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mercoledì 30 agosto 2023

Raffaele Bugelli analista programmatore senjor

UN VERO INNAMORATO DEL MEDIOEVO

INSEGNA AI GIOVANI LA COMUNANZA

Raffaele Bugelli in armatura

E’ di Martina Franca ma vive a Vigevano.

Con alcuni amici ha costituito un gruppo

che fa capo all’Oratorio di san Giuseppe

al Cascame, dove tra l’altro si organizzano

giochi di ruolo teatrali. E’ anche amante

del modellismo statico d’ispirazione

medievale, eseguito con materiali

semplici.

Franco Presicci

Condivide con i suoi amici la passione per i Templari, “cavalieri e difensori della persona, ma anche della cristianità. Ci colpì anche la dottrina della fratellanza e dell’unione”.

I fondatori dell'Associazione
 

Un giorno baluginò l’idea di costituire un sodalizio, e discutendo, scambiandosi idee, elaborando progetti, allargarono il loro orizzonte, acquisendo nuove conoscenze e competenze come l’uso della spada. Quindi cercarono un maestro che li potesse preparare nella scherma medioevale e a Mortara nel 2007 trovarono la Compagnia “Merito et Tempore”, dove si tenevano corsi nel settore. Nel 2010, ormai allenati e con rinnovate esperienze, decisero di fondare l’Associazione Culturale “Commenda San Giorgio”, nella quale incominciarono a organizzare eventi in costume e armamentario (tende, velari che servono per proteggere dal sole…).

Raffaele Bugelli

 

 

Il mio simpatico interlocutore è Raffaele Bugelli, 48 anni, analista programmatore senior, nato a Martina Franca e nel 2001 trasferitosi a Vigevano. Della città dei trulli non conosce il dialetto, perché il padre, di Fasano, gli suggeriva di esprimersi in italiano, come accadeva a quei tempi in molte famiglie. Raffaele è una persona comunicativa, schietta, intelligente, volenterosa, positiva, che risponde senza reticenze alle domande sui suoi interessi culturali e sportivi, che a quanto pare sono diversi. Non sa dire da dove derivi la sua predilezione per il modellismo statico legato al Medioevo (case di quell’epoca, torri e tanto altro). Nei diversi lavori di modellismo o “diorami”, si serve di elementi di scarto e semplici come il gesso, il cartone o la balsa, dopo aver eseguito un progetto su carta, contenenti tutti i dettagli, le misure e il materiale. Tutto è iniziato estendendo il giro delle amicizie nel luogo in cui si era trapiantato, eseguendo giochi di ruolo (gdr) con l’utilizzo di chat messaggistiche. E da lì conobbe, fra gli altri, Daniele Garavaglia, uno dei suoi migliori amici, che abita a Mortara. Il primo evento, nella stessa città del “maestro di Vigevano”, presso l’oratorio della chiesa di Fatima. Consisteva in un combattimento teatrale, seguito da giochi medievali per bambini (tiro della corda, lancio di cerchietti di corda, tiro dell’arco, esibizioni con il cucchiaio con un uovo nell’incavo.

Arcieri a Morimondo

A Cerrione hanno poi allestito un accampamento con giri di scherma, seguito da spettacoli a Casella, in Liguria, a Novara (al Castello e al Broletto), a Gallarate, a Castello Arguato, a Mortara, nella piazza e nel Castello, di epoca medioevale; e tra le tante altre località Morimondo. Insomma un’attività abbastanza densa e molto apprezzata. Raffaele ne parla con entusiasmo, quasi coinvolgendo chi lo ascolta. Lo immagino vestito da Templare mentre duella con l’avversario di turno, applaudito dai cordoni di folla, come negli anni 60 avveniva nei dintorni di Milano alle quintane di Romano Villi, detto “lo sceriffo” della televisione (aveva la sagoma del guerriero medioevale, possente e generoso, di cui posseggo come ricordo affettuoso una piccolissima stella in oro). Intanto Raffaele approfondisce gli studi di scherma (“Flos duellatorum”, inizialmente apprendendo le tecniche della spada a due mani dopo aver letto e assimilato ”il manoscritto di scherma tramandato in tre collezioni/versioni, differenti l’una dall’altra “(Getty, Morgan, Pisani-Dossi, che è quella adottata da lui)”.

Duello al Broletto di Novara
Le tecniche descritte nel ‘Flos Duellatorum’, combattimento a mano nuda, con la daga, con la spada con una mano o con due mani, con la daga e bastone, con la lancia, a cavallo…”. Lo ascolto con viva attenzione, non perdo una sola parola del suo racconto, sia quando esalta i ruoli sia quando dipinge gli ambienti in cui le competizioni si svolgono. Bravo nelle descrizioni: “Un cavaliere templare indossa le braghe calzabraghe normali e imbottite, camicione bianco, stivaletti bassi, il ‘gambeson’ pure imbottito, infula imbottita per il combattimento, l’usbergo, armatura di ferro in anelli sopra il l‘usbergo’, che copre dalla testa al ginocchio insieme al “camaglio”. Sopra l’usbergo si colloca la tabarda, specie di camice scamiciato con la patente templare: la croce. “Praticamente replichiamo l’abbigliamento dell’epoca. Ah, poi c’è l’elmo, la spada, la cintura”. Non tralascia alcun particolare, Raffaele, e fa quasi venire la voglia a chi l’ascolta di seguirlo nelle sue esibizioni.

Raffaele in preghiera prima del duello
E’ un “Templare” alto, robusto, una moglie, Beatrice, una figlia universitaria, Desirée; trascorre le brevi vacanze nel trullo di famiglia a Martina, su via Mottola, o dalla mamma. Lo vedi stagliato nel tratturo, indifferente al volo delle farfalle e ai suoni e ai profumi della campagna, e sembra un turista che ha lasciato il computer per godersi le case incappucciate, le viti inginocchiate messe a dimora dal suocero, Giovanni, sostenuto moralmente dalla suocera Stellina (entrambi scomparsi); e lo immagini impegnato nella vestizione per trasformarsi in Templare. E’ davvero innamorato del Medioevo, lo ha studiato: “Non è un periodo di oscurantismo, un secolo buio, ma ha in sé radici sviluppate successivamente”. E’ colto, informato. Nel 2011 ha trasmesso questa sua passione della scherma e della storia medioevale, compresi gli usi e i costumi nell’interno dell’oratorio della chiesa di Fatima, a tutti gli interessati, ai quali tra l’altro cerca di ispirare quel senso di fratellanza e dell’aiuto reciproco, “tipico dei Templari”. Nel 2021 ha proseguito la sua attività all’oratorio di San Giuseppe al Cascame di Vigevano. Il rispetto per gli altri, il piacere dello stare insieme, la comunanza fanno parte del suo bagaglio, che ha trasmesso ai tanti ragazzi che lo seguono.

