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mercoledì 27 novembre 2019

Natale è ormai alle porte


Zampognari in un cortile milanese

ATTRAVERSANDO L’ITALIA

ALLA RICERCA DEI PRESEPI



Da Bergamo a Lecce artisti
autentici ricostruiscono la
Natività, che spesso finisce
sugli scaffali dei collezionisti
e dei musei, come quello di
Brembo di Dalmine, che ha
circa mille manufatti arrivati
anche da Paesi lontani.





Franco Presicci

                                                    
Riecco Natale. Nelle case ci si prepara ad allestire il presepe, a tirare fuori dalle scatole di cartone guardastelle, pastori, pecorelle, pizzaioli, la stella cometa, che guidò i Re Magi alla grotta del Bambinello. Molti hanno in mente il progetto; altri faranno nascere e crescere il paesaggio in modo estemporaneo. Qualcuno rimarrà fedele alle costruzioni del nonno e del papà, che però non avevano tutti gli elementi di oggi. L’illuminazione, per esempio, allora si otteneva con una normale lampadina nascosta dietro una roccia”, un sasso, o appesa in cima all’abete o al pino.

Presepe Associazione La Natività
Ai giorni nostri sono a disposizione i “piselli” policromi, che producono effetti teatrali. “Mio padre – mi dice un amico che dedica al presepe una stanzetta – ricopriva un’ossatura di legno con fogli immersi in un secchio colmo di creta e acqua, inzaccherando pavimento e pareti, e ogni volta, smontata l’architettura, bisognava ridipingere. Io confeziono a modo mio la cartapesta. E mentre mi accingo a inventare la scenografia, penso alla mia mamma, che dava una mano a mio padre plasmando l’argilla per fare le statuette. Faceva le forme con il gesso, le riempiva e maneggiava colori e pennelli”. All’epoca – una settantina di anni fa – non circolava molto denaro, anzi le tasche piangevano, e siccome al presepe non si voleva rinunciare, a Taranto qualcuno andava sulla via per San Vito e fuori dello stabilimento balneare Praia a Mare e raccoglieva da terra i rami secchi dei pini e strappava dalle pareti il muschio.

Scena natalizia a Milano
Non esistevano l’erba e il terreno sintetici. La passione per il presepe ha avuto alti e bassi, ma non si è mai esaurita. Ai primi del Novecento nei bagagli degli emigranti, tra calze e magliette, c’erano il pescatore, il pollivendolo, la lavandaia, il gregge, tutti in terracotta, perché avvertivano il bisogno di fare il presepe nella terra che li avrebbe ospitati; e i loro discendenti continuano la tradizione. Nessuna competizione con l’albero di Natale. In quasi tutte le abitazioni, a Milano, come nel resto del Paese, l’uno e l’altro convivevano come adesso sapientemente. Negli anni Venti e trenta per lo scrittore Carlo Castellaneta Il Natale a Milano era atteso dai bambini non soltanto per il presepe, ma per i regali. “Una febbre che raggiungeva l’acme il pomeriggio della vigilia e la sera vedevi sui tram genitori carichi di pacchi… La Rinascente era il paese dei balocchi…”. 

Presepe Associazione La Natività
Le confezioni venivano sistemate sotto l’albero o vicino alla grotta della natività. C’è da restare ammirati davanti a certi impianti scenici della nascita di Gesù, tra l’altro con la neve ottenuta con il borotalco o con fiocchi di bambagia o altro. A Cantù, a Brescia, a Bergamo… si realizzano presepi spettacolari, con il Bambino che scalcia nella stalla di una minuscola cascina realizzata con polistirolo o mattoncini in terracotta o in gesso, con gli elementi architettonici ispirati alle strutture agricole vere, con la ringhiera, il cortile, le abitazioni dei contadini, i pomodori appesi, il granoturco accumulato su una panca, la carriola, il carretto… Ovunque, i manufatti spesso escono dalle mani di autentici artisti. Stupefacente, a Milano, il presepe meccanico, un vero gioiello, collocato accanto al “scior Carrera”, una statua sulla quale venivano appiccicati foglietti di protesta o sfottiture con obiettivo il potere, come Pasquino a Roma fino al 1870, la presa di Porta Pia. Nel capoluogo lombardo era famoso con altri il presepe quello del Cordusio che rimaneva acceso fino al carnevale ambrosiano. Presepi venivano creati anche in case di importanti capitani d’industria entrati nella storia. 

