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mercoledì 24 agosto 2022

Il ricordo di una grande cronaca

IL “GIORNO” DI VIA ANGELO FAVA

LO PORTO SEMPRE NEL CUORE

 

Enzo Catania con Ibrahim Kodra

Fra tutti i cronisti c’era una gran

voglia di fare, spirito di sacrificio,

passione e nessuna rivalità. Il capo,

Enzo Catania, era un vulcano:

ruggiva e si esaltava al fiuto di una

notizia. La cronaca del vecchio

Giorno” la ricordano tutti.

 

 

Franco Presicci

Alla fine degli anni 70 Enzo Macrì tornò a fare l’inviato speciale al settimanale “’Europeo”, lasciando il volante della cronaca de “Il Giorno” a Enzo Catania, siciliano come lui. Catania era un uomo vulcanico, la testa piena di idee, scaltro, pronto a calamitare la notizia che gli arrivava da diverse fonti per lo più risalenti al tempo in cui lavorava per il settimanale “Tempo Illustrato”, diretto da Nicola Cattedra, che era stato anche lui al “Giorno”, all’epoca di Romeo Giovannini, ottimo titolista e traduttore in latino dei Greci; Paolo Murialdi, Giorgio Bocca, Pietro Bianchi, Natalia Aspesi ed altri. Direttore Italo Pietra.

Catania, l'attrice Ottavia Piccolo, Lotito

Dopo di lui Afeltra, Zucconi, Rizzi… Una domenica verso mezzogiorno Catania si stagliò davanti ame e disse: “Ho saputo che Pertini è a Milano in visita privata; chiama l’autista e cercalo”. All’altezza della Scala vidi il compianto sindaco Carlo Tognoli, persona cortese, disponibile, preparatissima, diretta a Palazzo Marino. Lo rincorsi e con l’affanno: “Dammi una mano, sono alla ricerca di Pertini e non so dove intercettarlo. Tu sicuramente lo sai, non rivelo a nessuno che me lo hai detto tu”. Ebbe un attimo di esitazione e poi: “Sta pranzando al ‘Grissino’, ma avvicinalo quando esce, perché durante il pranzo non vuole essere disturbato. “Tu lo hai sicuramente incontrato e hai parlato con lui: mi dici gli argomenti?”.

Lotito con Presicci al telefono

“Ti riferisco una cosa carina: stavamo attraversando la Galleria Vittorio Emanuele, ha alzato la testa e ha notato che i vetri della cupola sono rotti; e lui subito: “No sta bene una situazione così in una città come Milano. Io ho un amico vetraio, se volete lo chiamo e ve lo mando”. Andai al “Grissino” e cominciai l’attesa. Intanto scambiai qualche parola con un signore, che poi scoprii essere il cognato del Presidente, e lui mi infoltì il taccuino. Quando Pertini usci, lo intervistati sul motivo della sua presenza nel capoluogo lombardo, mentre alcuni ragazzi gli urlavano: “Presidente, per quale squadra tiene?”. E lui, alzando la voce per farsi sentire meglio: “La Juventus”. Telefonai a Catania: “Fatto, ce l’ho”. Un urlo attraversò le vie vicine. Catania era così: gridava se era contento e se era infuriato.
 
Nino Gorio

Il giorno in cui da Palazzo di Giustizia lo chiamò il grande Nino Gorio, che seguiva con zelo e bravura i processi, per fargli sapere che aveva uno “scoop”, saltò dalla sedia, si precipitò al secondo piano, dov’era l’ufficio del direttore Guglielmo Zucconi, risalì eccitato, chiamò la segreteria di redazione ordinando di prenotare un volo per Parigi per Gorio. Il giorno dopo la prima pagina strillò che un preziosissimo quadro che doveva essere a Milano era in Francia. E quando nel giugno dell’84 gli comunicai che avevo saputo da Roma, da un amico dell’Interpol, che l’aspirante fotomodella americana accusata di aver ucciso il figlio del re degli ippodromi, era a Zurigo, non perse tempo: “Prendi il primo aereo e corri”. In aereo trovai il dirigente della sezione omicidi, che aveva informazioni sull’arresto e le sue modalità, e la sera stessa mandai il primo pezzo con qualche cammeo. Rimasi a Zurigo tre giorni, alloggiato all’albero Banhpost, a due passi dalla casermstrasse numero 5, dove la ragazza era detenuta; e quando venne estradata e prese il treno per Chiasso, io mi sedetti su una poltrona di fronte a lei, nel vagone riservato. La ragazza non parlava con i poliziotti, osservava dal finestrino il paesaggio che sfilava. Aveva capito che ero un cronista e si mostrava contrariata. Catania mi aveva già riservato più di mezza pagina, con il titolo: “Abbiamo viaggiato con…”, accompagnato da una foto scattata da me alla stazione elvetica. Quando di notte accadeva un fatto particolare e lui era al giornale, sulla macchina mi chiamava decine di volte volendo sapere ogni particolare per fare il titolo. Una notte da tregenda gli dissi: “Senti, ma l’articolo devo scriverlo io o tu? Qui la strada è un pantano, diluvia, io stavo in un accampamento di zingari con le gambe semiaffondate nel fango e tu mi hai fatto fare il tragitto due volte; non farmi fare anche il terzo. Oltre tutto, nessuno dei colleghi si è accorto che sto seguendo i passi del maresciallo Oscuri“.

