Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 26 aprile 2017

Nel luglio del 1971 in via Paolo Sarpi


  L’INCONTRO CON  LUCIA BOSE’

 

  SUL “SET” DEL FILM “ARCANA”

 

 


Tina Aumont

 

Il viaggio in taxi con Tina Aumont,

 

la simpatica attrice francese che

 

nel film viene violentata dal figlio

 

della chiromante.

 

 

 

 

Lucia Bosè

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il privilegio di vedere recitare la Bosè,

 

nel ’47 Miss Italia, il concorso ideato da

 

Dino Villani, pittore, scrittore, pubblicitario

 

dalla fantasia inesauribile, critico d’arte,

 

trasferitosi a Milano da Suzzara.

 

 

 


 

Franco Presicci


Era il luglio del 1971. Avevo appuntamento con il produttore Palumbo, un tipo riservato, taciturno, ma gentile, sul “set” del film “Arcana”, in via Paolo Sarpi 21. Andai prima nell’albergo in cui alloggiava Tina Aumont, che mi aspettava nella “hall”, e insieme salimmo sul taxi.
Lucia Bosè in Capri
Una traversata divertente, con l’attrice estroversa, scoppiettante, ironica. Intelligente, bella, anzi bellissima, grandi occhi vivaci, alta, magra, giovanissima, che andava a girare la scena in cui, nei panni di Marisa, bussa alla porta della maga Maria delle Rose Tarantino (Lucia Bosè), perché, prossima alle nozze, desidera farsi predire il futuro; e invece viene violentata sul pavimento da un apprendista stregone, figlio della padrona di casa, interpretato da Maurizio degli Esposti. Durante il tragitto la Aumont mi parlò di sé, dei suoi genitori, lui francese, lei dominicana; del suo matrimonio con Christian Marquand; accennò ai suoi film (“La calda preda” di Roger Vadim; “Scusi, lei è favorevole o contrario?” con Alberto Sordi…); e poi alla parte che si accingeva ad affrontare. “Adesso basta, ti ho già detto tanto. Se ti racconto la trama non avrai più voglia di venire a vedermi al cinema”. Ma eravamo arrivati. Tina, una silfide, sbucò dall’abitacolo mentre pagavo la corsa, e mi urlò un ciao prolungato. Quando entrai nell’appartamento si stava già preparando per trasformarsi in Marisa. Lucia Bosè nell’ufficio dell’addetto-stampa era impegnata in una telefonata non ricordo se con Dominguin, il marito, il torero più famoso del mondo, o con il figlio Miguel. Era irritata, a tratti alzava la voce, dandomi le spalle. Quando mise giù la cornetta, si accorse della mia presenza, mi regalò un sorriso, si accese una sigaretta e il fumo dette al suo viso un alone di mistero. “Eccoci qua”. Alta, solenne, splendida, regale, mi invitò a sedermi; si accomodò a sua volta, offrendosi alle mie domande. Ne aveva fatta di strada la commessa della celebre pasticceria Galli, in corso di Porta Romana 2, vicino a piazza Missori, a Milano, dove nel ’47 Luchino Visconti, amante dei “marrons glacès” del locale, avvicinatosi un giorno al bancone con Giorgio De Lullo, la notò, rimase colpito dal suo volto cinematografico e la esortò a intraprendere la carriera di attrice, passando per Miss Italia, che lo aveva come giurato con Orio Vergani, Vittorio De Sica, Isa Miranda, Cesare Zavattini, Totò…. Lo stesso anno la Bosè conquistava il titolo del famoso concorso, “l’invenzione di Dino Villani che - parola di Gaetano Afeltra - ha più inciso nella storia del nostro costume”. Poi si presentò al provino per “Riso amaro”, lo superò, ma rinunciò al film per volere dei genitori. Andò meglio per “Non c’è pace tra gli ulivi”, nel ’50, di Giuseppe De Sanctis; e per “Cronaca di un amore” di Antonioni. Film dopo film diventò una diva. Sorrideva amabilmente, Lucia Bosè, mentre si raccontava. Ma s’intuiva che non aveva un carattere facile. E non sembrava entusiasta di evocare il percorso già fatto. Almeno questa fu la mia impressione, vedendola scivolare sul film e su Giulio Questi, appassionato di George Bataille, del quale aveva letto proprio tutto, a cominciare da “l’Erotisme”.