Statuine nella Casa del presepe
All’allestimento dei presepi popolari spesso contribuiva tutta la famiglia, come in molti casi anche oggi. Alcuni depongono subito Gesù tra bue, asinello, san Giuseppe e Maria, nel truogolo o per terra su strati di paglia; altri preferiscono portando alla mezzanotte del 24 dicembre, in processione, cantando “Tu scendi dalle stelle”, composta a Nola nel 1754 dal vescovo Alfonso de’ Liguori, diventato santo. In Puglia il presepe sarebbe stato incrementato dallo scultore Stefano da Putignano tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Suoi presepi, bellissimi, si trovano in diverse parti della regione. Non dimentichiamo le statuine e gli impianti scenografici del Leccese, che prevedono anche l’albero della cuccagna, con salumi, formaggi, frutta in alto, come nella vita reale accadeva durante le feste paesane; la raccolta di fichid’india, oltre all’angelo e ai Magi, la cui radice, “mag”, vuol dire dono. Le statuine di Cutrofiano, Ruffano… fanno parte di collezioni private e pubbliche. Sempre a Lecce e dintorni si svolge il mercato di Natale. A Milano la fiera di Sant’Ambrogio, dove qualche banco vende statuine. A Napoli al presepe e ai suoi personaggi è riservata tutta una strada. E sempre nella città campana Carlo VII, re dal 1734, s‘impegnò in quest’arte, con la collaborazione della moglie Maria Amalia, che cuciva i vestiti per la lavandaia, la Madonna, San Giuseppe… 

Presepe Associazione La Natività
Con il tempo sono sorti gruppi, associazioni, musei. Famoso quello di Brembo di Dalmine, che conta un migliaio di presepi, tra cui quelli partenopei: uno del ‘700, di grandissime dimensioni, 79 personaggi, 32 animali, una notevole quantità di attrezzi. Anche la Puglia ha il suo posto nel Museo, sorto in terra bergamasca, per il fatto che in questa regione la produzione presepiale è sempre stata molto diffusa. A Martina Franca, quattro o cinque anni fa tre appassionati – Michele Sforza, Martino Minardi, Giuseppe Semeraro - hanno formato l’associazione “la Natività”, con sede in un locale nei pressi del municipio, dove compongono presepi suggestivi, con sentieri, muri diroccati, cortili, forni, piazze, tratturi, interni di case illuminate e con il paiolo che pende dalla gola del camino: tutto attorno alla grotta che ospita il Bambino. 

Statuette nella Casa del Presepe
Hanno idee originali nella elaborazione dei vari elementi: ulivi saraceni ottenuti spruzzando colla a spray su ciuffi d’erba, su cui poi spargono origano … Hanno fantasia, esperienza, abilità, e anche talento. Fanno da sé anche le statuine piccolissime per le esigenze della prospettiva. I loro presepi sono realizzati con molta cura: gli ambienti, come quelli del fabbro, del falegname, del bottaio, del maniscalco… ricostruiti nei minimi particolari, con gli strumenti del mestiere, frattazzo, sparviere, incudine, fucina, rampino, martello a portata di mano dell’artigiano… Sono dunque dotati di pazienza, sono meticolosi, attenti, per i loro progetti, alle abitudini della gente nei mercati, nella vita privata e anche in campagna, dove si può vedere il contadino che, seduto su un muretto a secco che delimita un vigneto, pasteggia con un panino e un bicchiere di vino; o un pastore, in mano un bastone, che porta a spasso il suo gregge con l’aiuto di un cane. Meriterebbero quindi che il Comune della città pugliese, così laboriosa e intelligente, mettesse a loro disposizione un locale più ampio. Sino a qualche anno fa uno del gruppo, Michele Sforza, ha creato il suo presepe in una chiesetta sconsacrata nel ringo, sempre visitato e apprezzato da molti suoi concittadini, che in questo periodo vivono come altrove tutte le iniziative tradizionali. 