Giuzzi e Nascimbeni

Mise giù la cornetta. Al mio rientro litigammo, poi mi mise una mano sulla spalla e m‘invitò al bar a bere uno zibibo. Gli capitava anche con il direttore, Gaetano Afeltra, un grande. Zucconi era più diplomatico e comprensivo era stato con lui a “Tempo Illustrato” e aveva diretto “La Domenica del Corriere”. La nostra era una cronaca ammirata. Ognuno di noi dava il meglio di sé, era sempre pronto a soddisfare le esigenze del giornale. Non si guardava agli orari, qualcuno saltava i riposi e le ferie, disposto ad alzarsi alle 2 di notte per precipitarsi su un luogo in cui un “trombettiere” aveva segnalato un regolamento di conti o un cadavere incaprettato nel portabagagli di una vettura.

Presicci con Lotito e Guaiti

 

 

 

 

Si collaborava, non esistevano rivalità. Se un collega riceveva una notizia che riguardava il settore curato da un altro, gliela passava volentieri. C’era chi, trovandosi in ferie, veniva a sapere degli sviluppi di un episodio, chiamava il giornale e avvertiva che se ne occupava lui. A Metaponto venne scoperto il corpo con il capo mozzato di una donna scomparsa a Milano: io ero in campagna a Martina Franca, risposi subito all’appello del vicedirettore Ugo Ronfani e in un’ora e mezza ero già nella caserma dei carabinieri, che mi spedirono dal procuratore della Repubblica di Matera. Se i cittadini della Bimare erano in fermento, tanto da volere un referendum perchè gli ori di Taranto non andassero nel capoluogo lombardo per esservi esposti, io da Martina chiamai Catania che predispose subito una pagina.

 
               Una parte della cronaca

Nella nera ero con Piero Lotito, Giorgio Guaiti, Carlo De Barberis, Giovanni Basso, Giancarlo Rizza, Giulio Giuzzi, Tanino Gaddaitto. Poi molti di loro scelsero altri campi: chi la scuola, chi la cultura, chi le pagine della Provincia, e io rimasi da solo. Fare la nera mi piaceva moltissimo, mi entusiasmava. Quando accorrevo su un fatto, osservavo ogni dettaglio, sia pur minimo, persino la marca del pacchetto di sigarette trovato sull’auto. Pur occupandosi di altro, Piero Lotito e Giorgio Guaiti a volte intervenivano a darmi una mano, se il fatto riguardava più fronti. Ricordo ancora l’occhiello di un articolo di Giorgio, “Hanno ammazzato la “Gianna”, quando in via Galvani, tra le macerie sparse sullo spazio lasciato dall’ex sede de “La Gazzetta dello Sport, trasferitasi altrove avevano scoperto un cadavere. I “transfughi” avevano ancora nostalgia per la nera.

Gaetano Gadda e Luisella Seveso
Preciso che anche la pattuglia della bianca, come Lucchelli, Pizzo, Greco, Luisella Seveso, Marinella Rossi, Andrea Marini, che si occupava di sindacato, avevano un vero talento. Prima che arrivassero gli ultimi tre, la cronaca vantava un giornalista di grandissimo livello e prestigio: Ermanno Rea, che, via dal “Giorno”, scrisse libri preziosi, vincendo anche premi importanti. Ne scrisse anche Enzo Catania, che una volta la settimana duellava su Telelombardia in difesa dell’Inter, sulla quale uscì un suo volume, dopo tanti altri. Eravamo talmente abituati ai ruggiti di Enzo Catania, che quando lasciò la cronaca per andare in gito per il mondo come inviato speciale ci dispiacque, sapendo che lui avrebbe preferito rimanere ancorato a quella bitta. Gli successe Guido Gerosa, che era stato tanti anni ad “Annabella” come vicedirettore e prima a “L’Europeo”.
Giovanni Basso (disegno di Lotito)

Era uomo coltissimo, aveva al suo attivo parecchi libri (su Kappler, su Bettino Craxi…) ed era capace di buttar giù una pagina intera in un’ora sulla morte di Jean Paul Sartre o di Federico Fellini. E amava, anche lui, la nera, che aveva seguito quando lavorava alla “Notte”, negli anni giovanili. Nonostante il tempo trascorso, di quell’ambiente ricordava bene nomi, fatti, circostanze… Quanti avvenimenti e quanti personaggi e quanti momenti con l’etichetta “nera” conservo nell’archivio della mia memoria. E anche qualche “scoop” mancato. Mi pesa ancora il pensiero di quel pomeriggio d’estate in una cittadina del Comasco, quando un’amica che ero andata a visitare mi disse che vicino a lei era stato agli arresti domiciliari un grosso elemento che aveva fatto parlare di sè tutte le cronache. Erano stati amici d’infanzia e si salutavano stando ciascuno sul proprio terrazzo. Quando mi disse il nome quasi mi venne un infarto. Io ero andato a cercarlo in Svizzera. L’amica si giustificò dicendo che improvvisamente quella porta che dava sul terrazzo era rimasta chiusa. Mi consolai pensando che non era sicuro che quel signore mi avrebbe concesso un’intervista. Ma io avrei potuto spiarne almeno le mosse. Anni passati con soste nelle caserme dei carabinieri, in questura, nelle varie sedi della Guardia di Finanza, di notte e di giorno, a qualsiasi ora, in attesa dell’osso da spolpare. Adesso ricordo i miei colleghi che non ci sono più: da Rizza a Gorio, a De Barberis, a Tanino Gadda, Gigi Gervasutti, Giancarlo Botti, Luciano Pizzo, Giovannino Basso, Giulio Giuzzi, Enrico Nascimbeni, Guido Gerosa… Quasi tutta quella cronaca con un ammiraglio che conosceva bene il suo equipaggio e tutti comparti della nave.