“Il mio ruolo nel film – chiosò - che s’intitolerà ‘Arcana’, è un po’ complicato, ma mi piace proprio per questo. Forse fra i tanti che ho interpretato è quello che mi prende di più”. Poi di Questi: “E’ un regista meraviglioso. Solo qualche volta non sono d’accordo con lui, perché un’espressione, una battuta io la sento a modo mio…”. E quando le chiesi se avesse centrato il personaggio, rispose che non poteva parlare dei risultati del suo lavoro. “Posso dire che ci metto molto impegno”. Quando finisce un film, va a vederlo? “Sì, ma quasi sempre non mi piace; mi meraviglio che io possa aver fatto cose così diverse da me. Durante la lavorazione poi non voglio guardare il materiale già girato, per non rimanere influenzata”. Dopo una mezz’oretta il regista interruppe la conversazione. “Tocca a te, Lucia”. E lei si calò nel ruolo. Non aveva avuto bisogno di consultare chiromanti, una delle quali dispensava pronostici stando seduta in un confessionale, e un’altra sentenziava come l’oracolo di Apollo. Aveva solo ascoltato un “veggente” che non esercitava il mestiere. Ebbi così il privilegio di vederla all’opera. Ogni tanto Questi le dava un suggerimento, e lei eseguiva senza discutere. “Oltre che bella è anche spiritosa e alla mano”, commentava Palumbo. E in una pausa il regista: “E’ anche molto brava. E’ stata per me una sorpresa. L’ho scelta non solo per l’esperienza che ha; ma perché ha vissuto: è donna, madre. E’ piena d’istinti e sta dando un’enorme verità a questo personaggio che in principio mi sembrava difficile e teorico. Lei gli dà concretezza, lo rende reale, mostra una notevole capacità di muovere la recitazione sui tasti più diversi”.

Gaetano Afeltra
Una sintesi di “Arcana? “Narra il rapporto tra una madre e il figlio, rapporto vissuto in modo istintuale. La forza di questo istinto dà a entrambi poteri ‘magici’. La madre, chirologa e cartomante lucana trasferitasi da tempo a Milano, li usa soltanto per sbarcare il lunario, mentre il figlio vorrebbe che se ne servisse per cambiare il mondo. Un mondo, che, pur caratterizzato da coraggiose conquiste scientifiche, non riesce a soddisfare le aspirazioni, i bisogni della gente”, che perciò chiede aiuto alle carte, alle sfere di vetro, ai fondi di caffè...Finita la scena, la Bosè si rivolse nuovamente a me: aveva ancora una ventina di minuti da dedicarmi. E io: “Tornerebbe a vivere nella sua Milano, dove ha i genitori?”. Disse che, pur risiedendo a Roma, era ormai abituata alla Spagna.
Walter Chiari e Patrizia Caselli



“Tra l’altro lì c’è molto spazio; a Milano si vive appiccicati gli uni agli altri”. Le capitava certo di pensare a Milano, alla cascina di via Ripamonti, in zona Vigentina, dov’era nata; alla vita felice che vi aveva condotto; alla pasticceria Galli, uno dei locali più frequentati e rinomati della città; all’incontro con Luchino Visconti, che la segnalò a Michelangelo Antonioni e a Giuseppe De Santis e fu poi il padrino di battesimo di Miguel… Si era fatto tardi e non c’era più tempo per chiederle del suo giovanile rapporto sentimentale con Walter Chiari; della sua amicizia con Pablo Picasso; di Gianna Maria Canale, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Eleonora Rossi Drago, che avevano partecipato con lei alla stessa edizione di Miss Italia, a Stresa; e dell’atmosfera in cui si animava la competizione, delle tensioni, dei sogni… Lei mi salutò cordialmente, mentre si spegnevano le luci. “E dire che tutto per Lucia è cominciato con Miss Italia”, commentò il produttore.
Dino Villani in un disegno di Mario Vellani Marchi


“Ma chi era Dino Villani?”. “Pittore, critico d’arte, incisore, al quale Gaetano Afeltra, fulcro de ‘Il Corriere della Sera’, direttore de ‘Il Corriere d’Informazione’ e poi de ‘Il Giorno’, conoscitore profondo del capoluogo lombardo, delle sue figure più eminenti, della sua storia, dei locali storici, dei salotti, dei giornali, dei navigli…, ha dedicato un capitolo in ‘Milano amore mio’”. Figlio del capostazione di Suzzara, Villani, uomo sereno, generoso, di buone maniere, approdò a Milano nel ’34, si dedicò alla cartellonistica, frequentando Gino Boccasile, Leonetto Cappiello, Marcello Dudovich. Ideò il premio “Notte di Natale”, la “Festa della mamma”, il “Premio Suzzara”, l’Accademia della cucina... Nel ’39 in coppia con Cesare Zavattini lanciò “Cinquemila lire per un sorriso”, che, sorto per lanciare un dentifricio, nel ’46 partorì Miss Italia. Scoprì le donne più belle d’Italia. Fra queste appunto Lucia Bosè, che in “Arcana”, proiettata nelle sale nel ’72, fu un’interprete memorabile, giudizio di un critico autorevole: Morando Morandini. L’ho poi rivista nel 2000 sul piccolo schermo nello sceneggiato “Capri” (prodotto da Rai Fiction), cosparso di amori, tradimenti, delusioni, misteri, galanterie. Era l’amabile e saggia donna Isabella Galiano, adorata da Reginella (Isa Danieli). Nonostante gli anni dipanati, l’ex ragazza che elargiva i suoi sorrisi alla “marrons glacès” nella pasticceria di Giovanni Galli conservava la sua bellezza.














mercoledì 19 aprile 2017

Nel ‘70, circa cinquant’anni or sono



PER LE RAGAZZE INVITATE IN GIURIA

“RIVOLTA DEI BAFFI” A MONTEMESOLA

 


Per i concorrenti erano tutte inesperte,

 

incapaci di giudicare obiettivamente.