Presepe Associazione La Natività
A Taranto, nei pressi del Palazzo del Governo, in via Principe Amedeo, c’è la Casa del Presepe, che fu aperta un’ottantina di anni fa da Antonio Mazzarano, deceduto qualche anno fa a 105 anni. I figli, tra cui Giuseppe, continuano a costruire presepi a regola d’arte. Il presepe dà felicità, in chi lo esegue e in chi lo ammira. E’ magica, fiabesca, da sogno l’atmosfera del presepe. Quando ci si trova di fronte a uno di questi paesaggi sacri si resta estasiati. “Vorrei entrarci, trovarmi in un cortile con oche, conigli, agnelli, galli, galline, in quel silenzio e in quella pace che danno ristoro”, commentava l’anno scorso un amico milanese, mentre ascoltava due zampognari entrati in un cortile lungo il Naviglio Grande. Non è soltanto per un senso religioso”. E’ forse il desiderio inconscio di sottrarsi al frastuono, al caos alle insidie della città; alle competizioni del luogo di lavoro. Il presepe affascina. Ne ho visti tanti. Anche quelli che costruivano “Gli amici da sempre”, tra cui Alfredo De Lucreziis, a Crispiano, fatti con pane o biscotti scaduti. Presepi meravigliosi, grandi, in una saletta vicina al corso principale. Presepi con ponti, cascate, archi, fontane, colonne, scalinate e figure fortemente espressive, fondali con sorgenti di luce. Un tempo, a Taranto, la mia città, era famoso il presepe della chiesa di san Pasquale in corso Umberto, di fronte a piazza Garibaldi. Il grande evento di Betlemme, borgo detto “casa del pane”, lo riviviamo ogni anno nella ricorrenza di Natale. Con gioia. “Non rinuncerei mai al presepe”, mi dice l’amico. “Che Natale sarebbe senza il presepe?” Che vuol dire mangiatoia, stalla, greppia e anche chiusura con una siepe. “L’albero è freddo, ornamentale, nonostante la stella sul puntale”. No, anche l’albero, innevato con coriandoli bianchi e con pezzettini di ovatta, incanta.







mercoledì 20 novembre 2019

Una città che accoglie con il cuore in mano


SE A MILANO CI FOSSE IL MARE

SAREBBE UNA PICCOLA BARI






Un detto che fotografa la realtà. 

Nel capoluogo lombardo sono più 

I tarantini, gli abruzzesi, i campani,

i siciliani, i pugliesi… che i meneghini. 

Molti personaggi illustri sono nell’albo

d’oro di quelli che hanno fatto grande

questa terra: da Mattioli a Grassi; tanti

altri hanno raggiunto posizioni prestigiose.









Franco Presicci

Una volta Indro Montanelli, che era di Fucecchio, “un paese di Valdarno, accovacciato a mezza strada tra Pisa e Firenze, scrisse: “Venni a Milano per stabilirmici, cinquant’anni fa, e conservo ancora intatte, nella memoria e nel cuore, le mie impressioni d’allora: senso immediato, quasi fisico, nell’impatto con le strade e con la gente, di un grande ordine borghese, politica intesa come amministrazione, spirito d’iniziativa; solidarismo…”. Il suo obiettivo era il “Corriere” e scrisse al direttore del quotidiano: “Non ho cercato, per presentarmi a Lei, raccomandazioni più meno autorevoli. Mi dissero che Ella è uomo di ‘larghe idee’ senza precisarmi altro. E mi affido a questa larghezza.” Son tanti quelli che, sbarcati giovincelli in questa città, con impegno, sacrificio, intelligenza, vi si sono guadagnati onore e rispetto. 

