o da un ballatoio all’altro, dava una mano al vicino, se aveva bisogno, teneva d’occhio i bambini che giocavano nel cortile. 

Il pont de preja, oggi Alda Merini
Roberto Vitale ha raccontato un incontro in piazza Duomo con una donna venuta da Lima e passeggiando nel primo pomeriggio di un giorno qualunque e lei gli confida che gli è piaciuta molto quella storia d’amore del Manzoni, “mentre alle mie amiche italiane meno, chissà perché”.… Tutti gli autori, una ventina, che si sono alternati sono legati a Milano come l’edera a un tronco d’albero o a una parete. E sono tutti presenti nel volume fresco di stampa edito da Giacovelli: “Milano, città di passaggio o di nuove radici?”. Maria Ardizzone ha presentato Erminio, il topo di Milano. 

Luci si specchiano nel naviglio

 

 

Ne so qualcosa: quando era ancora scoperto il naviglio Martesana, che oggi attraversa in parte sottopelle via Melchiorre Gioia, ne vedevo tanti grossi e veloci scorrazzare sulle sponde come conigli sulla pista del circo in attesa degli applausi del pubblico. La serata è stata aperta da un martinese e una martinese l’ha conclusa. Il professor Francesco Lenoci, che ha il dono dell’ubiquità, ha conciliato una sua lezione alla Cattolica con la sua presenza in questa sala ricca di libri, e ha parlato per pochi minuti della Puglia agganciata a Milano attraverso il Festival della Valle d’Itria, che ogni anno viene illustrato al Piccolo Teatro fondato da Paolo Grassi e da Giorgio Streheler; del caffè leccese e altre storie… ed è andato via di corsa. 

Maria Ricci in prima fila

Con la bravissima scrittrice Maria Carmela Ricci la libreria si è trasformata in teatro: l’ex professoressa di matematica, che ha sempre attraversato anche il mondo della letteratura, ha trasformato “Il libraccio” in teatro, recitando a memoria due sue bellissime poesie in vernacolo, incluse nelle ultime pagine del suo libro: “Quella nevicata del ’56 in Valle d’Itria”, editore Giacovelli. Lo ha fatto da attrice con lunga esperienza della ribalta: la gestualità, le espressioni del volto, la modulazione armonica, l’accento sulle espressioni onomatopeiche hanno colpito tutti e provocato scrosci di applaudi. Incoraggiata dal calore della platea, che l’ha invitata a declamare il testo originale, Maria Carmela deve essersi sentita davvero sul palcoscenico e forse si è meravigliata lei stessa. Quindi ha accennato alla “Nevicata del ‘56”. “La mia famiglia – ha detto – visse la nevicata chiusa per giorni e giorni nei trulli. Io ero bambina, avevo cinque anni, e nel libro sono Nina, la voce narrante.

Bancarelle lungo il naviglio
 

La neve creò un mondo incantato, mi sembrava di vivere una favola”. Tutto coperto da quella sterminata panna montata, le gambe vi affondavano, ed era complicato andare da un punto all’altro intorno alla casa a cono di gelato. I giorni erano faticosi, più di quanto non siano normalmente. E ha abbozzato le condizioni dei contadini assediati dai sacrifici, dal lavoro duro, su cui prevaleva l’amore per la terra… Per un attimo la mia mente è andata a Rocco Scotellaro: “La vigna non era stata ancora zappata…Scesi tra le viti, è una scala questa vigna, ripidissima, a terrazze, fino giù alla linea di alianti sull’ultima fabbrica. Si arriva alla casetta che guarda in giù coperta di lamiere tenute ferme da grosse pietre… Tra le viti e gli alberi sono attento ai piccoli rumori: le foglie delle canne, lo sventolio sui rami, un sasso che rotola, uno scarabeo che si arrampica, le lucertole…”. Un momento solo è durata la deviazione verso “L’uva puttanella”, dove rivive il mondo contadino tra i suoi dolori e la sua miseria. Maria Carmela la descrive con efficacia e distacco, apparente. “I contadini parlano in dialetto e io ho voluto trasmettere ai lettori la storia e la cultura di un popolo, la sua evoluzione, le sue radici… Un popolo senza radici è un popolo malato e non ha futuro... Il popolo contadino comunica valori importanti: profondo rispetto della famiglia, del lavoro, la solidarietà, la vita secondo natura, le cui leggi sono sacre, mentre l’uomo di oggi tende a stravolgerle”. 