Allenamento tra Raffaele e Gloria Dell'Osa
Raffaele tra l’altro è maestro di scherma, che con la sua associazione ha preso parte alla realizzazione a Gattinara, di un corto, film documentario intitolato “La quercia e la spada”. Meritevole il suo lavoro nell’ambito dell’educazione dei giovani, perché lo sport serve anche a questo. Un maestro. La domanda sull’Associazione è d’obbligo. E mi sottopone un documento, che soddisfa le mie curiosità. Ma è lui a sintetizzarlo. ”I nostri fini son diversi: rivivere in costume la vita quotidiana dell’Ordine dei Cavalieri Templari in maniera il più possibile corrispondente alla loro realtà, del periodo che va dal 1190 al 1250, con la riproposta di episodi che hanno segnato lo stesso asso di tempo; lo studio di situazioni inerenti all’argomento che ci coinvolge; La collaborazione con sodalizi che hanno i nostri stessi scopi”. “Con ‘Ordo Draconis’ ci riferiamo ai soci che desiderano approfondire specifici aspetti come l’uso delle armi bianche, arceria, giocoleria…”.

Armi e armature
E aggiunge che l’Ordo Draconis di Vigevano concretizza le sue iniziative presso l’oratorio della chiesa di San Giuseppe al Cascame. E non è finita. Raffaele Bugelli è meticoloso, attento, preciso, non certo superficiale, e completa: “Flos duellatorum”, Fior di battaglia, è un documento di lotta e scherma scritto a Ferrara nel 1409 o 1910 da Fiore dei Liberi di Premariacco, il cui testo è stato trasmesso, come detto, in tre testimoni, Raffaele Bugelli ha tanto altro da dire, e lo direbbe volentieri se non temesse, erroneamente, di aver strappato troppo tempo al suo interlocutore, che invece pendeva dalle sue labbra, attirato anche dal suo modo di illustrare, precisare, approfondire.
 
 
Segno della Spada del "Flos Duellatorum"
Ma a farlo decidere di concludere il discorso è un impegno assunto precedentemente con Desirè: una visita a Matera, ai suoi Sassi, le cui particolarità hanno sensibilizzato tanti registi, da Alberto Lattuada, che nel ’52 girò il film “La lupa”, con Kerima, a Mel Gibson, a Pier Paolo Pasolini... Vengono in mente “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, oltre al fascino, la rilevanza culturale di Matera. Il programma di Raffele contempla anche Oria, città con il centro storico di stampo medioevale e un Castello Federiciano, Apricena, nel Foggiano, Castel Del Monte, Conversano… Insomma, ogni volta che va in Puglia si mette sulle tracce dei centri che rispondono alle sue esigenze culturali e non c’e niente che possa distrarlo. Abbiamo tempo di riprendere il discorso sui Templari, “Militia templi”, che ben presto si diffusero in Europa, dalla Francia al Portogallo, e edificarono moltissime chiese, denominate Tempi. Dettero esempio di coraggio e determinazione nelle guerre del tempo, sino a quando non s’imbatterono in Federico II, che li liquidò. Erano diventati troppo potenti e a quanto pare anche economicamente ottimamente forniti.





mercoledì 23 agosto 2023

Una giornata dedicata a Taranto

INCROCI DI RACCONTI EMOZIONANTI DI UNA CITTA’ BELLISSIMA E MILLENARIA                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

                   Antonio De Florio, Nicola Giudetti, Franco Presicci, Cataldo Sferra
 

Si sono scambiati opinioni, pensieri, idee, hanno ricordato i poeti, i

personaggi, i luoghi d’incontro, i fatti di un tempo. Hanno discusso del

dialetto e recitato poesie.

Quasi un convegno estemporaneo, teatro un trullo di Martina Franca.


Franco Presicci 

Un 9 agosto quasi da inserire negli annali: istruttivo, divertente, coinvolgente, gioioso. I protagonisti sono entrati nel tratturo con l’auto a bassa velocità, attenti ai rovi che grondano dal muro a secco e li ho accolti come fòssero gli ori di Taranto.

Quercia alla fine del tratturo
Portavano il profumo de “le còzze gnòre c’addecrèen‘a vòcche” e tanti, ma proprio tanti, ricordi. “Ste persunàgge d’accezione èrene trète: Antonio De Florio, Nicola Giudetti e Caltaldo Sferra: ”‘u prìme jè ‘nu reggìste d’accezziòne, ca sus’a fessebbùcche fàce film ca te ‘ngàndene; ‘u secònne ‘n’artìste cu ‘a taulòzze indr’o còre, puète, amànde de le strumìende d’ù tìembe de ‘na vote, ca tèn’astepàte indr’a ‘na sòrte de musèe; ‘u tèrze, puète ca cumbòne pùre canzùne e hà’ mìse sus’a càrt‘a storie de Anna Fougez accùme no’nge l’ha cundàte nesciùne. Hònn’arrevàte a le dèce, dànneme ‘nu prìesce ca no’nge ve diche”. Hanno sparso nel tratturo un po’ d’aria dei due mari, ‘u Picce e ‘u Màsce. Hanno portato Taranto, il suo dialetto, la sua poesia, i suoi cantori antichi, tra fichi e ulivi, viti inginocchiate o nane, come avrebbe detto Raffaele Carrieri. Hanno “arruolato” altri due tarantini veraci snidandoli dal loro trullo in fondo a questo nastro di terra battuta fiancheggiato da muri a secco qua e là diroccati o snaturati: Mara Sarotto, nata in via Cava, e suo marito Pino Del Vecchio, che non hanno mai rinunciato a dire “chiamuèzzele” e cemenère”, “fuèche” e “scarfalìette”.