mercoledì 17 agosto 2022

La Lorenteggio, attraversata dal nuovo metrò

 

Via Gelsomini
QUANTI PUGLIESI IN QUESTA STRADA

UN NASTRO LUNGO FINO A CORSICO

Mercati, mercatini, negozi, feste rionali,

a Natale fuochi di artificio spettacolari

allestiti dai cinesi dell’emporio di via dei

Gelsomini.

 

Franco Presicci

Piazza Frattini
Cercando casa a Milano, una sessantina di anni fa, me ne indicarono una dalle parti di piazza Napoli, il cui proprietario, scorbutico, alto quanto il bancone del salumiere, grassoccio, diffidente, parlava come se avesse in bocca un paio di fagioli. Quando il mio accento rivelò la mia provenienza, mi spifferò che per me i locali non erano disponibili. Gli domandai la ragione e la risposta non si fece attendere: ero un terrone. Con la calma di chi si avvicina all’altare per assumere l’ostia consacrata, gli risposi: “Guardi, signore, la parola non mi offende, deriva da terra, che ci dà tanto nutrimento; e a lavorarla è un signore che fa tanta fatica per tenerla fertile: quel signore esercita un mestiere nobile, è un contadino”. Ciò detto, lo salutai. Rimase come le statue di legno che un artista anziano realizzava al Parco Nord con gli alberi morti. In seguito lo incontrai un paio di volte; lo salutai e lui rispose bofonchiando. Lo feci apposta, per strappargli il muggito. Per fortuna i meneghini non hanno mai considerato i terroni degli invasori, tanto che già circolava il detto: “Se a Milano ci fosse il mare sarebbe una piccola Bari”.
 
Sardone
La casa la trovai in via Lorenteggio, una via bella, soprattutto nel tratto tra le piazze Bolivar e Frattini e all’angolo con via Primaticcio, molto movimentata e ricca di negozi, compreso il laboratorio di un calzolaio con il deschetto, forse l’ultimo rappresentante della categoria.
Era un pugliese di nome Sardone, noto e simpatico a tutti, nella zona. Per conoscerlo meglio, mi trattenni nel suo negozio su sua richiesta e mi disse che riparava le scarpe alla mamma di Silvio Berlusconi, che abitava a due passi. Di fronte al tabaccaio c’era un famoso disegnatore e il mio amico Nicola La Forgia, di Trani, che scriveva canzoni mirando a Sanremo e faceva il bigliettaio su un pullman della linea E dell’autobus, che allora passava per piazza Duomo. Quando questa categoria venne abolita dall’ATM, Nicola cambiò lavoro e continuò a buttar già versi.
 
Autorimessa ATM del Giambellino
Lo incontravo spesso in Galleria del Corso, che brulicava di cantanti diretti alle varie case discografiche che vi avevano sede, tra cui la Carosello e le Messaggerie Musicali. E lì agli albori degli anni Sessanta conobbi Domenico Modugno, già un divo, Memo Remigi, Tony Renis, Arturo Testa, che allora intrepretava “Io sono il vento”, e Alberto Lupo (ricordo “La Cittadella” televisiva da lui interpretata con grande successo in tivù) che come il cantante era una persona di squisita cortesia, tanto che entrambi in alcune occasioni mi dettero un passaggio in macchina a casa. Dove a volte venivano a trovarmi Ceto Tinarelli, un giornalista che al giornale del pomeriggio “Il Corriere Lombardo” faceva il critico di musica leggera, oltre ad occuparsi di sport; e il presentatore Febo Conti, con cui si parlava di tante cose: di un premio che era stato assegnato a Ernesto Calindri, che stimavamo entrambi; del suo personaggio televisivo amato soprattutto dai bambini: Ridolini. Febo aveva un grosso camper in via Sammartini, nei pressi della stazione Centrale, con una televisione a circuito chiuso, dove spesso si riunivano artisti famosi.
 