Aria di Natale
Ho seguito Maria Carmela con molta attenzione e così ha fatto il pubblico, senza perdere una virgola del suo discorso. Maria Carmela sa toccare il cuore di chi l’ascolta. Coinvolge, trascina, affascina. Ha proseguito raccontando l’”Accademia “d’a cutìzze” di Martina, della quale lei e il marito, il tenore Gianni Nasti (quando tuona emoziona), fanno parte. Ma questa volta ha dovuto spiegare, tradurre: ‘A cutìzze è la roccia, la pietra, quella dei muri a secco che delimita i tratturi, che forma le specchie, ha innalzato i trulli; la pietra dei vignali, gobbe sparse nel terreno. All’Accademia “d’a cutìzze” si snocciolano storie, in vernacolo e non, si cantano brani ispirati alla vita quotidiana della città (Giovanni Nardelli fra i tanti ne ha scritto uno sulla polpetta), si declamano poesie, si recita. Insomma Maria Carmela ha portato brani di Martina Franca, un gioiello, a Milano. Iniziata alle 18, la serata si è conclusa alle 19,30. Il Naviglio Grande, caro al poeta Alfonso Gatto, scorreva placido e silenzioso. Le luci delle bancarelle, primo assaggio del Natale, si riflettevano nella sua acqua. 

Ponte Alda Merini
La ripa e l’alzaia formicolavano di giovani ed anziani; e anche il “pont de preja”, oggi dedicato alla poetessa del naviglio, Alda Merini, era affollato. Il ponte congiunge l’una e l’altra riva proprio davanti al Libraccio, dove si esaltava Milano. Molti indugiavano davanti agli oggetti proposti dalle bancarelle; altri passeggiavano, magari come me pensando ad Alonso Gatto: “I navigli con la loro cerchia restano strade: strade d’acqua silente, con odore di terra, di carreggiate, di verdura: scomparsi si ricordano ancora per la luce rimasta sulle case prima specchiate ed oggi tremule di quella vecchia penombra, per dei vuoti attoniti ed irreali cinti dalle spalliere…”. Una manifestazione come quella andata in onda al Libraccio non poteva avere una cornice più adeguata. Vi avrei visto volentieri il grande giornalista amico di Indro Montanelli, Gaetano Afeltra, direttore prima del “Corriere d’Informazione” e poi de “Il Giorno”, che appena arrivato a Milano dalla sua Amalfi, nel ’39, andò a vivere in una pensione affacciata sul tombòn de Sant March, tratto del Naviglio Martesana che tagliava l’attuale via San Marco. Afeltra amava Milano più di tanti meneghini; più di quelli che sentenziano che Milano è brutta, mentre è una città discreta, che non ha voglia – come afferma Guido Piovene nel suo volume “Viaggio in Italia” - di mostrare a tutti la sua bellezza. Fate quattro passi in Galleria o in via Bigli, dove visse il Premio Nobel Eugenio Montale, o in via Morone, dove ebbe il salotto la contessa Clara Maffei o in Corsia dei Servi, della quale spesso scriveva Stendhal come principio del corso delle carrozze che arrivava ai bastioni di Porta Orientale, o in corso Venezia che vanta facciate Liberty, e poi emettete la vostra sentenza.



domenica 12 novembre 2023

In una grande serata allo Spazio Urban

Renzo Arbore e il maestro Sante Palumbo

I PUGLIESI DI MILANO SI

SCATENARONO PER

FESTEGGIARE RENZO ARBORE

 

 Allo showman venne consegnato il 

premio Ambasciatore Terre di

Puglia e lui improvvisò un dialogo

molto divertente dal palco con il

maestro Sante Palumbo, seduto in

prima fila.

 

 

 

Franco Presicci

Il premio dell’Associazione regionale pugliesi, una sera dell’aprile 2010, venne consegnato a Renzo Arbore, il “pugliese di fuoco”, come lo definì simpaticamente Alberto Lorenzi ne “I segreti del varietà”, titolo modestamente scelto da me mentre trascrivevo per il volume edito dalla Celip di Nicola Partipilo, barese mai diventato milanese, nonostante il suo amore per questa città, l’intervista a Wanda Osiris che avevo fatto nella sua casa nei pressi di via Montenapoleone proprio per questo libro.