Giudetti, Del Vecchio, De Florio

Giudetti ha recitato alcuni suoi versi con una verve spassosa e ne ha improvvisati altri, cortesi, per il padrone di casa; De Florio sturava la sua memora rivolto a Pino, conoscendo entrambi Taranto come le loro tasche. Io ascoltavo, assorbivo, mi emozionavo e scambiavo battute con Cataldo, un uomo pacato, tranquillo, di poche parole, un sorriso discreto, atteggiamenti da buon curato di campagna, che produce delicatezze, come “Serenata a le do’ mare”, “Cu ttè’ ind’a ‘na vàrche”, “Un angelo nella notte”, in collaborazione con Antonio Gentile. Seguo su Facebook i suoi canti tarantini: le bellezze, i luoghi storici, gli abbracci del ponte girevole, le barche che dondolano nel Mar Piccolo, i pescatori, i venditori di cozze….

Presicci, Giudetti
La Taranto che amiamo, che ci portiamo nell’anima; la Taranto che vagheggiamo quando siamo lontani, che fa pentire e soffrire chi l’ha abbandonata e deve accontentarsi di ritorni troppo rapidi. E’ stato davvero bello ascoltare De Florio, Giudetti e Sferra, i loro brani di vita, i loro pensieri, le sintesi delle loro poesie, eseguite come il pianista che fa scorrere le dita sui tasti provando pezzi d’opera.
 
Giudetti in cartolina

Mi ha colpito la memoria di Giudetti, il suo modo di conquistare la scena, la sua capacità di descrivere gli attrezzi che custodisce nel suo museo e che illustra ai visitatori (i loro usi, la loro linea, come la forma del calzolaio che lavorava con il deschetto o il trapano a mano usato da “’u conzagràste” per riparare le fenditure dei vasi e dei tegami in terracotta). Quando osservi quegli attrezzi ripassi la civiltà del mondo antico, guidato da questo cataldiano esemplare, simpatico anche per i toni delle frasi in vernacolo che fioriscono sulle sue labbra. Quando i turisti entrano nel suo locale in via Duomo restano affascinati dal suo linguaggio, dalla Taranto che racconta, dalla descrizione degli elementi sparsi su un bancone, dalla processione pasquale che ha ricostruito fedelmente in terracotta, dalle grosse valve di “paricelle” (ne parla anche Cataldo Sferra), in cui una volta i pittori riproducevano il paesaggio della città vecchia.

Cataldo Sferra

Avanti tutta, direbbe Renzo Arbore; e i miei ospiti m’incantavano. E’ stato una specie di convegno estemporaneo, con relatori particolari, anche se sprovvisto di pubblico. Questi miei interlocutori sono amici preziosi. Il loro amore per Taranto è incommensurabile.
Nicola Giudetti l’ho ascoltato in un video e l’ho ammirato per la sua capacità di ripercorrere fra l’altro tutto il vissuto delle famiglie che in tempi passati hanno abitato in via Duomo: nomi, cognomi, discendenze, ascendenze, professioni, mestieri, parentele, virtù e debolezze. Ascoltarlo è sempre un piacere. Davanti a lui nel video c’erano parecchie persone che gli ponevano domande, lo sollecitavano ad approfondire anche sulle vicende trascorse della via, e non solo. Altro che mattatore della ribalta. Altro che fine dicitore. E’ in grado di reggere la scena per ore, esibendosi accompagnando il gesto alla parola, conversando, versando briciole di cultura tarantina. Gli altri non sono stati da meno. Quel mercoledì 9 agosto hanno tenuto il palcoscenico in maniera più che interessante, ammirevole. Giorno memorabile, dunque. Sono riemerse anche le figure dei poeti che hanno dato lustro a Taranto, con i loro palpiti, con le loro commedie (i fratelli Nasole; Marturano:“’U cuèrne de Marie ’a canzirre”…; Majoramo: “’A Sànda Mèneche”… Diego Fedele che con le sue ispirazioni (sempre presenti nella memoria di Cataldo Serra) ha vinto premi anche fuori Taranto. 

Ore tarantine a Martina: teatro un trullo.

Del Vecchio, De Florio

Rivedevo la mia città con le sue mille attrattive, le sue fette scomparse per fare spazio al nuovo, i tratti di mare nascosti da costruzioni recenti, i mercati com’erano, le vie, le piazze (la stessa piazza Fontana rinnovata dall’arte di Nicola Carrino), le rive del Mar Piccolo occupate dai banchi a scala con grossi piatti di terracotta pullulanti di frutti mare: cozze pelose, ostriche, “iavatune”, “spuènze”, “cacasanghe”…; i locali rinomati chiusi (“Pesce Fritto”). Ecco anche “Cicce ‘u gnùre”, del quale è apparsa su facebook una foto in cui lui offre una cozza aperta al momento a un cliente; il giardino dei mitili… Una Taranto che mi sfila sempre nella mente; una Taranto che ho vissuto; una Taranto che adoro; una Taranto sfavillante; una Taranto adorabile; una Taranto spettacolare “quànne pònn’u sòle”; il canale navigabile, dove una volta s’immergevano i palombari. Dolce Taranto. Taranto millenaria. Taranto che resiste alle ferite, alle ingiustizie, agli schiaffi, alle pedate; Taranto che sa risorgere, Taranto dalle tante sfaccettature. Taranto ricca di gemme.

Altra opera di Giudetti

A questo pensavo in alcuni secondi, mentre De Florio, Giudetti, Sferra si scambiavano opinioni, giudizi, emozioni con Mara Sarotto e Pino Del Vecchio. Ascoltavo, ripeto, il dialetto di Giudetti, sonoro, autentico, e mi dicevo fortunato ad avere avuto i natali in questa città, in via Nettuno, alle Tre Carrare, quartiere popolare pulsante di voci, di echi, di strilli, di richiami, di gente disponibile, cordiale, ospitale, anche se a volte un po’ chiassosa, ma sempre amabile, come tutta la gente di Taranto. I miei ricordi andavano a viale Venezia, oggi Magna Grecia, nei miei vent’anni cosparsa di solo verde, con una sola costruzione: una clinica. Ci andavo ogni giorno alle 14 imprigionato sul telaio della bicicletta guidata da un amico patito del pedale.