Fontana di piazza Tirana
Una sera ci andai con Liliana Feldmann, Evelina Sironi, Roberto Brivio, pilastri della Rai milanese… e Giovanni D’Anzi, autore di “Mia bela Madunina”, reduci da uno spettacolo all’aperto fatto per un circo, il cui tendone era stato distrutto da un temporale. Vicino allo stabile in cui abitavo c’era - c’è ancora, ristrutturato - il mercato rionale coperto, formicolante di gente. Io accompagnavo mia moglie per fare la spese e seguivo le scene che vi si svolgevano: pochissime persone intente a scambiare due parole; qualche tentativo, raro, di tirare sul prezzo; una signora che arrivava con l’atteggiamento di Wanda Osiris sulle memorabili scale, sempre in compagnia di un’ancella, un cappello con la piuma di struzzo, un modo da “snob” di prendere la frutta, con l’indice e il pollice. Curiosava, valutava la qualità della merce, la commentava, si consultava e dopo qualche esitazione si decideva. Passava fra l’indifferenza degli altri. Nella via non succedeva mai niente. Ma a un tiro di schioppo dalla Lorenteggio, più vicino alla parallela Giambellino, lunghissima, che da viale Papiniano va a Corsico, si svolgeva il traffico dell’eroina, che serviva anche clienti che arrivavano persino dalla Svizzera. Un pomeriggio, appostato sotto la finestra del custode d’un palazzo popolare, attraverso uno spiraglio della serranda della cucina, spiai il movimento: i tre gestori apparivano verso le 14, il più giovane offriva la sedia a sdraio al principale, e con un terzo distribuiva le bustine ai giovani che si aggrumavano intorno a loro. Mi dissero che i giovani accalappiati dalla droga la tagliavano grattando l’intonaco dalle pareti. Per fare delle foto con il fotografo Gaetano Montingelli, che non si tirava mai indietro, salimmo poi sul terrazzo di un palazzo altissimo senza chiedere il permesso a nessuno, per evitare che ci dicessero di no. Ogni tanto irrompeva il maresciallo Ennio Gregolin, da anni scomparso, un uomo massiccio, barba e baffi neri, cintura nera di judo, accento veneto, e ne acciuffava qualcuno, mentre gli altri se la davano a gambe. E finivano dentro in una retata più massiccia. Erano ormai gli anni 80. E proprio quell’anno, in novembre, in una sparatoria furibonda, all’altezza di via Delle Rose, furono uccise quattro persone, tre delle quali erano quelli che avevo visto commerciare la droga. Si disse che avevano lasciato sul tavolo verde di una delle bische più note della città un bel mucchio di milioni destinati al pagamento di una partita di “veleno”, erano usciti e rientrati con le armi in pugno, riprendendosi il denaro. La vendetta scattò la sera dopo, alle 8. Il vice capocronista, Luigi Gervasutti, un gentiluomo barbuto di origini friulane, mi chiamò subito a casa e dovetti rinunciare a delle squisite melenzane ripiene. Ero abituato a lasciare il piatto a metà o un attimo prima che venisse messo in tavola. Conoscevo bene luoghi e persone, fatti e misfatti; sapevo che da quelle parti c’era anche una bisca all’aperto, che apriva alle 14 e chiudeva alle 6 del mattino dopo. I dadi venivano lanciati nella piazza che fronteggia la stazione ferroviaria e i cittadini si lamentavano perché gli urli che provenivano da quel cerchio disturbavano il sonno di chi doveva andare a lavorare.
 
Mercato coperto
Oggi quella piazza ha cambiato volto: i patiti dell’azzardo non ci sono più, sono sorte aiuole, una fontana e le sole voci che si sentono sono quelle dei bambini che giocano allegramente. E c’è un progetto che comprende l’abbattimento delle case popolari di via Giambellino, a qualche centinaio di metri dal punto in cui si erano insediati i biscazzieri. Milano ama cambiare. Nel bene e nel male. Da sempre. A volte scatenando furori. Ai primi del Novecento fu demolita la Pusterla dei Fabbri, dopo accese polemiche in consiglio comunale. E non fu la sola colpa. Nel tempo ce ne sono state altre. Quando arrivai in via Lorenteggio, nei pressi di piazza Bolivar, c’erano casupole con il tetto di lamiera e case minime all’angolo con via Primaticcio: lì vicino da qualche anno hanno costruito una caserma della polizia e messo su palazzi dignitosi. E a Natale i cinesi che hanno un emporio in via dei Gelsomini scatenano un grande spettacolo di fuochi d’artificio.
 
Mercato di via Gelsomini
Oggi in quella via, il mercoledì, organizzano un mercato rionale con banchi di pesce, frutta e verdura… e sta per entrare in funzione la sesta metropolitana; e si fa, ogni anno, anche una festa, dove, in uno spazio lasciato libero dalle bancarelle, si esibiscono gli antichi mestieri, con donne all’arcolaio e uomini intenti a confezionare cestini di vimini. Qualche anno fa In un piccolo supermercato, nella stessa via, all’esterno riempirono un cassone di modellini di radio anni 40, prezzo 3 euro ciascuna. Il contenitore si svuotò in pochi giorni. Sollecitarono tanti ricordi, come la radio che si ascoltava durante il conflitto mondiale; clandestinamente; e le giornate del ’45, quando, come adesso, piovve quasi niente e i campi non riuscirono a dissetarsi, con le conseguenze che si possono immaginare). Un giorno, lanciando lo sguardo in una vetrina, in via Lorenteggio, notai una pattuglia di fischietti in terracotta di Noè Macrì, un bravissimo figulo di Grottaglie. E’ arrivato fin qui, Noè, mi dissi, ricordando gli incontri che avevo avuto nella sua bottega nel paese di San Ciro. La Puglia spiccava a Milano non soltanto per i carabinieri con il fischietto sul deretano fatti con l’argilla, ma per tantissimi altri aspetti molto più rilevanti. Furono i pugliesi – mi diceva Gigi Pedroli, acquafortista famoso e cantautore di grande talento - ad abitare in massa nelle case sulle sponde del Naviglio Grande, già negli anni Cinquanta, anni che Pedroli evoca con efficacia in alcune sue canzoni.




mercoledì 10 agosto 2022

Il fascino della vecchia Milano

CAMMINATE IN CORSO SAN GOTTARDO

L’ANTICO BORGO DEI FORMAGGIAI

Ibrahim Kodra

Un giorno ci andò anche il grande pittore

albanese Ibrahim Kodra e fu accerchiato

da un gruppo di ragazzi che lo sottoposero

a un diluvio di domande. 