Le prime file

Pugliese di Foggia, Arbore si disse “jazzista della parola”. Un grandissimo artista, divertente, coltissimo, piacevole, comunicatore di gioia, dominatore del mondo musicale, con migliaia di canzoni nella testa. Pur appartenendo alla Capitanata, è innamorato del mondo, dell’Italia, di Napoli, di Milano, città fertile e di buon cuore, alla quale è grato per aver accolto tutti i meridionali scesi negli anni alla stazione Centrale, un ventre di balena in cui i convogli arrivano e partono in continuazione. E quando il sodalizio pugliese si trasferì da piazza Duomo in via Petro Calvi 29, lui accettò l’invito ad essere presente con il ruolo di padrino. Quei pugliesi e milioni di altri non lo hanno mai perso d’occhio, seguendo sempre passo per passo la sua carriera, in cui si inserì anche il Premio “Ambasciatore di terre di Puglia”, le cui precedenti edizioni erano andate, fra gli altri, a Livia Pomodoro e ad Albano. Per l’occasione lo Spazio Urban, che si apre di fronte ai Bastioni di Porta Venezia, fu invaso da una folla incontenibile, debordante. Tra gli altri c’erano il professor Francesco Lenoci, il giornalista David Messina, tra le colonne della “Gazzetta dello Sport”. 

Dino Abbascià

Arbore era seduto tra Dino Abbascià, allora presidente dell’Associazione, che gli diceva: “Quanta fatica per rintracciarti, per averti qui alla cerimonia per la consegna del premio”, e il maestro Palumbo, che da millanta conosceva quel mostro sacro della tivù, del teatro, del cinema. Poi Arbore con un balzo fu sul palcoscenico, snocciolò una serie di battute e un dialogo con Palumbo sulle situazioni, i personaggi, le curiosità vissuti insieme e il pubblico, entusiasta ad ogni momento applaudiva, alzandosi, manifestando ancora una volta tutta la simpatia per il corregionale famoso nel mondo anche come conduttore e regista di tante trasmissioni, come “Quelli della notte”, rimaste nel cuore della gente e nella storia della Rai. La giuria aveva fatto un ottimo lavoro assegnando il Premio a questo pugliese sempre sorridente, cordiale, piacevole, vulcanico, artista tridimensionale, che cantando o recitando o suonando entusiasma le platee e il pubblico inchiodato davanti alla televisione; artista vero, eccellente, rappresentante della Puglia, che “ha portato ovunque un modello artistico e umano tipico della gente del Sud”. Come Alberto Sordi, che nel ’55, a Kansas City aveva addirittura ricevuto le chiavi della città. Renzo Arbore riscosse grande successo in America nel 1988. La Rai Corporation aveva mandato in onda per cinque sere la settimana “Indietro tutta”.

Nicla Pastore al centro
Nella trasmissione Arbore si esibiva in una stravagante divisa da ammiraglio, mentre seducenti ballerine sudamericane danzavano cantando “Cacao Meravigliao”; e Nino Frassica divertiva nei panni di un incredibile conduttore di quiz. Chi non ricorda gli altri elementi del cast, come Catalano e Marenco, che scoprirò essere amico del pittore barese Filippo Alto. Mario Marenco, foggiano, comico, umorista, autore televisivo, architetto e designer, in un’altra trasmissione era mister Ramengo che ad ogni parola strappava le risate. Quando la sede dell’Arp era in piazza Duomo e presidente Bruno Marzo, funzionario regionale, collezionista di francobolli e di giornali leccesi dell’800, mezz’ora prima della trasmissione di Arbore si accendeva il televisore e scrosciavano gli applausi, come gli attori fossero sulla pedana della seconda sala, da dove parlavano i relatori delle presentazioni di libri o in altre manifestazioni culturali. 
 
Il pubblico
Abbascià
Renzo Arbore era ed è adorato dai meridionali di Milano, “in primis” il compianto Abbascià, uomo dinamico, dalle grandi capacità imprenditoriali, intelligente, generoso, sorriso cordiale stampato sul volto. Stimato anche per la sua vicenda personale: da immigrato all’età di tredici anni, una carriera iniziata come garzone in una bottega di frutta e verdura e poi a capo di un’azienda del settore molto fertile e famosa, creata con sacrifici, intelligenza idee e volontà di ferro. “E’ una ‘star’ che ci portiamo nel cuore – dicevano in tanti quella sera allo Spazio Oberdan in via Vittorio Veneto – è il nostro idolo, il nostro mito, il simbolo della Puglia, “il nostro orgoglio”, urlavano rincorrendo un autografo.

Chi voleva parlare con lui non rimaneva deluso: Arbore aveva una parola per tutti, una risposta per le tante domande. Il maestro Palumbo era rimasto seduto al suo posto in prima fila, Lenoci e io ci godevano quello spettacolo; e Abbascià, anche lui ai margini della massa, compiaciuto per il successo della serata, molto più di altri, all’hotel Quark per Carnevale o Natale, dove era lui ad aprire le danze.
Il pubblico quella sera tardava a lasciare il teatro, e Renzo Arbore resisteva, instancabile nel firmare tutti quei pezzettini di carta o fogliinteri o borse da passeggio, sorridendo a tutti.