Gaetano Afeltra
Il procuratore Gresti e il prof. Dall'Ora


















Per fare qualche esempio illustre, i Falck avevano origini alsaziane; gli Hoepli e i Richard Ginori arrivarono dalla Svizzera; i Peck dall’Ungheria; Cuccia, fondatore di Mediobanca, era siciliano; Torelli Viollier, papà del “Corsera”, napoletano; Il notissimo medico professor Nicola Dioguardi, tra i fondatori dell’ospedale “Humanitas”, di Bari; Arnoldo Mondadori di Poggio Rusco, nel Mantovano; Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri, di Bergamo; Eugenio Montale, Premio Nobel per la letteratura nel ’75, di Genova; Piero Mazzarella, “el Peppon” d’”El nost Milan”, lasciò la natìa Vercelli per calcare il palcoscenico in terra meneghina; Raffaele Mattioli, banchiere e letterato, presidente della Banca Commerciale, di Vasto; Gaetano Afeltra, nome importante del “Corriere della Sera” poi trasmigrato al “Giorno” come direttore, di Amalfi, di cui scriveva spesso nei suoi racconti sul quotidiano di via Solferino; Domenico Porzio, giornalista e scrittore, tra i padri del settimanale “Oggi”, e Raffaele Carrieri, critico d’arte e poeta, di Taranto; il giallista Renato Olivieri, di Sanguinetto (Verona); Enzo Biagi, di Lizzano in Belvedere (Bologna); il professor Alberto D’Allora, principe del Foro, anche lui della città nota per la tragedia di Romeo e Giulietta; il sociologo, giornalista, scrittore, docente universitario Francesco Alberoni, di Borgonovo Val Tidone (Piacenza)… Persino Ambrogio, patrono della città, era di Treviri (Renania-Palatinato). I patroni delle città non sempre sono concittadini dei loro protetti: san Cataldo a Taranto veniva dall’Irlanda e san Nicola (vescovo di Lycia), a Bari, entrambi accusati di favorire i forestieri, tanto che l’ottimo giornalista della Rai, Antonio Rossano, da anni scomparso, era così rammaricato per l’indifferenza del suo santo, che scrisse un libricino dal titolo: “O cambiamo protettore o rubiamo san Nicola”. Scherzava naturalmente. Autentico gentiluomo, non voleva certo essere blasfemo. Milano, lo dicono in molti, se non tutti, accoglie grandi e piccini, persone altolocate e non, con il cuore in mano. 

Palumbo. Kodra, Nenella, Chechele
A patto che non facciano i furbi, che non pretendano di fare il lavoro in qualche maniera o a mezza giornata: mi disse una sessantina di anni fa Domenico Porzio; e almeno una volta era così. Questa Milano disponibile, così affascinante, con tanti personaggi acquisiti, è stata raccontata in parecchi libri, partendo da lontano, dai nomi più rilevanti della “gentes” nella Milano in epoca romana, per arrivare ai Visconti, la cui corte attirò geni di ogni genere; agli Sforza, che ebbero altrettanti meriti nell’ambito dell’arte e in quello dell’assistenza ospedaliera (il duca Francesco commissionò al Filarete la Ca’ Granda, nome assegnatole dai sudditi). Ludovico il Moro, illuminato mecenate, invitò Leonardo… Seguono patrizi, imprenditori, professionisti di alto livello, letterati, artisti: i Casati Dugnani, i Trivulzio, I Clerici e tante altre famiglie che impegnarono parte delle loro fortune ordinando capolavori per accrescere il loro prestigio. I Melzi d’Eril erano milanesi dal XV secolo; Ferdinando Bocconi, che nel 1902 creò l’omonima università, era anche lui meneghino; ma Giovanni Battista Pirelli, fondatore dell’omonima azienda, era di Varenna; Ernesto Breda, che nel 1886 dette vita alla famosa azienda di Sesto San Giovanni, padovano; la contessa Clara Maffei, della quale Balzac disse che era” fatta per brillare in pubblico, per attirare gli uomini più raffinati”, di Bergamo Alta (Francesco Hayez le fece il ritratto). Arrivando agli anni più vicini a noi, incontriamo un’altra figura eccelsa: Paolo Grassi, che era nato a Milano da padre pugliese, precisamente di Martina Franca, e alla Puglia era rimasto legato con fedeltà, tra l’altro sostenendo con passione il Festival della Valle d’Itria della città con le case con il cappello a punta. 