Poi volle salire sull’enorme velocipede

realizzato dal fabbro Bruno Scapoccin.

 

Franco Presicci 

Le case di ringhiera, a Milano, conservano tutto il loro fascino. Dal Naviglio Grande a via De Castiglia, che un tempo, negli anni 70, era una via stretta e disadorna, a pochi passi dalle Varesine, dove s’installavano le giostre e oggi ricca di palazzi dall’architettura d’avanguardia; all’Isola Garibaldi, che all’alba del ‘900 era bazzicata dalla mala di bassa lega e successivamente ha dato alla luce personaggi che con il proprio lavoro hanno saputo imporre il proprio nome di imprenditori. In qualche parte all’Isola c’era un cimitero detto della “Moiazza” o di Porta Comasina, in cui giacevano anche le spoglie del Parini, del Beccaria e di Tommaso Melzi D’Eri (sorto nl 1685, venne smantellato quando dopo la realizzazione del Monumentale e del cimitero Maggiore).

Casa di Ringhiera

Scoprii le case di Ringhiera proprio all’Isola Garibaldi, nel ’70. Ci andai per il settimanale “Il Milanese”, che mi aveva affidato un servizio sulle bocciofili; e lì ne trovai più d’una; un’altra in via Aressi, dove in uno spazio di una cooperativa operaia si spandeva un campo doppio rispetto ai soliti attraversato longitudinalmente da un cordolo, per il gioco alla meneghina. Le case di ringhiera più famose erano in corso San Gottardo, l’antico borgo dei formaggiai, che nei depositi disposti nei cortili, ai primi del ‘900, venivano custodite oltre 200 mila “ruote” di parmigiano. Quando un abitante del borgo andava in piazza del Duomo si capiva subito la sua provenienza, per l’odore che si portava addosso.

Guido Bertuzzi
Una domenica del giugno 2008, dopo una visita in vicolo dei Lavandai al mio indimenticabile amico, il pittore Guido Bertuzzi, che stava terminando un’opera da donare al questore Vito Plantone appena andato in pensione, decisi di tornare in corso San Gottardo, anche per intrattenermi con qualcuno disposto a ripercorrere i vecchi tempi: le abitudini, i giochi del bambini, i rapporti tra i coinquilini, insomma la vita quotidiana in queste case negli anni passati. Suonai a diversi citofoni senza avere risposta. Ma al terzo o al quarto tentativo, dall’altra parte mi rispose una voce femminile, sottile, aggraziata, quasi familiare. “Salga, salga pure”, e mi dette le indicazioni per arrivare fino a lei, perchè di solito i passaggi in questi vecchi edifici popolari sono intricati. La signora mi fece entrare in casa, mi indicò una sedia, mi offrì un caffè, dicendo: “Sa quanti anni ho? Novantadue, ma se le devo dire tutta la verità non me li sento”. Era bassina, magra, i capelli biondicci e riccioluti, un sorriso dolce e amabile. Parlava con passione di quei muri antichi; e della vita che una volta vi si conduceva.

Luigia Airoldi

“Mi chiamo Luigia Airoldi, ma se preferisce si limiti al nome di battesimo”. Viveva al secondo piano del civico 22, dove si affacciava per ammirare i tetti a padiglione di color rosso. “Abito da settant’anni in questa casa, che di anni ne ha 150. I terribili rumori della guerra si erano da poco spenti, la gente tirava un sospiro di sollievo e cercava di dimenticare gli affanni., il mercato nero, il coprifuoco, i bombardamenti, anche se le ferite della città erano ancora sotto gli occhi di tutti. C’era voglia di divertirsi, la radio diffondeva tanta musica con le orchestre di Zeme, Consiglio e Kramer, che trasmetteva dagli auditori meneghini. Già da un anno, la domenica alle 14, andava in onda il programma ‘Sette giorni a Milano’ di Spiller, Carosso e Menicanti. Era bello una volta vivere sulla ringhiera. Sì, c’era il gabinetto comune in un angolo del ballatoio, ma nella saletta avevamo il camino. Ci si nutriva con la pagnotta e qualche piatto di spaghetti, che il mio compagno portava dal panificio in cui lavorava”. Tra i coinquilini regnava tanta affabilità. Tutti per uno, uno per tutti. Ci si parlava da una ringhiera all’altra; ci confidavamo problemi, gioie, amarezze, delusioni. Se uno aveva bisogno non rimaneva mai solo. Si accendevano anche liti, ma erano un fiammifero che subito si spegneva, grazie anche agli altri pronti a riportare la pace”. Luigia ricordò poi la gente che aveva lasciato la ringhiera: la lavandaia, che faceva una vita di stenti e di fatiche; il formaggiaio Uliman… Al 24 c‘era la trattoria della Celestina, dove gli uomini dopo il lavoro giocavano a carte. “Buongiorno”. Ecco il nipote, Silvio, 69, anni, un uomo massiccio, cordiale, loquace, sorridente e disposto a integrare il discorso: ”Dalla Celestina, bevendo un sorso, si cantava anche a squarciagola. Nei pressi si giocava a dadi all’aperto sino alle 7 del mattino.