Nicola Arigliano a sinistra, Presicci a destra
Che serata! David Messina non riusciva a trovare un varco per uscire; io e Lenoci avevamo tempo, potevamo aspettare, osservando la marea che fluttuava attorno alla stella che finalmente brillava a poca distanza. Quando lo avrebbero visto ancora, se non sul piccolo schermo impegnato a cantare un brano di Renato Carosone o di Roberto Murolo, cantante, chitarrista, attore napoletano anche lui. Il pubblico urlava il suo nome e lui salutava a braccia levate, tenendo in mano il foglio su cui raccogliere la sua testimonianza che avrebbero messo in cornice, almeno alcuni dei più fortunati. Un signore dai capelli riccioluti appena argentati, basso e magro, ci tenne a rivelarci di aver visto Renzo Arbore altre volte, ma di non averlo mai potuto avvicinare sempre per assalti della folla. “D’altra parte se li merita, per la simpatia che sprigiona e per la sua arte. E’ il nostro beniamino, a casa ho un suo ritratto in salotto mentre suona il clarinetto, al quale ha dedicato una canzone. Lei lo sa, vero? Certo che lo sa. Del resto l’Associazione ha dato un premio anche a lei”. “A me? - risposi stupito - Non ho fatto nulla per meritare un premio così importante. No, allora mi sbaglio, non è lei. Ma lo hanno dato, per fare un esempio, alle donne del vino di Manduria, delle cantine Soloperto”. Ma qurelle di meriti ne hanno da vendere assieme al nettare che producono”. “Ma lei non è un giornalista?”. Sì, ma un giornalista è un testimone, non un protagonista”.
 
L'attore Gerardo Placido
Un altro, anche lui bassino e imbiancato, con l’aria di chi sa tutto: “Eh, Arbore! ‘Alto gradimento’, ‘L’altra domenica’, ‘Il Pap’occhio’ e via dicendo. Lei lo ha visto ‘Il Pap’occhio’? Io due volte. C’era anche Andy Luotto, oltre a tanti altri’” Anuii. L’interlocutore aveva un tono da saputo e da quella stirpe mi tengo lontano. Poi Arbore prese emozionato la scultura raffigurante il faro di Santa Maria di Leuca, punto di incontro di due mari pugliesi, “vedetta di una terra protesa verso altre terre”, simbolo di amicizia, di fratellanza, e uscì attraverso un varco che gli era stato perto per farlo passare, seguito da Dino Abbascià, che trasudava gioia e soddisfazione. La cerimonia fu condotta brillantemente dalla bella giornalista tarantina Nicla Pastore di “Studio 100”, antenna molto seguita, e da Gerardo Placido, attore prestigioso soprattutto di teatro, che non manca mai agli appuntamenti in cui si respirava aria di Puglia. Quel Premio lo ha anche ricevuto Teo Teocoli, che è di Taranto, dove ha abitato in via Dante fino a quando non si è trasferito a Milano incontrando per primo il ragazzo della via Gluck, Adriano Celentano. Prima che la sala si svuotasse Sante Palumbo rese un omaggio musicale a Nicola Arigliano, altro grande pugliese scomparso giorni prima. Sono ricordi di momenti belli che mi si presentano spesso alla mente e io li colgo per raccontarli con un pizzico di nostalgia.

mercoledì 8 novembre 2023

La regolarità, lo slogan di Gabriele Annese

Gabriele Annese
LE IDEE DI UN CONSIGLIERE COMUNALE

CON DELEGA ALLO SPORT, ASSOCIAZIONISMO E

 TERZO SETTORE

 

Gabriele intende svolgere il suo ruolo con

serietà e impegno, tenendo sempre presente

la fiducia che i concittadini gli hanno concesso.

Adesso è alle prese con un censimento delle

società sportive e culturali. 

I risultati brillanti di alcuni atleti in gare nazionali. 

Il successo di Adriana Di Cesare.

 

Franco Presicci

Cerimonia di premiazione
Crispiano, quella cittadina a qualche chilometro da Taranto, distrutta dai Goti all’epoca delle invasioni barbariche e fatta rinascere dai monaci basiliani; che spesso fa parlare di sé per le iniziative che vi si susseguono e per aver dato ospitalità ai tarantini che fuggivano dalle bombe durante l’ultimo conflitto mondale e poi spazio agli stessi vicini in cerca di aria buona e di un luogo ideale per la villeggiatura, ha anche i suoi campioni. In ottobre si è concluso il ventiduesimo Trofeo omonimo, gara regionale individuale di bocce, a 32 formazioni di categoria A, B, C, con 37 atleti partecipanti distribuiti in quattro giorni. Le gare sono state disputate in buona parte nel Bocciodromo di Crispiano e alcune in quello di Lecce.