 

Festival dei Baffi - Montemesola

All’evento fu dedicato

 

un programma su Tv

 

Taranto. Uno dei

 

concorrenti esibiva

 

un paio di baffi attorcigliati

 

attorno alle orecchie così

 

lunghi, che srotolati toccavano

 

il pavimento.











Franco Presicci 



Venne detta “la rivolta dei baffi”. Una definizione esagerata.

Titolo de: "Il Corriere del Giorno"
Rivolte furono quelle scatenate non soltanto in Italia dal lievitare delle tasse o dalle condizioni di vita dei contadini; e quella di Reggio Calabria nel ’70 per la scelta di Catanzaro come capoluogo di regione. A Montemesola si trattò soltanto di un risentimento acceso da una situazione di lana caprina. Il termine in verità sfuggì anche a me, scrivendo, per “Il Corriere del Giorno”, storico quotidiano tarantino, un articolo sull’argomento; e non poteva non ispirare il titolo, confezionato da Vincenzo Petrocelli, bravissimo caporedattore, colto, pacato e saggio, che nel fare il cappello per quel vestito, tra l’altro doveva catturare l’attenzione del lettore. Il fatto accadde nell’agosto del ‘76. Il festival dei baffi si era svolto una settimana prima, quando io, in vacanza come ogni anno a Taranto, ricevetti la visita di un parente ansioso di regalarmi uno “scoop”. “Lo sai che a Montemesola è successa una rivoluzione? Gli organizzatori hanno avuto la pensata di mettere delle femmine nella giuria, e quelle non hanno giudicato i baffi, ma chi li esibiva”.

Festival dei Baffi di Montemesola
Non detti peso all’argomento, anche perché alla parola da lui spiattellata tra l’altro con un tono irriguardoso preferisco quelle di ragazza o di signora. La sera andai al “Corriere”, che allora aveva la sede in via Di Palma, sopra il cinema Odeon, chiuso da tempo, e per curiosità chiesi dettagli a Vincenzo, che prese carta e penna e scrisse un paio di righe. “Toh, questo il titolo della trasmissione”. Non capivo; e lui: “Mi piacerebbe che allestissi un programma per domani alle 20 a Tv Taranto con personaggi baffuti. Potresti poi scrivere il pezzo per il giornale”. Non potevo dire di no a un amico che stimavo molto (è scomparso anni fa); e dopo qualche incertezza e un po’ d’imbarazzo accettai. La mattina successiva cercai la fonte della notizia; e un’oretta dopo mi trovai di fronte a un giovane alto un paio di metri, in carne, un sorriso aperto, un cespuglio attorno alle orecchie, che mi meravigliò non poco. Notando la mia espressione, quel monumento, per impressionarmi, cominciò a srotolare il boa pilifero fino a fargli toccare il pavimento. Non avevo mai visto niente di simile.
Fra Cristoforo del Gonin
Ricordavo i baffi e la barba di Fra Cristoforo nell’incisione del 1869 del Gonin; le barbe e i baffi della pubblicità “fin de siècle”; i baffi e la barba di Eberard Raucher, genero dell’imperatore Massimiliano II; la barba a sciarpa dei nani di Biancaneve; i baffi di David Niven e di Clark Gable; di Charlot (una macchia scura sotto il naso); di Luigi Pirandello e di Giuseppe Verdi; di Amedeo Nazzari e di Poirot… Ricordavo la bella barba di Franco Lorenzi, il famoso coltellinaio con negozio in corso Montenapoleone, a Milano, che trasformò in Museo la sua ricca e preziosa collezione: rasoi (compresi quello elettrico del 1929); lame e lamette, tra cui la famosa Lorenzi, richiestissima e preferita anche da Eugenio Montale; brevetti (450); migliaia di foto di barbieri da strada di tutto il mondo e tantissime altre rarità. Ma un virtuosismo come quello del giovane interlocutore, da lui detto alla cinese, neppure sotto occhi a mandorla lo avevo mai visto. Venni al dunque, incaricandolo di invitare un gruppetto di detentori dell’onor del mento, spiegandogli il motivo.
Franco Lorenzi, storico coltellinaio di via Montenapoleone
Non ebbe esitazioni. La sera, attraversando un temporale che scaricava tonnellate d’acqua sulla città tra assordanti fragori di tuoni, guadagnai lo studio con l’abito inzuppato. Si accesero le luci, l’operatore azionò il magico obiettivo e avviammo la conversazione sulla cosiddetta rivolta, scoprendo che non aveva avuto origine dalla presenza del gentil sesso nella giuria; ma dal fatto che era rappresentato da fanciulle inesperte della materia, quindi non idonee ad esprimere un giudizio obiettivo sull’estro, l’estetica dei baffi in gara. “Hanno dato il voto solo al fisico dei concorrenti”, non alla decorazione. Gli ospiti espressero la propria delusione con battute risentite, ma mai salaci; a tratti ironiche, intervallate da altre un tantino colorite, ma sempre garbate e divertenti, a volte con un italiano perforato da voci dialettali; mentre nello studio fremevano le matite di due valenti artisti, Raffaele D’Addario e Benedetto D’Amicis, i cui ritratti vennero pubblicati a corredo dell’articolo. Le domande e le risposte si susseguirono tra il serio e il faceto. “Che trattamento richiede questa vostra dotazione?”.
Festival dei Baffi di Montemesola
Sia mustacchio o pizzetto; sbaffo con le estremità verso l’alto, fiere corna di toro alla Salvador Dalì; o barba a due punte alla Vittorio Emanuele II; o mosca; barba soffice o rigida, attorta o eccentrica, sofisticata, solenne, rigogliosa, esplosiva, austera, spiovente, a cascata; baffo ardente a dirla con Matilde Serao, vanno coltivati con molta cura. Ogni giorno devono essere lavati con “‘shampoo” neutro; stirati… Uno degli ospiti chiosò: “C’è chi ti giudica dalle condizioni del pelo. Alcuni popoli, come gli Assiri, gli davano molta importanza”. Aggiunsi che i vezzi piliferi sopra e sotto le labbra sono apprezzati da molte signore; e riesumai l’esortazione fatta per lettera, oltre un secolo fa, da una moglie a un’amica a non lasciarsi mai baciare da un uomo senza baffi. Non per niente quel germoglio è celebrato nella poesia, nel romanzo, nel cinema, nella pittura…Mi vengono in mente il “Ritratto di Jarry” di Emilio Tadini e un’illustrazione de “La Domenica del Corriere” per la festa del Touring del 1905. Nel bel mezzo del discorso il più giovane, dipendente dell’Italsider, lanciò una proposta: la stesura di uno statuto per il festival e la nascita di un club dei baffi, con funzioni culturali e anche diplomatiche, dovendo stabilire contatti con altri festival, come quelli della barba di Lanciano; dei baffi di Perugia…. Subito dopo, improvvisò un numero spettacolare dedicato, come dichiarò, alla trasformazione del proprio ornamento dall’ungherese alla cinese.
Franco Bompieri e Gianni Brera
 