Vicolo dei Lavandai
Come in piazza Cardinal Ferrari e altrove. La posta, 100 lire, ma siccome ad ogni perdita occorreva aumentarla, qualcuno si privava del bracciale o della catenina. Io ero ragazzino e mi ci fermavo per curiosità, senza che nessuno badasse alla mia presenza”. Disse la sua anche Giuseppe Brambilla, 72 anni. Era uno dei primi mutilatini di don Gnocchi (da bambino gli scoppiò in mano una penna e perse un occhio). Nelle case di ringhiera si stava dunque come in una famiglia. I cortili erano ricchi di voci. I ragazzini si divertivano a spingere un cerchio con una mazza; i più grandicelli giocavano alla lippa. Un vecchio mi raccontò del formaggiaio che cantava stonato; del maniscalco burlone; del materassaio e del riparatore di botti e mastelli che salutavano chiunque passasse, con l’intenzione di scambiare qualche parola.

Barcaiolo
Al civico 18, più che un cortile un vicolo che corre fino a via Ascanio Sforza, leccata dal Naviglio Pavese, violai il tempio del fabbro Gianni De Bernardi, che ormai settantenne ci veniva solo per passare il tempo. Prese in mano un punzone e declamò: “Ho lavorato qui dentro trent’anni. Non sono pochi. E ho ancora nostalgia di quelle giornate passate tra l’incudine e il martello. Prima stavo in via Scaldasole, dove poi hanno buttato tutto giù. Al mio arrivo stabilii subito un ottimo rapporto con il collega Bruno Scapoccin, che con materiale di risulta costruì una balena e la varò nel Naviglio, con i falegnami Lauria e Torre, e con il tornitore in lastra Volpi. Aveva costruito anche un velocipede che arrivava al primo piano di uno stabile. Giorni davvero felici. Un giorno un amico poliziotto mi invitò a bere un caffè, mi fece salire sulla macchina, e subito una vecchietta si mise ad urlare: ‘An menà via el Gianni, el feree!”. Tute le porte si spalancarono e la via si affollò. “Ogni tanto facevamo delle grandi mangiate alla Briosca del Pinza, in via Ascanio Sforza, con Scapoccin che suonava la fisarmonica; e quando ci venivano anche gli inquilini tra un piatto e l’altro tutti “avvinghiati come l’edera” (ricordate Nilla Pizzi?) nelle danze. La mattina gli artigiani facevano il giro delle osterie per bere il “chichettin”... Una pausa e poi: “Che tipo la signora Carolina. Curava il cortile con meticolosità piuttosto rara: Lo sa? Proprio davanti alla mia officina hanno girato un film con Renato Pozzetto e Adriano Celentano. L’ambiente era tranquillo, allora: tutt’al più si poteva incappare nel ladro di biciclette… “Era questo ‘el borg de formaggee’”, intervenne il proprietario dell’officina Giuseppe Piacentini; Infatti una volta nei locali di questi cortili si stagionavano i formaggi di ogni peso e grandezza”.

Gianni De Bernardi
Opera di Kodra

Alcuni ricordarono il giorno in cui s’imbatterono in quel grande personaggio che era il pittore albanese Ibrahim Kodra, uomo di alta cultura, pittore conosciutissimo e amato (aveva fatto mostre ovunque, da Palermo a Palinuro, oltre che a Milano e all’estero, frequentatore assiduo di Brera e innamorato della vecchia Milano). L’artista volle salire sul velocipede realizzato da Scapoccin e poi sulla balena ancora nelle acque del Naviglio Pavese. Un gruppo di giovanotti lo accerchiarono e gli chiesero se fosse vero che al suo arrivo in Italia da Tirana avesse fatto un discorso nella sua lingua contando da uno a cento e intervallando la numerazione con le parole in italiano “duce”, “fascio”, “Mussolini” le uniche che conosceva), scatenando una valanga di applausi, perché tutti credettero che aveva esaltato il regime. Eh, Ibrahim, uomo spiritoso, scherzoso, socievole, leale, generoso. In gioventù era stato campione nel lancio del disco in Albania, ma non ne parlava mai, come non parlava dei suoi quadri, dei suoi totem che suonano il banjo e altri strumenti. Ne aveva uno appeso a una parete del suo studio, in piazzale Lagosta, all’ultimo piano, da dove si dominano viale Zara e un po’ viale Fulvio Testi. Quella casa era stata di Ghiringhelli, già sovrintendente alla Scala. Quando Ibrahim morì, Fatos, la persona che tiene alto il suo nome, mi invitò a parlare dell’artista a una televisione albanese e non riuscii a trattenere le lacrime.







mercoledì 3 agosto 2022

L’automobile è, sì, una bella invenzione

MA SULLA STRADA COMPIE MISFATTI

ED E’ NECESSARIA MOLTA PRUDENZA

 

 

L’episodio del presunto prete che fece un sermone per non finire ammaccato.

La donna che, colpevole di un brutto tamponamento finse di non saperne nulla. 