Libro di Sferra
E mai avrei immaginato che un giorno quella zona desolata avrebbe avuto un impulso di vita così vasto, con schiere di palazzi e di negozi, con voci squillanti in ogni ora del giorno, con cilindrate che non hanno sosta, di clacson irritati, di balconi senza cittadini affacciati sullo spettacolo. Senza volerlo, ripeto, il 9 agosto è stata celebrata Taranto, sia pure in dimensioni ridotte. Sono stati tirati in ballo Vito Forleo (“Taranto dove la trovo”), Cesare Giulio Viola (“Pater, il romanzo del lume a petrolio”, ”Venerdì Santo”, che all’Orfeo ebbe come protagoniste Emma Gramatica e Elsa Merlini, negli anni 50). Prima di mezzogiorno il trio si è rimesso in auto e si è avviato lungo il tratturo che serpeggia tagliando castagni e filari di viti quasi pronte per il parto, Ho seguito la vettura con lo sguardo, immaginando tutto il percorso mmère quìdde besciù ca jè Tàrde”. Subito dopo ho cominciato a leggere il libro di Cataldo Sferra su Anna Fougez, una diva che ha portato il nome della Bimare nel mondo. La figura della Fougez in questa commedia dialettale tarantina è stata srotolata come un gomitolo all’autore dalla nonna della moglie, Maria Serafina Murianni, che l’allevò. Quindi vi si apprendono particolari finora ignorati. Sferra non ha però esitato a pescare altre notizie, consultando fra l’altro l’Archivio di Stato e altri enti. Ma ne parlerò prossimamente. Queste pagine meritano molta attenzione. Le ha messe giù un poeta, un autore di canzoni, un maestro del dialetto, un uomo con la faccia di un nonno che tiene buoni i nipotini narrando loro, accanto al braciere, a Natale, non le favole, ma stralci di vita vera.








mercoledì 9 agosto 2023

Il gallerista Mimmo Dabbrescia

ACCOGLIEVA MOLTI PUGLIESI

NEL SUO SPAZIO PROSPETTIVE

Giuseppe Francobandiera
Con l’editrice Celip

presentammo da lui volumi

sui navigli, cari ad Alfonso

Gatto, a Gaetano Afeltra e a

Guido Vergani, e sulla storia

della squadra di calcio Bari.

Inoltre festeggiammo i 25

anni della rivistaIl Rosone”.

 

 

Franco Presicci 

Mimmo Dabbrescia
Una volta i pugliesi venivano invitati allo Spazio Prospettive d’arte di Mimmo Dabbrescia, nei pressi del Naviglio Grande. Mimmo è persona gentile, intelligente, disponibile, ospitale, ha una moglie, Bruna, critico d’arte, due figli eccezionali. Non solo ci metteva a disposizione la sala, spaziosa, elegante, ariosa, con quadri di pittori importanti, da Carpi a Treccani, da Tamburello a Guttuso, appesi alle pareti, ma offriva anche il “buffet”. Ne abbiamo fatti, di incontri, da Mimmo. Bastava fargli una telefonata e lui chiedeva solo la data. Presentammo un grosso libro, che era la storia della squadra di calcio barese, e siccome nel pubblico ci sarebbero stati due “goleador” pugliesi e un “manager”, invitai i dirigenti del Milan a far partecipare qualche giocatore rossonero, ma dopo tante suppliche mi risposero che non potevano distrarre i loro “gioielli” la sera prima di un incontro importante, appunto con il Bari; e ad un’ora dall’inizio della serata un “fax” di Baresi mi avvertì che non sarebbe venuto a causa di un altro impegno. Pazienza: la Provvidenza provvede. E provvide con Giovanni Lodetti, già centrocampista del Milan e campione europeo.

Guido Bertuzzi
Tramite Guido Bertuzzi, avevo invitato anche Bearzot, da me conosciuto nello studio del pittore, ma non stava bene, tanto che dopo qualche giorno fu ricoverato in ospedale. Presentammo poi un altro volume, sui navigli, peso tre chili e mezzo e denso di contenuti: testi di storici, docenti universitari, architetti e via dicendo. Moderatore del dibattito Piero Colaprico e tra i relatori lo storico Guido Lopez.

Don Lurio

C’era anche il ballerino newyorchese, star di “Studio Uno”, Don Lurio, che dipingeva senza farsi pubblicità, uscendo allo scoperto con l’esposizione delle sue opere proprio da Dabbrescia, l’anno in cui prese parte al Festival di Sanremo condotto da Fabio Fazio. Il coreografo ascoltò con interesse la narrazione delle vicende dei corsi d’acqua, soprattutto del Naviglio Grande, caro al poeta Alfonso Gatto, al giornalista Gaetano Afeltra, all’architetto Empio Malara e a Guido Vergani, che in un articolo sul “Corriere” aveva appena evocato il “bateau mouche”. Poi Don Lurio fece un commento pacato, rispettoso, a bassa voce: “In Italia vedo che c’è tanta polemica tra meridionali e settentrionali, da noi siamo tutti newyorchesi e basta”. Guido Lopez reagì incurante dei tentativi di spiegazioni dell’altro, ma alla fine questi gli regalò un catalogo della mostra con una bella dedica, che addusse la pacificazione. Sempre da Dabbrescia allestimmo una manifestazione per lo scrittore tarantino Giuseppe Francobandiera, che era stato direttore del centro culturale Italsider, allocato nella masseria Vaccarella della Bimare; e prese la parola Arnaldo Giuliani, già capocronista e penna elegante del “Corriere della sera”. Purtroppo Arnaldo, grande uomo e giornalista bravissimo, parlò poco perchè la moglie, Gabriella, una signora dolce e graziosa, era sul punto di spegnere i suoi sorrisi. Quando sentono odore di Puglia, i nostri conterranei non li ferma nessuno. Ancora allo Spazio Prospettive d’arte festeggiammo i trent’anni della rivista “Il Rosone”, periodico fondato e diretto da Franco Marasca, foggiano docente di Lingue e conoscitore di quella russa, e ancora una volta la sala si affollò di tarantini, brindisini, baresi. Arrivarono a sciami, facendo a gara per conquistare i primi posti. Molti anche i milanesi e i soci dell’Associazione regionale pugliesi guidati dall’indimenticabile Dino Abbascià. Arrivarono in gruppi o alla spicciolata, in auto o in tram, qualcuno in taxi. Cesare Isabelli, assiduo alla Stramilano (era andato fino a New York per accodarsi anche a quella corsa), si presentò a piedi.

Alto Antonietta Iacubino, Nennella, Giacovazzo, Chechele Presicci  

Le foto parlano, rendono testimonianza. “Il Rosone era stato inaugurato alla “Porta Rossa” di Chechele e Nennella, in via Vittor Pisani, due passi dalla stazione Centrale. Era la sede naturale di un battesimo come quello, con un bravissimo anfitrione come il “pugliese”, come chiamava Chechele Gaetano Afeltra, che era di Amalfi. Chechele accoglieva i clienti della sua terra a braccia aperte, e così in quella festa. Seduto in disparte, non perdette una parola di Antonio Velluto, cugino e compaesano di Marasca (entrambi nati a Troia) e guardava estasiato l’oratore, che a Milano era, oltre che giornalista della Rai, assessore all’Edilizia popolare. Chechele veniva da Apricena, dove aveva una panetteria ed era una pasta d’uomo.