Al termine della manifestazione si è classificato al primo posto Gioacchino Piliego, della società San Michele Brindisi (categoria A). A seguire: Matteo Scialpi, società ASD Crispius (categoria C), Fabio Montinari, società La Calimerese, Lecce (categoria B), Antonio Angelini, della Società ADS Crispius (categoria B), e Donato Luccarelli, della Società ASD Crispius (categoria C). Alla cerimonia di premiazione, svoltasi nella struttura crispianese di via Coppi, erano presenti oltre ai dirigenti locali e provinciali, gli stessi campioni e il neo-delegato allo Sport del Comune Gabriele Annese, che si è congratulato con la società ASD, fondata nel 2011, per l’ottima organizzazione del Torneo e ha invitato i dirigenti a consolidare l’attività delle bocce a Crispiano e a divulgarla anche nelle scuole e nelle parrocchie. La dirigenza locale, capitanata dal presidente Cosimo Scialpi, ha offerto una targa ad Annese per l’impegno e la determinazione dimostrati dall’inizio di questo suo nuovo incarico e ha anche donato una targa-ricordo e di merito all’atleta Ferdinando Ricci di Pavullo nel Frignano (Modena), ultranovantenne, che partecipa ancora oggi alle competizioni di bocce, nella Bocciofila della sua cittadina. 
 
Gabriele Annese,Ferdinando Ricci
Ricci è campione nazionale e regionale, insieme ai figli Claudio, Gianni, Moreno e Loris, attuale presidente della Società pavullese e al promettente nipote Luca Ricci. Un’autentica dinastia di bocciatori. Socio onorario della società crispianese, nei periodi di vacanza nella cittadina della provincia di Taranto, Ricci partecipa attivamente alle partite che si cimentano sul campo nella città delle cento masserie. Il gioco delle bocce tra l’altro è salutare, richiede molta abilità, occhio di lince e passione; e vanno elogiati quelli che lo praticano con entusiasmo e gioia. Da elogiare anche altri atleti e gruppi sportivi locali. Recentemente un gran risultato ha raggiunto la concittadina Adriana Di Cesare, 24 anni, nella disciplina del canottaggio. Iscritta alla Lega Navale, sezione di Taranto, la Di Cesare svolge l’attività da quattro anni e ha partecipato alla competizione nella categoria di canottaggio a sedile fisso. La squadra era composta da 10 atleti, più il timoniere. La Di Cesare ha conquistato la medaglia d’oro al termine del campionato europeo di canottaggio svoltosi a Genova in ottobre. Grande soddisfazione anche per Crispiano, un centro vivo, orgoglioso, molto attivo in tanti settori, anche in sagre (in quella del peperoncino e in quella dei funghi, la seconda organizzata dal ristorante “C’era una volta”). Non potevamo fare a meno di chiedere un incontro a Gabriele Annese per un’intervista sul suo ruolo di consigliere comunale (il giovane Annese, sportivo e appassionato  da lunga data, oltre che molto competente anche del gioco del calcio). Lo intervistai alcuni anni fa nella bella casa di Crispiano, presente il padre Michele, già direttore della Biblioteca “Carlo Natale” e segretario generale delle Comunità Montane di Gioia del Colle e di Mottola. Mi parlò della squadra di Crispiano, estendendo il discorso su altre squadre anche nazionali, indicando vari “goleador”, la storia della pedata sul rettangolo di gioco e alcuni dei momenti più esaltanti delle varie partite crispianesi. Sportivo di vecchia data, per vent’anni, dal 1996 al 2013, è stato dirigente della squadra di calcio Asd Ragazzi Sprint e per qualche anno contemporaneamente accompagnatore e addetto-stampa delle squadre Olimpia Crispiano e U.S.D. Crispiano. E’ consigliere nella maggioranza denominata Crispiano 2030, ma politicamente è segretario cittadino del Pci. Considerando anche le sue esperienze, Annese può fare molto per lo sport della sua città (e lo farà), e anche per lo sport in genere.


E' un giovane dinamico, che tiene molto a cuore il suo territorio e non soltanto per quanto riguarda lo sport: è serio, affidabile, schietto, preparato, molto volenteroso.
 