I maniaci del clacson che lo usano come l’apparecchio per la barba.

 

 

 

Franco Presicci

L’auto è semplicemente un mezzo di locomozione. Eppure spesso è causa di polemiche, alterchi, violenze. Di per sé la vettura non è un demone del nostro tempo che va cambiando come quello meteorologico. Sono le persone alla guida che avrebbero bisogno di una revisione. Il motivo è sotto gli occhi di tutti: c’è chi ama la quattro ruote più della propria moglie, e prima di metterla in moto la guarda, la osserva, la ispeziona, chiude il garage e torna a sbirciarla davanti, di dietro, di fianco, per appurare che non abbia subito una ferita sia pur lieve, un’ammaccatura in un punto meno visibile, una rigatura.

Se la scoprisse, darebbe i numeri e infierirebbe contro l’ignoto autore dell’oltraggio. Un amico, che lavorava nella mia stessa azienda, un giorno parcheggiò la vettura nel cortile e la sottopose a un esame accurata. Solo dopo una ventina di minuti emise una diagnosi favorevole e le voltò le spalle Considerava la sua auto un gioiello. Quando si sedeva al volante si sentiva un magnate, un padrone del vapore, un re: il volante era il suo scettro, il suo simbolo del comando. Un altro giorno trattò in malo modo un giovanotto che vi si era appoggiato. “Come ti permetti? E’ per caso di tua proprietà? Che cos’è? Una sedia? Un divano, una poltrona? Acculati sul muretto, che forse ci stai più comodo”. lI poveretto non riuscì a scucire una parola, sopraffatto dal diluvio di quelle dell’altro. In strada l’amico aveva un’andatura quasi da lumaca per paura che la sua Fiat Uno potesse subire una strisciata, o peggio.

Nonostante la prudenza maniacale, uscendo dal lavoro notò un “livido” sulla fiancata destra e rimase di stucco con gli occhi ardenti. Ero presente alla scena, tentai di confortarlo, mi fulminò con lo sguardo e lo lasciai disperato come Achille alla notizia della morte di Patroclo. Chi con ci crede è affar suo. Evidentemente non ha mai visto neppure i folli, che in macchina devono correre quanto più possibile, perché il sorpasso è il loro godimento. E poi ti aspettano al semaforo, diceva Romano Villi, il “cow-boy“ della televisione negli anni ’70, amico di Febo Conti, che della tivù era il Ridolini, oltre che conduttore elegante e divertente del programma “Chissà chi lo sa”. Romano, solido, solenne, una specie di comandante Custer, si esibiva anche nelle quintane sui prati davanti ad un pubblico appassionato e a giornalisti. Tornando alle auto e ai piloti, ci sono anche quelli con le mani costantemente sul clacson: suonano persino se vai piano e non hanno possibilità di superarti. Una volta incappai in uno che aveva quell’arnese con la voce della mucca. Era un modo per distinguersi, imporsi, costringere ad accelerare per l’integrità delle orecchie, o soltanto per sfottere. Quelli come lui ti affiancano, ti gridano improperi irripetibili, mentre tu continui ad andare a velocità consentita. La macchina dà potere, prestigio, è “status symbol”. Se hai una piccola cilindrata non sei nessuno. Al parcheggio non ti lasciano spazio perché loro devono occupare due posti. E devi stare zitto per la tua incolumità: le liti stradali suscitano il ricordo di brutti precedenti, finiti nelle pagine di cronaca. Si ricordi il delitto del cacciavite, per esempio: episodio da film del brivido.

Un tale in una strada a due passi dalla campagna, non essendosi accorto in tempo che dalla Mercedes che lo precedeva lampeggiava la freccia di svolta a sinistra, frenò rumorosamente. Dal finestrino sbucò un faccione pauroso che, facendo roteare l’indice e l’anulare, gli chiese se per caso avesse voglia di saltare sulla barca del lugubre Caronte. Il “reo” tacque impaurito e l’altro, prendendo il silenzio per offesa, aprì la portiera, uscì con gli occhi fulminanti, le mani grandi come pale, i piedi come quelli del clown in pista al circo equestre e marciò verso l’incauto, che tremava, e non sapeva come comportarsi. Quando l’omaccione fu nei suoi pressi sbottò: “Fermati, sono un ministro di Dio, non entrerai nel grembo dell’eternità se userai violenza a un tuo simile…”. Poi fu colto da un attimo di afasia e Il gigante si fermò, ma non per timore delle fiamme dell’inferno, e retrocesse, urlandogli: “Ma vaffan…”. Dietro l’auto del “colpevole” si era formata una lunga fila e tutti applaudirono al lieto fine. Io non pensai di avvicinarmi al pilota distratto per chiedergli se fosse davvero un prete o se il suo fosse stato un provvidenziale “escamotage” per evitare di essere ridotto in polpette, anche perché, se lo avessi fatto, avrei bloccato ulteriormente il serpentone, tirandomi a mia volta addosso chissà quanti e quali insulti. Comunque, se fosse stato un semplice laico, avrebbe meritato un premio come primo attore, tanto era stato efficace il ruolo improvvisato e come signore della strada.