Se c’era da offrire un pranzo gratuitamente a un poveretto, lo invitava ad accomodarsi e lo serviva come fosse un principe. I suoi tavoli erano sempre occupati da personalità: attori, registi, funzionari della questura, direttori di giornali, cantanti… che sbirciavano dalle pareti in fotografie a colori in grandi dimensioni. Quando facevamo il Premio Milano di Giornalismo, lui si appostava in un angolo e seguiva la discussione della giuria con interesse e curiosità. E ogni tanto faceva segno al cameriere di portare una bottiglia di vino. La giuria comprendeva nomi notevoli: dai pittori Giuseppe Migneco, Ibrahim Kodra e Filippo Alto a Ugo Ronfani, vicedirettore del “Giorno” a Alberico Sala, critico d’arte del “Corrierone” a Vincenzo Buonassisi e Edoardo Raspelli, gastronomi autorevoli.

Rossicone,Kodra, Alto
E la sera della consegna del premio avevamo ospiti illustri, tra cui Giovanni Testori, autore di libri importanti, il sindaco Carlo Tognoli, Gino Palumbo, direttore de “La Gazzetta del Sport” e prossimo a prendere in mano le redini del giornale di via Solferino, la scrittrice Milena Milani e lo stesso Mimmo Dabbrescia, che da giovane è stato un valente reporter del “Corriere”. Da Chechele facemmo le ore piccole con Giuseppe Giacovazzo e Filippo Alto una sera prossima al varo del Premio Puglia, voluto dallo stesso ristoratore nell’altro suo locale dalle parti di viale Piave. Mentre lo accompagnavamo in albergo, Giacovazzo, che si diceva stesse per essere nominato direttore del “Giorno”, ci somministrò dei suggerimenti e ricordò i tempi in cui soggiornava a Milano collaborando con Paolo Grassi. Una volta mi intrattenni con il cofondatore del “Piccolo” nell’atelier del teatro poco prima dell’inizio di una commedia, e mi disse che era lì ad aspettare il direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno, Giacovazzo appunto.

Parte del pubblico a una serata pugliese

Capii la stima e l’affetto che l’uomo di teatro nutriva per il giornalista barese, tra l’altro autore di “Puglia, il tuo cuore”, che venne presentato a Crispiano alla masseria “Monti del Duca”, dove il cortile venne prese d’assalto non soltanto da crispianesi e tarantini, ma anche da persone venute da altre parti della regione. Questi pugliesi, che gente! Nel capoluogo lombardo hanno i posti migliori, e se svolgono mestieri modesti sono anche lì i più bravi. Una sola cosa non mi piace, e non piaceva neppure a Giacovazzo, che lo dice nelle sue pagine: si nascondono sotto il dialetto meneghino per spacciarsi come tali. Che bisogno c’è? I nostri dialetti hanno termini musicali, onomatopeici, gli stessi tarantini s’incantano quando ascoltano i vecchi pescatori del borgo antico. Ho in mente una foto che ritrae Alfredo Nunziato Majorano, poeta e etnologo, paitito dei due mari, mentre parla appunto con uno “de Tarde vecchie mjie” proprio per apprendere gemme di quel vernacolo. Ho conosciuto persone che godevano ad esprimersi nel proprio dialetto con gli stessi milanesi, che non lo capivano, ma se lo facevano tradurre.

Raffaele Carrieri
Al giornale avevo un collega nato e cresciuto come me fra le cozze e uno di un paese vicino. Il primo mi parlava in dialetto (“se no’nge te stè’ cìtte, te dòche ‘nu furbòne”, frase che mi mandò in visibilio); l’altro invece sfornava parole della città che lo ospitava; e giudicava volgare il nostro linguaggio, non sapendo che io mi vergognavo di lui. Ho fatto tante esperienze a Milano; ho conosciuto gente di ogni razza e provenienza, Non ho avuto il piacere di incontrarmi con il poeta Raffaele Carrieri, che mi dicono avvezzo a parlare il nostro vernacolo con chi andava a trovarlo da “’u pònde de fìerre”. Il nocese Vito Plantone, questore carismatico, amava il suo dialetto, era orgoglioso del centro storico del suo paese e lo riteneva più bello, più ordinato, più fiorito di quello di Martina. E Mimmo Dabbrescia? Lui sicuramente ama la città della famosa Disfida, “Varrètte” o “Barlètte” in dialetto, ma non ne parla: meglio, una volta, al Castello di Cereseto, dove aveva organizzato un’iniziativa in favore di Filippo Alto, presenti una giornalista della Mondadori e una “manager” della Feltrinelli, qualcuno gli chiese di dove fosse e lui rispose “Di Barletta”, con un tono dilettale. Lo conosco da quando faceva la rivista “Prospettive d’arte” (da cui prese il nome la galleria), ricca di colori e di titoli su articoli dedicati ad Attilio Alfieri, Ernesto Treccani, Enrico Baj, Remo Brindisi, Bruno Cassinari, Domenico Cantatore, che era di Ruvo di Puglia, Domenico Purificato, Salvatore Fiume… sui quali ha anche pubblicato i volumi “Visti da vicino”. Raffaele Carrieri è presente in altri suoi libri.








domenica 6 agosto 2023

Il generale Umberto Massolo

Umberto Massolo

UNA CARRIERA BRILLANTE

FRA CRIMINALI INCALLITI


Con i suoi uomini ha mandato

in carcere rapinatori, truffatori,

trafficanti di droga, assassini,

mafiosi, spacciatori di monete

false. Tanti anni nell’Arma vissuti

con orgoglio e fedeltà.


Franco Presicci  

Quanta fatica feci per intervistare un ufficiale dei carabinieri per le mie pagine intitolate: “L’Arma racconta”. Guido Gerosa era diventato da poco capocronista quando venne alla mia scrivania per dirmi che dovevo intervistare tutti quelli che avevano investigato a Milano, lavorassero a Venezia o a Catania o a Livorno. “Prendi l’aereo e scrivimi i ‘Racconti del maresciallo’ sull’esempio di Mario Soldati. Trasecolai. ”Io sono un artigiano della penna, quello un mostro sacro”. “Dai, mettiti in contatto con la segreteria di redazione per gli aerei o i treni”. 