Kodra e Alto
I pugliesi sono sempre stati una flotta: oltre a quelli già citati, Guglielmo Miani, di Andria, sarto dalle virtù eccezionali che vestì personaggi illustri e ospitò il principe Filippo di Edimburgo; titolare di tre negozi in pieno centro (uno in via Manzoni), del Camparino, lo storico locale di piazza Duomo, due volte vincitore del Premio della Bontà (ai giornalisti che andavano a trovarlo, e non soltanto a loro, regalava cravatte o pesanti medaglie raffiguranti una fornace). Peppino Strippoli, di Bari, padre di diversi ristoranti e del supermercato del vino a Saronno, amico di personalità di ogni campo, tra cui Gillo Pontecorvo; il pittore Filippo Alto, che fu anche consulente del ministero dei Beni culturali, trasferitosi giovane dalla città della Fiera del Levante a quella del Porta, riscuotendo un notevole successo… Un angolo di Puglia si apre anche sui navigli… 

Olivieri premiato dal questore Catalano



Ma anche le altre regioni sono degnamente rappresentate, tanto che anni fa nella sede dell’Alemagna in via Manzoni 31, la Società italiana Dolciario Alimentare Milano s.p.a. a cura di Francesco Biagi e con la collaborazione dell’assessorato al Turismo, allestì, nell’85, una mostra fotografica e documentaria su “Le persone che hanno fatto grande Milano”. Pubblicarono anche un catalogo dedicato a Gaetano Afeltra con un testo del critico letterario Giuliano Gramigna, che conosceva “don Gaetano” da oltre trent’anni: “da più ancora, dovrei dire, se il nome Afeltra è legato al ricordo sicuramente infantile di un portasigari. Era un portasigari di rafia colorata, rosso e verde, che mio padre diceva di avere ricevuto in dono da un suo collega: ‘Me l’ha regalato Afeltra’. Solo molto più tardi seppi che l’Afeltra del portasigari era un altro Afeltra, anche lui giornalista del ‘Corriere…”’. 

Gino Palumbo
Cesare era il fratello di Gaetano. Nel 1986 fu istituito un Premio, “Le Porte di Milano”, in un lussuoso ristorante. Aveva in giuria Domenico Porzio, Mario Oriani, direttore di “Qui Touring”, Achille Rinieri, inviato speciale della Rai, Bianca Mazzoni, capocronista de “L’Unità”, Giuliano Molossi, capocronista de “Il Giornale”… Porzio scrisse nella presentazione in catalogo: “E’ stato un gruppo di giornalisti operanti nelle maggiori testate milanesi ad insinuare nella cronaca cittadina anche questo premio la cui sostanza si limita alla consegna di una targa d’oro nel corso di una riunione conviviale… La giuria sceglie il premiando tra gli immigrati a Milano da ogni regione italiana, selezionando coloro che, nell’ambito delle professioni liberali, abbiano agito con tanta intelligenza e capacità e fervore da raggiungere un merito in più, una ragione di orgoglio in più a una città la cui secolare storia è fitta d personalità di fama nazionale e internazionale… 

Papi, Gresti, Vicari, Dall'Ora
La prima edizione venne assegnata al professor Alberto Dall’Ora, la seconda al professor Silvio Garattini, tra l’altro fondatore e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”. Il premio era molto seguito e tra gli ospiti aveva il procuratore generale di Milano Adolfo Beria di Argentine, il presidente del tribunale civile Alessandro Alessi, generali della Finanza, colonnelli dei carabinieri, questori, giornalisti, tra i quali Arnaldo Giuliani, pilastro della cronaca del “Corriere”, Giancarlo Rizza, de “Il Giorno”, lo stesso Afeltra, il direttore de “La Notte”, quotidiano del pomeriggio, Pietro Giorgianni… Giornali e televisioni gli dedicavano molto spazio, considerandolo un premio importante. Anni prima, nel ’76, un altro premio era nato nel ristorante “La Porta rossa” di via Vittor Pisani (proprietari Checbele Jacubino e Nennella, originari di Apricena, nel Foggiano): il Premio Milano di giornalismo, la cui prima edizione era stata vinta da Giovanni Valentini, barese, a 29 anni direttore dello astorico settimanale della Rizzoli “L’Europeo”; la seconda, dal grande Gino Palumbo, napoletano, che fra i tanti suoi meriti aveva quello di aver moltiplicato le vendite della “Gazzetta dello Sport”, che dirigeva. Tra le soddisfazioni degli organizzatori, quella di aver avuto come ospite, nella serata della consegna del premio a Franco Di Bella e ad Alberto Cavallari, venuto apposta da Parigi, il giornalista e scrittore Giovanni Testori (“La Gilda del Mac Mahon”, “Il ponte della Ghisolfa”…), restìo a partecipare a queste manifestazioni.Molte le persone invitate, tra cui la scrittrice Milena Milani, il grande fotografo e gallerista Mimmo Dabbrescia… Della giuria facevano parte i giornalisti gastronomi Edoardo Raspelli e Vincenzo Buonassisi, il gallerista Renzo Cortina, il direttore de “La Gazzetta di Parma” Baldassarre Molossi, i pittori Giuseppe Migneco e Filippo Alto, il critico d’arte Raffaele De Grada…, presidente Ibrahim Kodra. Anche questo era un modo per riconoscere il merito di chi aveva lasciato la propria terra per operare a Milano, nell’industria, nelle professioni libere.