              E molti poi si chiesero come mai il trofeo non fosse stato assegnato a lui, che s’imponeva anche per la stazza. Da sempre esistono uomini che amano adornarsi il volto. Uomini comuni, politici, eroi, scienziati. Pensate alla barba di Cavour, una cornice dal mento alle basette; ai baffi di Einstein; alla barba e ai baffi di Freud, a quelli di Darwin, di Garibaldi; alla “selva” di Marx; a quella di Lorenzi. La fioritura impegna tutta l’abilità dei tonsori, come ha affermato Franco Bompieri, titolare della meneghina “Antica Barbieria Colla” di via Morone, che ha potato, oltre a tanti baffi e a tante barbe, teste rispettabili, come quelle di Cuccia e Mattioli, Montanelli e Visconti, Mastroianni... “Infinite le forme delle barbe; esistevano mille modi per lavorare i baffi e centinaia di ferri, stretti, più larghi, rotondi o piatti, per dargli la forma”. Ma i tre irsuti accomodati nel salotto televisivo della Bimare, spiritosi, spassosi, arguti, prediligevano il “fai da te”. Sapevano scegliere i prodotti e gli strumenti e li usavano senz’alcun bisogno di suggerimenti tecnici. Li stuzzicai molto, anche sulle fasi della “toilette”; e risposero in modo chiaro e preciso anche sul tempo trascorso davanti allo specchio. Il loro fregio, alla moschettiera; a forma di peperoncino piccante; a sciarpa, era infatti a regola d’arte. Intanto fioriva un festival a Grottaglie, che tra le figure più notevoli, come riferisce l’organizzatore Rocco Bentivoglio, 71 anni, pluricampione mondiale di categoria “Baffi Umberto I”, contava e conta come concorrente un sosia di “Giuseppe Verdi”, tra l’altro con mantello nero, cappello a cilindro e “papillon”. Un’altra copia del “cigno di Busseto” scende a Montemesola, che vanta una giuria tutta al femminile. “Ci stiamo dando da fare per realizzare un’edizione della rassegna a Milano”, informa Renato Bruno, della Pro Loco, che non si lascia sfuggire alcuna occasione per ricordare la storia della manifestazione, battezzata da Pippo Baudo nel 1965, grazie al veterinario comunale Mario Carbonaro. Il quale, durante una vacanza, si fece crescere i baffi: al ritorno gli amici li criticarono (“Non ti stanno bene”); e lui replicò che il giudizio spettava alle donne; e per coerenza consegnò tocco e toga a una delegazione dell’altra metà del paese.


mercoledì 12 aprile 2017

“Il sangue non si lava” di Capecelatro



LE RIVELAZIONI DI DOMENICO BIDOGNETTI

UN BOSS “PENTITO” DEL CLAN DEI CASALESI


Elencati gli affari dell’organizzazione:

il pizzo, lo smaltimento dei rifiuti, le

bische, i subappalti, gli allevamenti

delle bufale, il latte che veniva dalla

Svizzera e il cemento dalla Turchia e

dalla Grecia”… 

Rievocati gli assassinii

compiuti con ferocia, come quello di

don Giuseppe Diana, “colpevole” di

avere rifiutato di celebrare i funerali

dell’ennesimo “boss” ucciso. 