Adriana Di Cesare  
Gli ho chiesto subito il suo parere su Adriana Di Cesare e ha risposto che l’atleta ha davanti a sé un avvenire brillante, esaltante per la stessa città. Non per niente la Federazione, per la partecipazione al campionato europeo, ha scelto tra i migliori, con un test nei 2000 metri con vogatore, tenuto nei mesi precedenti. “Fra tutti i risultati che si stanno verificando a Crispiano in questo periodo, questo è sicuramente il più importante”. Il consigliere comunale Gabriele Annese come delegato allo Sport e Associazioni, entro l’anno, con una cerimonia nella sala consiliare del Comune, presenterà tutti questi sportivi crispianesi che si stanno distinguendo. Insomma avverte la necessità di rendere partecipe la cittadinanza e far conoscere i valori che la comunità possiede nelle varie discipline. Lo sport è una parte della vita di una città: aiuta a confrontarsi, a crescere sani e forti, ad impegnarsi per ottenere risultati importanti. Gabriele Annese è stato eletto nelle consultazioni comunali di maggio e ha avuto le nomine ai primi di luglio. E come ampiamente previsto, è deciso a realizzare il suo mandato nel migliore dei modi. Con saggezza, competenza, passione.
 
I cittadini gli hanno espresso la loro fiducia e lui questa fiducia non intende deluderla. Adesso è alle prese con la calendarizzazione e autorizzazione delle palestre e altre strutture sportive e culturali (la delega comprende oltre allo Sport, tutte le associazioni e il Terzo Settore) di Crispiano per l’avvio delle competizioni: intende censire tutte le associazioni sportive, culturali e sociali e le sta incontrando una ad una, “chiarendo che il Comune collaborerà con tutti purché capiscano che devono essere in regola”. Sarà un censimento vero e proprio. Il risultato servirà anche all’assessore alla Cultura. “L’impegno è bello tosto e voglio fare le cose con molta oculatezza”. Attraverso Facebook io ho ascoltato un video con un intervento di Gabriele in una seduta consiliare. Purtroppo breve, ma abbastanza per confermare che il “ragazzo” ha stoffa pregiata da vendere. Come si dice: buon sangue non mente. Ricordiamo tutto quello che ha realizzato il padre Michele, non solo nella Biblioteca di via Roma, poi nel  Centro Montaliano, nella sede decentrata  in zona Crispianello e soprattutto la raccolta di quotidiani e settimanali non soltanto nazionali, che costituiscono un patrimonio prezioso di 550 testate. E i libri che ha pubblicato (“ Crispiano-Miscellanea, 2 volumi, il catalogo de’ “Le cento masserie di Crispiano”di cui cercare di trovare una copia è un’impresa e “Crispiano: Triglio e dintorni”, “Le gravine del territorio”, “Immagini Crispiano”-3 volumi, "Le Comunità Montane di Gioia del Colle e Mottola”, “La Biblioteca di Crispiano”). La mamma, Silvia Laddomada, ex docente di lettere nella scuola pubblica, anima l’Università del Tempo Libero e del Sapere “Minerva”, creata con il marito, dove ogni settimana si parla di argomenti rilevanti, legati a varie discipline, illustrati da relatori competenti e preparati e intervallati con leggerezza da artisti e musicisti locali tra i quali Vito Santoro, virtuoso fisarmonicista. Questa è Crispiano, dove per quattro anni trascorse l'estate, con Michele Pierri, la poetessa del Naviglio Alda Merini, che il capoluogo lombardo celebra spesso (recentemente Graziana Martin ha letto le sue poesie nel cortile del negozio di Abbigliamento militare e janserie, che conduce con il fratello Paolo e tiene aperto il museo a lei dedicato, che registra centinaia di visite all’anno).




 
 

mercoledì 1 novembre 2023

La bellezza antica del Chiancaro

Raffaele  Cofano  e Teresa Gentile
 

TERESA GENTILE LA RIPERCORRE

NEI RICORDI DEL MARITO ANGELO


Benvenuto Messia, icona di Martina,

maestro dell’obiettivo fotografico,

figlio d’arte, non mancò di riprendere

la zona. Pubblichiamo quella di ieri,

autore il padre Eugenio.

 

Franco Presicci 

Prima di salutare Martina per rientrare a Milano, torno sul Chiancaro. Faccio capolino ai trulli che furono dello zio canonico e scambio due parole con la nuova proprietaria, Gabriella, una delle mie belle e cortesi nipoti, che sta salvando dal degrado la vecchia struttura, rinforzando muri a secco ed altro.