mercoledì 13 novembre 2019

Il lavoro durissimo dei vigili del fuoco


ANGELI CHE AFFRONTANO IL FUOCO


CON TANTO CORAGGIO E BRAVURA

 



Ne abbiamo avuto conferma, ammesso
che ce ne fosse bisogno, nella tragedia
di Alessandria, dove hanno perso la vita
tre uomini che per vocazione affrontavano
l’inferno.



Franco Presicci

“Ci hanno definiti angeli del fuoco. Questa volta gli angeli sono diventati martiri”. Lo ha detto, commuovendosi, un rappresentante del Corpo, durante uno dei tanti servizi televisivi sulla tragedia di Alessandria. Già altre volte le fiamme hanno seminato vittime tra questi eroi. Ne ho visti, di incendi. Quello che mise in pericolo un intero quartiere alla periferia di Milano, dove vidi crollare un grande capannone e poi un altro, come manufatti di cartapesta, e decine e decine di vigili del fuoco impegnati in uno sforzo immane per placare l’inferno. Uno di loro uscì da una delle due costruzioni qualche minuto prima che si disfacesse. Ricordo il 26 giugno ’84, quando in città si scatenò un tifone: strade allagate, case scoperchiaste, cornicioni franati, alberi sradicati, auto danneggiate; e le fiamme che distrussero un laboratorio di costumi di scena nell’aprile del 2010, in viale Monza. Ricordo anche la grande nevicata dell’85, che fece crollare persino il tetto del Vigorelli.

Leonardo Corbo
Comandante provinciale degli “angeli” era l’ingegner Leonardo Corbo, in seguito promosso prefetto, quindi capo della Protezione civile. Spesso a Milano anche di notte si sentono sibilare le sirene dei “pompieri” (titolo abolito nel ’39), seguite dalle consorelle delle ambulanze e della polizia: da qualche parte bisogna strappare uno stabile, una fabbrica alle vampate. Li vidi scavare tra le macerie in viale Monza, dove tra l’altro straziavano il dolore di chi aveva perso un familiare e di chi non aveva più una casa. Tantissimi anni prima il fuoco aveva aggredito lo stabilimento Pirelli in viale Sarca: uno spettacolo terribile. Un pennacchio di fumo che andava via via gonfiandosi, e il fuoco, che sembrava volersi impadronire del cielo. Nel maggio ’83, ancora in viale Monza, fu ridotto in cenere il cinema “Eros”. E anche lì i “pompieri” non si risparmiarono. I “pompieri” Non si risparmiano mai. Fanno il loro lavoro con abnegazione, pur sapendo che rischiano la vita. Assistetti anche a un incendio al metrò di Sesto (se non sbaglio era proprio lì), sempre ammirando quegli uomini che fanno tanto, ma proprio tanto, per proteggere la comunità. Come accadde anche nella strage di via Palestro compiuta il 27 luglio del ’93 con un’autobomba fatta esplodere dalla mafia davanti al Padiglione d’arte contemporanea. Cinque le vittime: tre vigili del fuoco, un agente della polizia municipale e un immigrato marocchino che dormiva su una panchina dei Giardini Indro Montanelli. Che coraggio e quanta passione, nell’esercizio del loro mestiere. Più che mestiere, una missione.