Di esempi ne avrei da raccontare tanti, vissuti o ritagliati da racconti di testimoni affidabili e forse anche oculari. Avete mai visto, per esempio, due macchine affiancate, con i piloti intenti tranquillamente a conversare, senza curarsi degli automobilisti bloccati dall’una e dall’altra parte? Io ne ho viste più di una. Anzi alcuni li ho subiti, perché fra quelle attese forzate, paziente e taciturno, c’ero anch’io. E guai a mettere il ditino sul clacson: non sai come può andare a finire: devi essere sereno e attendere che il dialogo finisca. Ed ecco l’auto ferma proprio sulla mezzeria e uno con i gomiti appoggiati sul finestrino, il deretano teso verso l’altro, faccia da maresciallo Cecchini in “Don Matteo”, chiacchierava con l’uomo al volante, come fosse sul balcone di casa sua. Ogni tanto si voltava verso di me, con esibita indifferenza. Dopo una mezz’oretta, evidentemente dopo aver salutato l’interlocutore, mi disse, arrogante: “Non ti muovi? Che stai a fare lì a ingolfare il traffico?”. Come si dice: Cornuto e mazziato. E anche cacciato di casa, visto che la strada, come si sa, è di tutti.

Mi piace ricordare la sera in cui stavo percorrendo un budello, quando da un gomito sbucò una 850 guidata da una signora bionda e carina se non proprio bella e io le indicai un varco dove poteva immettersi per consentirmi di proseguire. Lei invece urlò: “No, tu sei maschio e tu devi tornare indietro”. Obiettai che seguendo il suo consiglio avrei dovuto rifare 300 metri: un percorso pericoloso, soprattutto al momento di uscire con il didietro su quella via di traffico veloce. Ma lei continuava con la tiritera che io ero maschio e io dovevo provvedere a risolvere la situazione. Intervenne un giovane e si offrì di fare lui la manovra giusta, ma lei si oppose. Si aggiunse un signore che con la voce perentoria chiese “Di chi è la precedenza?”, trasformando la commedia in farsa, anche perché l’amazzone alla fine si decise ad affrontare quell’apertura che era stata praticata apposta. Avrei voluto baciarle la mano. Un fatto del genere accadde altrove, in una strettoia cittadina.

Due auto, guidate da donne (per carità, non si pensi che io ce l’abbia con le signore al volante, anche perché penso che siano più brave dell’altra categoria) anzichè utilizzare uno slargo che consentiva in quei casi a una delle due di sgomberare il “corridoio”, si fronteggiarono, pretendendo entrambe che fosse l’altra a retrocedere, e dopo molti minuti di resistenza esplosero con parole roventi e si azzuffarono. Due marcantoni riuscirono a placare gli animi. Il fatto mi fu riferito da un mio amico ottantenne che ripensava spesso alla sua divisa di carabiniere, stando seduto, nei pomeriggi d’estate, davanti alla porta di casa. “Da qui ho assistito a quella scena che il buon senso avrebbe evitato. Scena da bambini che giocano alla guerra”. La persona al volante si trasforma, non dico che diventi mister Hide, ma gli si avvicina. E devi stare zitto, per evitare conseguenze. “Toh, assapora questa caramella, fatti la bocca”. Il caldo ti scioglieva: avevo bisogno di una granita. “Devi stare attento”, mi suggeri un mio parente, saputo e meschinello, bugiardo e invidioso, accanito giocatore del lotto: mi aveva sentito raccontare al padre quel pezzo di teatro e farfugliò: “Se non stai zitto qui ti spaccano i denti”. Per carità, i denti no. ero stato appena dal dentista, ma non, per grazia di Dio, per una lite stradale. I miei improperi me li prendo senza mai replicare, sia perché nella guida ammetto di non essere un campione sia perché sono una persona di pace. Sono stato tamponato da fermo da uno che probabilmente guidando parlava al telefono o aveva avuto un colpo di sonno e mi è quasi venuto un cardiopalma, vedendo sfracellato tutto il posteriore della mia Ford Fiesta rossa fiammante. Ma dopo il verbale dei vigili urbani ho stretto la mano alla controparte. Mi diceva: “Sono guai seri per me, ho tre figli”.

Mi chiedo perché non si possa essere gentiluomini anche nel caso di un sinistro. Se uno compie un errore non va appeso ad un albero come facevano con i ladri di cavalli nel Far West. Conoscevo un tale tranquillo come quello del famoso film, ma sosteneva che in caso di incidente non sarebbe forse riuscito a mantenere la calma. Che cosa avrei dovuto fare io la sera in cui, fermo al semaforo, fui speronato la prima volta? Uscii dall’abitacolo, bussai al finestrino e mi trovai di fronte a una giovane donna con il capo chino sul telefono. Alzò la testa solo quando le dissi che mi aveva tamponato. “Io? “E quando?”. “Adesso. Vede la gente fuori dalle auto? Il rumore si è sentito fino a piazza Duomo”. “E da me che cosa vuole? Io che cosa c’entro? Io non ho sentito niente”. Paziente come Giobbe, ispezionai le auto, non notai danni e ripartii, mugugnando. Il carrozziere sentenziò; 200 euro solo per riparare la serratura del portabagagli; 1000 per il piano che come vedi è diventato come il mantice della fisarmonica: il paraurti è di gomma, con l’urto è rientrato e subito ritornato come prima. Perciò non hai visto il danno”. La prudenza e l’educazione costano.