Il libro di Fabrizio Capecelatro è prezioso. 

 


Franco Presicci




Senza limiti il potere criminale del clan dei casalesi. Lo conferma Domenico Bidognetti, detto “’o Bruttaccione”, confessandosi con Fabrizio Capecelatro, giornalista trentenne di ottima stoffa. Nelle loro mani anche l’allevamento delle bufale. “Chi le rubava per venderle veniva ucciso”.
Di sangue ne hanno fatto versare tanto, i casalesi: per punire torti ed errori, per dare un avvertimento. E “il sangue non si lava”, come dice il titolo del libro di Capecelatro: il racconto del “boss”. Che è stato un killer spietato salito al vertice dell’organizzazione ingrassata con mille affari: le estorsioni, la gestione delle bische clandestine e delle macchinette dei videopoker, lo smaltimento dei rifiuti (126 milioni a notte d’incasso), i subappalti... “Controllavamo persino il latte che arrivava dalla Svizzera, il cemento dalla Turchia e dalla Grecia”. Poi “’o Bruttaccione” è stato arrestato, sottoposto al regime del 41bis, che rende la detenzione ancora più dura; ha cominciato a meditare, a ripassare mentalmente in rassegna le vite che aveva stroncato personalmente o attraverso i suoi ordini; e quelle che portavano la firma di altri. Ha pensato al dolore che aveva provocato alla sua stessa famiglia, e nel 2007 ha deciso di vuotare il sacco in lunghi colloqui con i magistrati di Napoli. Insomma, è diventato un collaboratore di giustizia.
Sandro Ruotolo presenta il libro
Un racconto lungo, dettagliato, il suo: dalla nascita dei casalesi alle ascese e ai crolli dei vari personaggi; con nomi e cognomi di alleati, amici fraterni e d’infanzia coinvolti in quel pianeta criminale; riconciliazioni strategiche e scissioni scandite da raffiche di mitra e colpi di pistola; i piani architettati per i “blitz” e anche il numero di quelli che vi partecipavano, i luoghi, i momenti. “Riuscii a fare uccidere il cassiere dei Tavoletta, fin dentro la sua abitazione. Era un commerciante di pneumatici e, per paura degli attentati, aveva costruito un ufficio con i vetri blindati da cui non usciva mai. Addirittura parlando con i clienti tramite la vetrata.
Capecelatro firma le copie
Mandai due miei affiliati vestiti da allevatori, con le tute ancora sporche di letame, a bordo di una Fiat Punto con le ruote distrutte. Con la scusa di dover cambiare le gomme dell’auto andarono più volte, cercando ogni volta di ottenere uno sconto maggiore, e così conquistarono un po’ della sua fiducia. Non appena quello aprì la porta dell’ufficio, gli spararono alla nuca…”.Ha anche ricostruito l’omicidio, commesso da altri del clan il l4 luglio ’92, di don Giuseppe Diana, il sacerdote che si era rifiutato di accogliere in chiesa un mafioso ammazzato. Il gesto fu considerato un affronto; e Il killer, entrato in sacrestia, dove la vittima stava indossando pianeta e stola per la messa, lo uccise. “Probabilmente don Peppe, negando il funerale… volle lanciare un segnale alle cosche in lotta, manifestando aperto dissenso per le carneficine, e soprattutto ai giovani di Casale…”, esortandoli a tenersi lontani dal precipizio. Anche sotto questo aspetto il libro di Fabrizio Capecelatro è prezioso.
Capecelatro e Giuseppe Borrelli dell'Antimafia
Lo stesso Bidognetti, in ansia per i propri figli, si rivolge alle nuove generazioni: “La camorra non protegge nessuno – ha ripetuto a suo tempo al TG1 - : dà solo morte, terrore e veleni”. E lo ha ribadito in una lettera che Giovanni Conzo, della Direzione Distrettuale Antimafia partenopea, ha letto proprio durante la commemorazione di don Giuseppe Diana a Casal di Principe. In quel messaggio “’o Bruttaccione”, dopo essersi presentato confidando le sue colpe, ha detto di aver cambiato percorso di vita e di fede anche grazie alla paura che i figli potessero intraprendere il suo stesso itinerario; o che qualcuno di quelli a cui aveva procurato un lutto potesse vendicarsi mirando a loro.
Il 2 maggio del 2008 toccò al padre, Umberto, pagare per la decisione di Domenico di cedere snocciolando i misfatti atroci, i “business” dei casalesi definiti dal presidente Obama il quarto sodalizio criminale più pericoloso al mondo. Bidognetti ebbe la notizia in cella da un altro detenuto. “Fu ucciso alle 5.50 in campagna, mentre iniziava la montatura delle bufale”.
Fabrizio Capecelatro al Gr3