Il Chiancaro oggi, di Benveuto
Rivedo con piacere questo luogo della mia adolescenza, che mi suscita tanta nostalgia e una valanga di ricordi. Mi sfilano nitidi, questi ricordi, come la sequenza di una pellicola cinematografica. Rivedo lo zio canonico penitenziere che con i suoi occhiali sottili legge il breviario facendo avanti e indietro sul piazzale, sollevando di tanto in tanto lo sguardo per vedere se stavamo combinando qualche marachella. Rivedo mio nonno seduto sotto una pianta rampicante a fumare la pipa e ancora lo zio che ci dice di non prendere le noci dall’albero perché non sono ancora mature e noi che in sua assenza disubbidiamo, nascondendone quattro nel pagliaccetto di Enzo,io, quattro anni, che li scodella alla vista di don Martino, facendo il verso della gallina.
 
La chiesetta
 Sento la voce dello zio che ci punisce, mettendoci le zappe in mano, imponendoci di usarle, per capire la fatica del contadino. Quelle erano giornate di gioia. Spesso Enzo e io andavamo nel bosco di fronte alla campagna dei Romanelli, che era di fianco a quella dello zio, sulla destra, non per cercare funghi, perchè fra l’altro non sapevamo distinguere quelli tossici da quelli commestibili, ma per smuovere con un rametto le foglie sparse, alla ricerca di non so che cosa. Non dimentico il ciliegio che si ergeva superbo e fecondo,  sovrastando tutti gli altri alberi. Quante volte l’ho scalato fino alla cima, da dove ammiravo tutto il panorama ricco di vigneti attorno alle case incappucciate. Un giorno Enzo mi lanciò una pietra mentre ero in contemplazione, non per farmi male, ma per leggerezza, per gioco, e io rischiai di precipitare giù. Allora la mattina successiva, verso le 11,30 lo attirai con una scusa nel palmento, lo chiusi dentro e misi il chiavistello (mi verrebbe di dire “’u varrone”, nel mio dialetto, ah il dialetto). Lui urlava senza essere sentito; lo scoprì la nonna, cercandolo, all’ora di pranzo. Eravamo sempre in movimento. Nel campo di fianco, sulla destra, il proprietario aveva costruito con un intreccio di rami su quattro tronchi, una struttura per l’uccellagione;  io e Enzo lo usavamo come rifugio quando non avevamo altre idee, riscuotendo sempre rimproveri. Il discolo ero io. Enzo aveva il torto di seguirmi. All’occorrenza eravamo disponibili: partecipammo anche a una vendemmia tagliando i grappoli e collocandoli nella cesta. Lo zio Dionigi la portava nel palmento, dove l’uva veniva pestata con i piedi da un contadino. Chi può integrare i miei ricordi della vita sul Chiancaro? Terra adorabile ambita da pittori di paesaggio.
 
50 anni fa bambini zappano
Questo angolo da sogno, che coltiva i miei sogni, ha tutto per quelle tavolozze: la luce, la veduta suggestiva, il verde delle viti inginocchiate, le case a cono di gelato con misteriosi simboli. Che cosa avrebbe pensato Constable di questa bellezza, lui che amava tanto la natura e le scene di vita rustica? Chiamo Teresa Gentile, giornalista e signora deliziosa, già insegnante, colta, autrice di un libro interessante sui cappottari di Martina, poetessa, anima del Salotto Culturale Palazzo Recupero, dove tra l’altro organizza serate frequentate da poeti, scrittori, pittori, oltre che dal bravissimo tenore Gianni Nasti, che ogni tanto soddisfa le richieste facendo tuonare la sua voce. 
Il trullo dello zio oggi
Teresa ha una villa sul Chiancaro vicino alla fontanella ultracentenaria, da cui ancora oggi sgorga acqua fresca e pura. Teresa non si nega e premette: “Ho imparato ad apprezzare la martinesità intesa come sana filosofia dello spirito, costituita da un intreccio di saggezza, operosità, capacità di prendersi cura degli altri, accogliere, essere rispettosi e operosi anche grazie a mio padre Egidio Gentile, a mio nonno Carmelo De Viti e a mio marito Angelo Raffaele Cofano. Mio padre, il maestro Egidio, insegnò a lungo nelle contrade martinesi e alla scuola Marconi e faceva fare la Via Crucis ai ragazzi ogni anno nel periodo pasquale con costumi cuciti da mamme e nonne”. Ascoltare Teresa è un vero piacere. E’ distensiva con quella sua voce bassa e pacata. “Grazie a lui ho conosciuto tante masserie, ho visto le danze che i contadini facevano dopo i raccolti, i rosari recitati tutti insieme al tramonto del sole e ho visto tante persone che sapevano fare molto bene mestieri diversi ed erano felici mentre li esercitavano: fischiettavano, dialogavano, non litigavano mai e negli intervalli suonavano strumenti musicali e recitavano versi”. 
L'entrata del trullo di don Martino
Tutto un mondo si apre con le parole di Teresa, uno scenario che a poco a poco è andato scomparendo. Si commuove parlando del marito Angelo Raffaele Cofano: “Era esperto di agraria, aveva preso il diploma all’Istituto agrario di Locorotondo ed era professore di applicazioni tecniche alla scuola Battaglini; ai ragazzi, quando insegnava nella vicina campagna di Carpari, faceva costruire, ogni Natale, con pietra e bottiglia, interessanti presepi che attiravano i turisti. Grazie a lui gli allievi hanno compreso l’importanza del riciclo creativo. Conosceva tutti i proverbi e i modi dire e sapeva spiegarli. Era uomo di grande fede e durante la sua vita ha sempre seguito i suoi alunni. Anche per queste doti è stato per vent’anni presidente dell’Azione Cattolica del Carmine, ha insegnato volentieri in località rurali martinesi.
 