Plantone,Marzo,Presicci

Cominciai telefonando a Mario Jovine, questore di Venezia, a Vito Plantone di Catanzaro, a Enzo Caracciolo, a Antonio Fariello e si dissero disponibili. Quando arrivò l’autorizzazione dal Comando generale dei carabinieri mi trovai di fronte a più di un paletto: per esempio, niente nomi né accenni che potessero far risalire alla persona. Interpellai due colonnelli e un capitano, tutti simpatici e intelligenti, oltre che “detectives” di grande spessore. Uno di loro dipingeva carabinieri a cavallo su sfondo blu e non volle neppure che facessi riferimento a questa sua egregia attività, perché avrebbe potuto portarlo allo scoperto. Contravvenendo alle norme del giornalismo e consigliatomi con Gerosa, presi penna e taccuino e cominciai dal primo, che mi trattava con i guanti bianchi, senza mai rinunciare ai suoi doveri scucendomi una notizia in esclusiva. Anche adesso sarei tentato di rivelarne il nome e il grado, ma la serietà e il rispetto m’impediscono di farlo.

Il generale Umberto Masssolo

Ho dovuto aspettare il giorno della pensione per ottenere un’intervista dal generale Umberto Massolo. Era il 4 dicembre del 2008, quando riuscii a smuoverlo. Lo chiamai, gli proposi di raccontarsi per un paginone che “Il Giorno” mi riservava il sabato e ci incontrammo in un bar vicino a piazza Cavour, dove il giornale aveva sede allora. Fu un piacere immenso rivedere Umberto, in borghese, i capelli quasi bianchi, elegante, sorridente, giovanile. Più che un carabiniere mi sembrava un docente universitario, o un imprenditore che passa le giornate a fare calcoli e progetti o ad imporre una linea alla sua azienda. Mi offrì un caffè e mi chiese come passassi le mie giornate, visto che quando ero in servizio trascorrevo giorni, e notti, tra il giornale, la caserma di via Moscova e via Fatebenefratelli. Le passavo, e le passo, leggendo o scrivendo le mie giornate, che mando a “Minerva news”, che mi pubblica ogni mercoledì. Sono ricordi di un vecchio cronista che non rinuncia ad incontrare persone, strappare loro brani di vita, curiosità, esperienze. Massolo, che aveva lavorato anche con il generale Alberto Dalla Chiesa, ne ha di cose da dire e non si fece pregare a snocciolarle. “Ero allievo ufficiale carrista alla Ferrari Orsi di Caserta, vinsi un concorso interno e divenni carabiniere, sottotenente di complemento. In un secondo concorso per il passaggio al servizio permanente effettivo mi classificai terzo.

Galleria Vittorio Emanuele

Era il 1965”. Iniziò così la nostra conversazione, mentre nel locale entrava e usciva gente, ordinava, sorbiva la bevanda, pagava. Non fu dunque la passione a spingerlo verso l’Arma. In famiglia c’erano sei carabinieri con gradi diversi, da appuntato a maggiore e a furia di vedere tutte quelle divise capì che il suo futuro era nell’Arma, formata il 13 luglio !814. Quando decise aveva una lettera di assunzione inviatogli da una banca importante. “Non era la mia aspirazione lavorare dietro lo sportello di un istituto di credito, anche se tra i più prestigiosi e anche in quegli anni fare il bancario dava un certo tono. Tra l’altro avevo studiato economia all’Università di Torino con il mitico Ricossa”. Umberto Massolo era, ed è, dotato di spirito d’iniziativa, era dinamico, volenteroso e trascorrere ore e ore in un ufficio, con le condizioni che quella vita comporta lo faceva star male al solo pensiero. “E m’impegnai fino spasimo per riuscire nel mio intento di far parte dell’Arma.

I questori Caracciolo e Plantone
 

Il questore Fariello
Lo slancio mi consentì di riportare un ottimo risultato a livello nazionale”. Sicuramente Massolo è orgoglioso di questa appartenenza, ma non lo dà a vedere e parla come se il soggetto della conversazione fosse un altro. Fa una piccola sosta osservando un tipo strano che è entrato con la giacca sulle spalle, gli occhiali scuri all’ultima moda e la camminata un po’ da guappo del film di Totò, poi come se si svegliasse da un sogno o quella persona gli ricordasse una figura già conosciuta, riprese il discorso: “La prima destinazione fu la tenenza di Fossano, in Piemonte, alle dipendenze del colonnello Emanuele Tuttobene, poi ucciso dalle Br. Comandante della Brigata, che operava in Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa assassinato dalla mafia il 3 settembre 1982. In seguito fui io a dirigere la tenenza, prima di passare alla Compagnia di Genova Sampierdarena, quindi a Milano, al Nucleo radiomobile di via Vincenzo Monti e a quello operativo di via Moscova e infine ai Nas.


Umberto Massolo come detto, era in congedo. Lo intercettai la prima volta proprio nel cortile della caserma di via Moscova, che aveva avuto tra gli alti ufficiali Dalla Chiesa e Vitali. In via Moscova, dove io e miei colleghi della concorrenza andavano ogni giorno per mietere notizie e spesso per le conferenze-stampa in cui Gebbia allora capitano, Vitaliano, colonnello, o il suo pari grado Martorana ci raccontavano le grosse operazioni portate a termine contro trafficanti di sostanze stupefacenti, rapinatori, rapitori di persone, o esperti nella falsificazioni del denaro…

Mario Jovine
Spesso ci convocavano per le 17 o per 11 del mattino, attraverso un appuntato di nome Lapo, che era l’esempio della cortesia. E Umberto Massolo era quasi sempre presente; a volte era lui a riferirci date, ore e fatti, personaggi coinvolti, le loro specializzazioni e i loro modi di realizzare un crimine. “A Genova Sampierdarena il periodo che va dall’81 all’87 fu molto movimentato per gli scioperi all’Ansaldo, alla Fincantieri, all’Italsider, al Porto. Ci fu anche, il 9 ottobre dell’85, il tragico episodio dell’Achille Lauro con l’uccisione del cittadino americano di religione ebraica, Leon Klinghoffer. Due dei quattro del commando furono rinchiusi nella nostra camera di sicurezza per quasi un mese e vennero interrogati dall’Antiterrorismo e dall’autorità giudiziaria”. Ha la memoria lucida e gli piace ricordare. “Nell’88 arrivai a Milano da tenente colonnello, e partecipai alla liberazione di ostaggi, qualcuno purtroppo trovato morto. Abbiamo fatto di tutto: neutralizzato sequestratori, “killer”, bande che gestivano il traffico di droga o di armi, assaltavano banche o negozi. Bloccammo un latitante dalla pistola facile mentre in biciletta andava a comperare il latte. Bloccammo un grosso esponente della mafia e i sostituti procuratori Ilda Boccassini e Francesco Di Maggio vennero in via Moscova con una bottiglia di “champagne”. Rimase a Milano fino agli anni 60. Li ricorda sempre, quegli anni caldi Nel 1988 vi furono 108 omicidi, soprattutto nell’ambito della criminalità più spietata. Nel ’92 passò ai Nas.