Nato nel 1939, il più piccolo di otto fratelli, rimasto orfano di padre, Umberto aveva cominciato a lavorare a otto anni, portando l’acqua ai lavoratori che falciavano il fieno e il grano. Così aveva imparato a coltivare la terra, “quello che poi avrebbe fatto per tutta la vita, fino alla morte”. Umberto avrebbe voluto per Domenico un avvenire diverso, conquistato con lo studio o il lavoro, e invece lo aveva visto crescere, diventare potente in un ambiente infernale.
Togliendo la vita a quest’uomo onesto, gli esecutori avevano anche voluto scoraggiare chi consideravano infame. Tale è per la mafia chi per timore o coscienza o calcolo decide di scegliere la via del cosiddetto pentimento. Riattraversando i suoi vent’anni nel clan dei casalesi (“e allora non dimentico quando, nel maggio del 1988, per la prima volta andai a bloccare un cantiere che non ci aveva pagato il pizzo”), indicando ”doti” (come in gergo di mafia vengono chiamati i ruoli), parentele anche anagrafiche, esponenti di spicco, sodali o avversari, da Francesco Schiavone, detto “Sandokan”, a Carmine Alfieri; da Antonio Bardellino, “boss” della camorra tra i primi associati campani a Cosa Nostra”, ucciso il 26 maggio 1988, a Giuseppe De Falco, detto “Barbacane; Antonio Jovine, “’o Ninno” ed altri, sapeva che esponeva se stesso e altri alla vendetta. Poi sul “Mattino” lesse la lettera della madre che gli rimproverava le sofferenze che lui aveva causato a lei e a tutta la famiglia, concludendo che “è facile pentirsi lasciando…noi nel dolore”.
F. Capecelatrro, G. Borrelli, G. Conzo e Gigi Di Fiore
Il 3 novembre del ‘97 la donna aveva pianto la morte violenta del figlio Salvatore, lontano dall’ambiente criminale, ucciso da cinque sicari. Troppi i delitti. L’elenco che Bidognetti compila nel libro di Fabrizio Capecelatro, autore di un altro “scoop”: “Lo spallone” (libro-intervista al re del contrabbando, Ciro Mazzarella), è impressionante. Come la strage del 18 settembre del 2008, compiuta da un commando a lui estraneo: obiettivo sei giovani immigrati che lavoravano in una piccola sartoria. Motivo? Lo stesso colore della pelle di una batteria di nigeriani che avevano inaugurato un traffico di stupefacenti nella zona del Casertano, senza chiedere la benedizione dei casalesi. Per i giornali fu la “Strage di San Gennaro” o “Strage di Castel Volturno”.
Fabrizio Capecelatro
Domenico Bidognetti, nato nel 1967 a Casal di Principe, che, ribattezzata “terra dei ‘mazzoni’”, “ancora oggi fa tremare la Campania e tutta la penisola”, a 12 anni lavoricchiava e studiava. Poi in un bar in piazza alcuni “amici di mio cugino mi chiesero un favore…Un favore che non avrei dovuto fare perché puzzava di sangue”. Aveva 25 anni quando superò la soglia che separa il bene dal male. Il suo primo omicidio lo commise “in pieno giorno, in piena estate, su un lido balneare”. Nella prefazione all’opera di Fabrizio, Giovanni Conzo annota che la scelta, sofferta, di Bidognetti “di collaborare con la giustizia, dapprima per la necessità di coinvolgere parenti e amici d’infanzia nelle sue dichiarazioni e poi per le gravi conseguenze personali che ha dovuto subire, fu la nostra vittoria…”. Insomma “Il sangue non si lava”, pubblicato da ABEditore nella collana “Terra dei fuochi” curata dallo stesso Capeceletro, 30 anni, milanese con il cuore a Napoli, firma del quotidiano on-line “NanoPress.it”, è una testimonianza di grande valore, raccontata in modo scrupoloso, attento a ogni dettaglio. La lettura non lascia tregua: ogni capitolo è denso di fatti: la latitanza che costringeva Bidognetti a cambiare alloggio quasi ogni notte (di solito masserie, in cui il rifugio è ritenuto più sicuro); il carcere con le sue leggi; l’isolamento; l’ora d’aria in pochi centimetri quadrati, i colloqui vigilati…. “Il sangue non si lava”, recensito da molti giornali e in televisione, e presentato in varie città d’Italia, a Milano, a Bari, a Napoli a Roma, a Benevento…, con la partecipazione di notevoli personalità del giornalismo (Sandro Ruotolo…), della magistratura (Giovanni Conzo…), delle forze dell’ordine, sta riscuotendo grande successo.




mercoledì 5 aprile 2017

I 90 anni di Franco Chieco






PREMIO ALLA CARRIERA

DI UN CRITICO EMINENTE


Franco Chieco

Il riconoscimento voluto e messo

a punto dalla Fondazione “Paolo

Grassi” di Martina Franca e dal

Festival della Valle d’Itria, che

il grande critico della “Gazzetta

del Mezzogiorno” ha seguito

con costanza e passione,

contribuendo alla sua crescita

e al suo prestigio.