Il Chiancaro di ieri
Adorava il Chiancaro, amava la campagna. Trovava sempre le persone giuste per fare il lavoro giusto. Una volta le persone erano considerate per la loro bravura nel lavoro e venivano indicate con il nome di battesimo accoppiato alla loro specializzazione: Martino il potatore, Michele il fabbro...

La fontana
 

Un tempo c’erano le botteghe”. La villa di Teresa è sulla punta massima della salita, una volta battuta dai cavalli che dovevano mostrare di essere forti e quindi buoni da acquistare.
"Adesso – continua Teresa – si divorano gli spazi per esigenze diverse, si tagliano gli alberi, si strappano le vigne, che facevano un ottimo vino, il vicino di Martina, a volte con la scusa che non ci sono eredi disposti a continuare ad avere cura dei terreni. Prima si andava a piedi, adesso con le auto; ci sono ristoranti che conservano il gusto della tradizione, la gente appare più triste con meno voglia di stare insieme. E’ preoccupata per il futuro, non ha più speranza, si sta rassegnando a un non futuro.
I contadini non hanno più voglia di cantare, ballare e bere sull’aia, spazio qua e là divorato dall’erba. Sono un sogno ormai quei giardinetti ben curati e pieni di colori in ogni stagione dell’anno o quegli orticelli disseminati di verdura, melanzane, finocchi, basilico, prezzemolo, catalogna, tenuti accanto ai trulli con dovizia anche di garofani, gerani e alberi da frutto. I vitigni giunti dai Greci (che qui portarono anche l’arte del ferro e della ceramica), pur producendo un vino buono per fare spumante e vin cotto… vengono sempre più divelti”.

zio Martino con parte della famiglia
Ciò che più li rattristò fu non riuscire a rintracciare esperti in arte topiaria o nella costruzione di pareti e trulli. Il Chiancaro, un pezzo del mio cuore, scrigno di ricordi. Benvenuto Messia, maestro dell’arte fotografica, sapido poeta dialettale, attore, fine dicitore, instancabile ciclista, che vedrei come modello di Umberto Boccioni o di Mario Sironi, aggiunge: “Sul Chiancaro conoscevo la famiglia Nigri, il cui papà di mestiere faceva il ceragliuolo e quando io mi meravigliavo di questa attività che allora equivaleva all’Enel mi indicava candele e lumi a petrolio, unici oggetti che illuminavano le case, per dire: “Senza di loro la luce chi ce la dava?" Sul Chiancaro Benvenuto conosceva anche il professor Michelangelo Semeraro. “Nella zona c’era anche la casina dei Casavola”. Il Chiancaro a quei tempi - continua Benvenuto – “era una località ‘in’ che quasi si poteva paragonare ai Parioli. Era un posto di villeggiatura per famiglie benestanti; era ed è un’oasi di serenità, di pace, di gioia, di ottimismo”. All’età di 11 anni io non ero in grado di apprezzare quest’oasi di bellezza, lo amavo e basta. Piangevo quando non potevo raggiungerlo. Attraversando il ponte girevole lanciavo sempre lo sguardo in direzione di Martina e mi commuovevo. La sospiravo, Martina. La vagheggiavo. Sono tornato spesso nel tratturo che porta alla campagna di zio Martino e scende verso il tratto che pare non avere sbocchi. Mi ha guidato la nostalgia, l’amore, il bisogno di verificare i ricordi. Ma non c’è nessuno dei personaggi di una volta. E mi vengono in mente i versi di Gabriele d’Annunzio: “… I miei pastori lasciano gli stazzi/ e vanno pel tratturo antico al piano/ quasi per un erbal fiume silente/ su le vestigia degli antichi padri”. Il tratturo, che va a zig zag, con l’erba ai piedi del muro a secco, non più percorso da asini e carretti.