La Galleria Vittorio Emanuele
“Destinato al comando de gruppo As dei carabinieri dell’Italia Settentrionale. Avevo alle mie dipendenze una decina di nuclei altamente specializzati. Ci siamo occupati di mucca pazza, sangue infetto… Si correva a Padova, Torino, Genova per indagini nel settore primario dell’antisofisticazione e in quello sanitario, che era stato aggiunto nel ’79. Si controllavano allevamenti di bovini, prodotti farmaceutici, additivi, olio, vino; s’intercettavano importazioni clandestine di alimenti. Capitava di ricevere segnalazioni di carni macellate abusivamente e di trovare invece prodotti contraffatti o medicinali arrivati da Paesi che non davano garanzie igieniche. Abbiamo chiuso ristoranti, bloccato tonnellate di pesce mal surgelato, scoperto nidi di uccelli tra pezzi di formaggio di dubbia provenienza miscelato con la clorofilla…". Lo ascoltavo con piacere. Riempii il mio taccuino, ma avevo fissato quasi tutto in testa. E per concludere domandai a Umberto Massolo come trascorresse le sue giornate da pensionato. Risposta rapida: “Gioco a golf a Zoate, fra Lodi e Peschiera Borromeo e mi godo il rustico che possiedo a Volpedo, dove seguo tutte le manifestazioni che celebrano Pelizza, l’autore del ‘Quarto Stato’”. Gli piace cucinare, cura i suoi sette gatti. D’inverno vive a Milano con la moglie Maria Elisabetta, professoressa d’italiano, latino e geografia, anche lei in pensione. “E sono iscritto alla sezione carabinieri in congedo in un piccolo paese dell’Alessandrino, il cu presidente, Galasso, è un ex maresciallo calabrese, che ha scritto un bel libro sui suoi 40 anni nell’Arma”. E’ proprio vero: nell’Arma per sempre, fedele nei secoli.




Non dimenticare le voci del passato

Diego Fedele
IL POETA DIEGO FEDELE
CANTO’ TARANTO CON AMORE

Usava un dialetto gioioso, ironico

e anche un italiano elegante. 

Nella città vecchia ascoltava le voci della

gente e gli urli dei venditori. 

Il Mar Piccolo alimentava la sua

ispirazione. 


Franco Presicci

Prima di cimentarmi in maniera modesta con il mio dialetto, ho studiato la grammatica di Claudio De Cuia e il dizionario della parlata tarantina di Gigante. Li consulto ancora ogni volta che mi viene l’idea di qualche verso. La forma a volte non sarà corretta, ma lo spirito con cui stendo le mie quisquilie spero non deluda.

Quando ho poi deciso di rileggere la mia produzione per raccoglierla in un libro, affidandolo ad un caro amico, titolare di una grande tipografia a Corsico, Giuseppe Caler, ho sentito il bisogno di scrivere una prefazione, in cui chiedo scusa ai grandi, Marturano, Majorano, De Cuia, Tebano, Caforio, Fedele ed altri per il mio ardimento; e da lassù mi avranno perdonato e magari anche incoraggiato a fare meglio. Quando avevo 18 anni fu proprio Diego Fedele, delicato e prolifico poeta, a cui si devono anche belle ed esaltanti canzoni (una la sentii cantare al Teatro Orfei), a esortarmi a far scorrere la penna. Mi conosceva da parecchi anni, perché mio padre, disoccupato, faceva dei piccoli lavori con calce e cazzuola e aveva realizzato il bordo in cemento di un’aiuola in un cortile di fianco a quello di Diego, in via Messapia. Dopo anni mi intercettò in via Nettuno e puntandomi l’indice mi disse: “Tu sei Franco Presicci”. Era un bell’uomo, signorile, di buone maniere e alla risposta affermativa (non ne aveva bisogno perché sapeva bene chi ero), mi invitò a casa sua, dove conobbi la famiglia. Tutte le volte che ci andavo mi leggeva le sue poesie, con l’abilità del fine dicitore, a volte assumendo la posa dell’attore illuminato dalla ribalta.

Diego legge una poesia
Cominciai a volergli bene e ogni giorno mi somministrava versi nuovi in dialetto, regalandomi anche briciole di cultura generale, senza enfasi, senza atteggiamenti da saputo, sempre garbato, elegante, affettuoso. In seguito scoprii che era una persona dalla cultura non raccattata, un signore schietto, pacato, disponibile. Una delle ultime volte che lo vidi fu in un ufficio dell’Italsider, che aveva da poco innalzato le sue ciminiere, dove mi trovai di fronte a Mario Mazzarino, che avevo conosciuto anni prima, avendo frequentato con lui e altri la parrocchia del Cuore di Gesù. Mario mi teneva in considerazione e un bel giorno mi affidò la parte di protagonista nella commedia “Il ribelle”, di cui era regista (la portammo in scena nel teatro della Chiesa di San Francesco).

Verso la dogana
Lampare a mare


 

 

 

 

 

 

 

 

Non avevo alcuna esperienza quando concretizzai l’idea, covata da qualche tempo, di salire sulla “Freccia del Sud” per trasferirmi al Nord con una sofferenza che mi spingeva a scendere alla prima stazione e tornare indietro, con gli occhi affogati nelle lacrime. Resistetti: non potevo fare marcia indietro con il carico della sconfitta. Ma coglievo ogni occasione per rimpatriare e di gettarmi nelle braccia della mia amata città. Partii senza salutare nessuno, senza guardarmi alle spalle. E me ne sono pento. Gli amici sono un’ancora, un balsamo, una forza. Il pensiero di Diego Fedele mi seguiva, mi esortava a cercarlo, ma c’era sempre una novità che mi faceva svanire il proposito. L’amico Peppino Montanaro di Martina Franca una sera nel laboratorio di un altro amico, Peppino Cito, mi volle fare un dono: un calendario con una decina di poesie di Diego. Mi commossi. Quelle poesie mi restituivano parte del mio passato, me lo facevano rinverdire. 