Amato e stimato non soltanto in

Puglia e dai mostri sacri della

musica, ha scritto libri notevoli

e ricoperto incarichi importanti.

 


 

 
Franco Presicci



Con una bella e affollata cerimonia il 23 marzo scorso, nella sala conferenze dell’Ordine dei Giornalisti, in Strada Palazzo di Città, a Bari, è stata consegnata a Franco Chieco una targa di riconoscimento alla carriera, in occasione dei suoi 90 anni.
Franco Chieco
L’evento è stato voluto e messo a punto dalla Fondazione “Paolo Grassi” di Martina Franca e dal Festival della Valle d’Itria, di cui Chieco, critico musicale notissimo e apprezzato non soltanto nella città di San Nicola, ma anche nel resto dello Stivale e oltre, ha scritto sempre, puntualmente e con passione, contribuendo alla sua crescita, al suo prestigio e alla sua diffusione nel mondo. Martina, generosa e di lunga memoria, lo ha ringraziato.
Non ho il piacere di conoscere personalmente questo eminente protagonista della cultura e del giornalismo pugliese, ma ne ho spesso sentito parlare dall’indimenticabile pittore Filippo Alto (ha dipinto la Puglia con un’alchimia cromatica festosa), che per un tragico incidente stradale in cui, nel ’92, rimase vittima nei pressi di Ancona, non potè allestire una serata in onore del critico concittadino nell’ampio cortile della propria casa di Figazzano, collocata nella splendida campagna tra Martina e Locorotondo, dopo Sisto, come aveva fatto per il milanese Raffaele De Grada, critico e storico dell’arte. Me ne parlò il poeta, scrittore, giornalista, sceneggiatore radiofonico, commediografo Vito Maurogiovanni, che una mattina, ospite di Filippo, esaudendo un mio desiderio, mi fece dono di una copia dattiloscritta di un suo saggio su Tommaso Fiore, vincitore nel ’52 del Premio Viareggio con “Un popolo di formiche”. E me ne parlarono Mario Azzella, giornalista e documentarista della Rai; e Antonio Rossano, autore di tanti brillanti servizi sul Festival per la stessa antenna e di “Miracolo a Martina” e “O cambiamo protettore o rubiamo San Nicola”, dove se la prendeva con il Vescovo di Myra, accusandolo di non fare niente per la città che lo aveva come patrono (“Bari è adespota, senza padrini…”), pur avendo ispirato la figura di Santa Claus.
Franco Punzi-Paolo Grassi
Franco Chieco-Franco Punzi
Franco Chieco, al quale ho telefonato il giorno prima della manifestazione, è nato a Bari nel ’26, e svolge l’attività di giornalista da settant’anni. Durante il suo lavoro ha tra l’altro allevato molti giovani aspiranti, che possono ritenersi fortunati, visto che al giorno d’oggi nessun veterano ha voglia di imitare Chieco, firma nobile e già redattore capo centrale, severo e scrupoloso, de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, e critico musicale autorevole dal ‘59. Ha anche ricoperto incarichi prestigiosi: presidente dell’Associazione della Stampa di Puglia e Lucania; esponente consultato e ascoltato della Federazione nazionale della Stampa; dell’Ordine dei giornalisti; dell’Inpgi (il nostro ente di previdenza), della Casagit (preposta all’assistenza sanitaria)… Ha dato vita, nel ’95, al mensile di cultura, costume, spettacolo “Contrappunti”; è stato tra i fondatori e poi segretario dell’Associazione nazionale critici musicali; e presidente della giuria del Premio “Franco Abbiati” – sorto nel grembo dello stesso sodalizio - assegnato per sette volte alla rassegna martinese, premiando innanzitutto le scelte del direttore artistico Alberto Triola. Inoltre, alla bibliomediateca della Fondazione “Paolo Grassi” di Martina Franca ha donato oltre mille volumi di opera e musica classica di grande interesse.
Intenso il suo impegno anche nel sindacato. Mi dicono che, discutendo con i colleghi della difesa dei diritti della categoria, a volte addirittura si emozionava, soprattutto quando evocava le notti trascorse nelle trattative per un contratto dal parto difficile o nel tentativo di curare il malessere di una testata. E oggi, che ha vinto la tappa dei 90 anni, e si mostra deciso a lasciare il campo in cui è stato infaticabile e appassionato, continua ad essere interessato a quanto avviene nell’agòne dell’informazione, rincuorando così gli estimatori, che lo vorrebbero sempre sulla plancia.
Franco Chieco
Franco Chieco, persona dotata tra l’altro di una garbata, divertita ironia, è anche l’enciclopedia ambulante del giornalismo barese; e un punto di riferimento non soltanto per i vivai della professione, che è cambiata e diventata più difficile da praticare. E’ amato e stimato. Il 20 febbraio del 2007 fu acclamato da un numeroso pubblico nella sede della Pinacoteca Provinciale di Bari, dove la locale Fondazione lirico-sinfonica Petruzzelli e teatri allestì un incontro con lui, intitolandolo “Percorso di una carriera al servizio della musica: Franco Chieco”. Il 15 dicembre dell’anno scorso, nella cattedrale di Bari, il circolo “Vito Mastrogiovanni” gli ha assegnato il Premio “Testimone di verità”. Sono soltanto alcuni dei tributi da lui ricevuti.
 
da: La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 dicembre 2016
"EVENTI BARI - Giovedì 15 dicembre 2016, alle ore 20, nella Cattedrale di Bari, piazza dell'Odegitria 1, il Circolo «Vito Maurogiovanni» ha deciso di assegnare per questa prima edizione il premio «Testimone di Verità» al dott. Franco Chieco, alla presenza del Padre Arcivescovo, mons. Francesco Cacucci, in occasione della manifestazione «Natale Insieme» allo scopo di raccogliere fondi per la Mensa Caritas di Santa Chiara per i senza casa".
Martina F. -"Francesca da Rimini"-30.07.2016

"La Donna Serpente"-2014


Insomma, Franco Chieco, socialista e credente convinto, è una colonna, un pilastro. Molto considerato anche dai mostri sacri della musica. Commentando la cerimonia svoltasi a Bari il 23 marzo, Amerigo De Peppo ha riferito un episodio che la dice lunga. Trovandosi in ascensore nell’Hotel Vesuvio di Napoli con Riccardo Muti (tra l’altro direttore principale dell’orchestra del Teatro alla Scala di Milano dal 1986 al 2005), cercò di avviare una conversazione, ma il maestro appariva stanco e schivo. De Peppo riuscì nell’intento usando come chiave il nome di Franco Chieco; “e Muti mi chiese notizie del critico, mandandogli i saluti”.
Presidente del Festival Punzi
Chieco ha anche pubblicato importanti volumi: “Contrappunti-diario musicale pugliese ” nel ‘71, editrice Adriatica; “Di quella pira”, nell’84, Laterza; “Il fu teatro Petruzzelli”, nel 2002, Adriatica.
E’ stato Franco Punzi, entusiasta, dinamico presidente del Festival della Valle d’Itria, relatore alla cerimonia del 23 marzo a Bari, a farmi sapere, nel corso di una delle nostre telefonate, del riconoscimento a Franco Chieco, chiedendomi di scrivere un pezzo. Data l’altezza del personaggio, l’ho scritto subito e volentieri.
Intanto critici, melomani, cantanti, orchestrali, studiosi, giornalisti attendono come ogni anno la presentazione del programma dell’edizione 2017 del Festival al Piccolo Teatro di via Rovello a Milano, prevista secondo Punzi per la prima metà di maggio. Farà gli onori di casa Sergio Escobar, direttore del teatro, ammiratore di Martina, della sua rassegna musicale e di quelli che fanno di tutto per non tradire le aspettative, facendo lievitare i successi, la fama e i simpatizzanti.
Palazzo Ducale Martina Franca
Il Valle d’Itria, sbocciato nel 1975 e giunto felicemente alla 43.ma edizione, si aprirà il 14 luglio con l’”Orlando furioso” di Vivaldi e si concluderà il 4 agosto con “Margherita d’Anjou” di Meyerbeer.
Un cartellone ancora una volta molto nutrito, con opere mai rappresentate nel nostro tempo, che il direttore artistico Alberto Triola e il direttore musicale Fabio Luisi hanno voluto dedicare alla memoria del maestro Rodolfo Celletti, che tutti gli anni viene ricordato a Milano da Franco Punzi, quando accenna alle novità, sempre interessanti, di questo Festival, che è anche trampolino di lancio e scuola per giovani di talento; annuncia le presenze prenotate da ogni parte del mondo; e invita a venire in Valle d’Itria, che Giuseppe Giacovazzo definì terra benedetta.
Arrivederci dunque nella città del belcanto, del sole, dei trulli dai simboli misteriosi, delle viti inginocchiate, care al poeta tarantino Raffaele Carrieri; dell’ulivo, del fico, albero per i Greci sacro a Dioniso; e delle case bianco latte; dei balconi spanciati che facevano camminare il regista, scenografo e costumista Pierluigi Pizzi con il naso all’insù.
Franco Chieco vorrà sicuramente cambiare idea e continuare a contemplare il paesaggio irripetibile, incantevole, luminoso di Martina, senza trascurare il suo lavoro di critico prezioso e intransigente. Ce lo auguriamo tutti.