Mar Piccolo
Vi ritrovavo l’ironia di Diego, sempre sorridente e pronto alla battuta di spirito; la mia Taranto, la città vecchia, il profumo, la magia di Mar Piccolo, il gusto del dialetto. Poesie ricche di atmosfera, che trasmettono gioia. Erano poche, ma le ho lette tante volte da averle imparate a memoria. Mi rivedevo la figura di Diego, il suo sorriso benevolo, me lo immaginavo un tantino invecchiato, ma sempre comunicativo, benevolo, comprensivo. Mi promettevo di fare un salto in via Messapia, ma il mio mestiere accorciava sempre le mie vacanze: il giornale mi chiamava per spedirmi oggi a Matera, domani altrove. Gli amici non si dovrebbero mai perdere: sono preziosi, mi ripeteva mia nonna, donna saggia che balugina con le dita in movimento ritmico con i ferri infilati nei suoi lavori a maglia. Le pagine del calendario estrapolate dal contesto me le portai nella mia casa di montagna e le sfoglio stando su una sdraio a ripercorrere sotto un gelsomino punteggiato di stelle bianche per godermi i versi di “’U rafanìedde”, sonetto divertente, con doppi sensi senza alcuna volgarità; e di “’U carrettìere”, che si forniva di angurie e verdura a “le Caggiùne” e le portava al mercato, tenendo in mano la frusta.

foto di Diego Fedele
Diego era un poeta vero. Direi meglio: è, perché i poeti non muoiono mai. So di avere sbagliato con Diego, colpevole di non essermi più fatto vivo con lui. Ma una piccola scusante viene in mio soccorso: non l’ho dimenticato, ricordo le sue cortesie, il suo affetto, l’accoglienza che mi mostrava appena mi apriva la porta. Davo del lei alla mamma, ma non alla moglie. La mamma mi riteneva uno di famiglia, che la faceva ridere. Ricordo l’amore di Diego per la città vecchia, gli applausi che scrosciarono al termine di una sua canzone al Teatro Orfei, dove si sono esibiti nomi storici del palcoscenico: Eduardo, Paolo Carlini, Emma Gramatica, Ernesto Calindri, Elsa Merlini, Milva, Wanda Osiris, Alighiero Noschese... No, non l’ho dimenticato, Diego. Vado cercando come un mendicante qualcuno dei suoi libri, ma mi dicono che sono introvabili. Ho pregato un amico di farmi avere alcune pagine in fotocopia e delle fotografie del poeta, dell’amico che parlava un italiano elegante, non ricercato.

Altra copertina del libro di Fedele
Ma non ricordo di averlo mai sentito esprimersi in vernacolo, riservato alla pagina scritta, stando seduto ad un tavolo in una piccola stanza con affaccio sul cortile. Forse perché temeva che io non lo capissi. Eppure il suo dialetto era comprensibile, senza ricercatezze, archeologie, anche se amava ascoltare le voci degli abitanti di vicoli, “’nchiostre”, pusterle. Le sue canzoni erano gioiose, emanano arie di festa. Oggi, quando consulto il Gigante, qua e là m’imbatto nelle poesie di Diego, come in quelle di Marturano o di Tebano. E così, mentre tengo aperte quelle pagine, si stura la memoria e volo a Taranto, la mia città dell’anima. In me c’è tanta nostalgia: dei luoghi, delle persone. Potrei mai dimenticare la scogliera di fronte ai Salesiani, dove andavo a catturare i granchi? O le passeggiate che facevo con Diego Fede, magari solo per accompagnarlo alla salumeria sotto casa a fare la spesa? Un giorno mi chiese se avessi fame e senza aspettare la risposta ordinò un panino con il prosciutto. Ero timido e lo mangiai con imbarazzo. Carissima Taranto. Nobile città. Chi cancella il proprio nido è riprovevole. Anche gli uccelli tornano dove sono nati. L’istinto li guida. O forse non perdono la via.

Ponte di pietra
 

Gli uomini possono partire, andare lontano, superare il confine, ma un nastro sottile dovrebbe sempre tenerli legati alle sponde del fiume che hanno ascoltato i loro vagiti. Io, ripeto, non ho mai dimenticato la mia “Tàrde vècchie” né la nuova, dove sono nato e cresciuto. Non ho dimenticato Diego Fedele, la sua poesia, il suo amore per la città dei due mari, la sensibilità che lo spingeva sulla riva del Mar Piccolo che gli suggeriva l’spirazione. La passione è un sentimento che non tramonta, non si affievolisce: ha alimentato i versi di Diego, fa palpitare il mio cuore. Un giorno gli presentai Marcello Ruggieri, un amico che negli anni ha assimilato una cultura profonda (ha pubblicato anche dei libri); e quando il giorno successivo ci incontrammo mi espresse su Diego un giudizio lusinghiero. Taranto lo ha messo da parte? E’ capitato ad altri. In tanta gente i ricordi s’impallidiscono, si spengono addirittura.

Via Garibaldi
Le generazioni si succedono e le nuove spesso non hanno voglia di rispolverare il passato, di far rivivere i meritevoli che lo hanno popolato e glorificato. Bisogna stimolare le nuove leve che si occupano brillantemente di teatro, che leggono, palpitano per la città. Taranto è un incanto e vanno ricordati costantemente quelli che hanno celebrato la sua bellezza decantata in tutto il mondo. Occorre riportare idealmente in vita i nostri poeti. Diego Fedele è uno di questi. In un video l’ho sentito dire che “c’è uno spiraglio, che bisogna allargare coinvolgendo le scuole, gli enti”. Occorre portare i poeti nelle aule scolastiche, leggere le loro opere agli studenti. Non è soltanto il sentimento dell’amicizia che mi spinge a perorare questa causa. Diego Fedele ha scritto pagine toccanti, che a suo tempo vennero anche pubblicate sui giornali e in libri editi dall’assessore alla Pubblica Istruzione. Rivette premi, gli furono dedicate delle serate, concesse interviste. E adesso? Bisogna tenerne viva la memoria dei poeti, non lasciarli immersi nel silenzio.