Modellino autoscala vigili del fuoco
Arrivano tempestivamente in ogni luogo e in ogni circostanza. Non soltanto per domare il fuoco. Quando facevo il cronista mi venne l’idea di trascorrere una giornata nella loro caserma di via Messina, dalle parti del cimitero Monumentale. Chiesi l’autorizzazione al comandante, che non era più Leonardo Corbo, e mi acquartierai nel locale del centralino. Era l’82. Ad ogni chiamata vedevo scivolare lungo un palo dal piano superiore nel piazzale la squadra, che saliva immediatamente sui mezzi e partiva verso la destinazione indicata. Intanto, parlavo con un altro vigile, che mi forniva generosamente una notevole quantità d’informazioni sull’attività del Corpo. La gente telefonava anche per motivi banali: “Accorrete, il mio Giosuè è scappato”. Era la voce allarmata di una donna anziana. Chi era Giosuè, il marito? Ma no, quale marito: Giosuè era il pappagallo. La signora aveva aperto lo sportellino della gabbia per mettergli il cibo nel beccatoio, e il volatile ne aveva approfittato per prendere il volo. Non aveva fatto molta strada: appostato sul ramo di un albero di fronte spiava i passanti. Un vigile del fuoco lo raggiunse e quello non fece alcuna resistenza. Poco dopo: “Qui Darwin, missione compiuta”. 

La notte delle bombe in via Palestro
Il telefono in via Messina aveva ed ha un ritmo incalzante. “Un gatto si è arrampicato sul tetto e si rifiuta di scendere? Si chiamano i pompieri”, mi raccontava il vigile del fuoco prodigo di notizie, mentre ascoltavo il telefonista che rispondeva agli squilli, senza gesti d’impazienza o ironie quando un cittadino gli comunicava di aver perso le chiavi e non sapeva come rientrare in casa. Oggi farlo è più facile, visto che tutti hanno un cellulare a portata di mano. Chiamavano, e certamente chiamano adesso, perché al parco il nonno non trova più il suo Clumber Spaniel (“Un animale prezioso, sa? Abile nella ricerca della selvaggina, incurante dei graffi che gli possono procurare i rovi mentre loro fiutano la preda colpita…”. Tanti i cani smarriti. Ma anche, allora, le scimmie e i serpenti allontanatisi dalle abitazioni private. Qualcuno si meraviglia? Beh, molti anni fa, dalle parti dell’aeroporto di Linate, un tale aveva in casa parecchi rettili, naturalmente in teche sicure. Una notte, lui assente, entrarono i ladri e gli assottigliarono la “famiglia”. Un altro, in un paesino della Brianza, in una stanza teneva un ocelot, ben legato, che mostrava i denti appena si apriva la porta.

Il Naviglio Grande
L’opera dei vigili del fuoco è richiesta dalla signora che al mattino si sveglia e si ritrova con i piedi nell’acqua, perché l‘appartamento si è allagato; e dai cittadini, se uno ha perso la tramontana e minaccia di buttarsi giù dal quinto piano, o se un altro si è buttato nelle acque del naviglio non certo per fare un bagno. A Milano vivono persone che, afflitte dalla solitudine, hanno bisogno di sfogarsi, di trovare conforto. E compila il numero di via Messina. Aggiungiamo all’elenco gli imbecilli che si dilettano a fare scherzi idioti e vili. Un giovinastro finse di vedere la vicina che stava bruciando nel letto perché si era addormentata con la sigaretta fra le dita. Un altro mise in moto il meccanismo perché gli piaceva veder passare le autopompe a sirene accese sotto il suo balcone di casa. Un altro ancora s’inventò un incendio nell’abitazione di un coinquilino e quando i vigili del fuoco entrarono da una finestra si trovarono di fronte a una scena imbarazzante: due coniugi in atteggiamento intimo. Non credo che oggi, con i nuovi strumenti tecnologici, questi sciocchi possano più dilettarsi, distraendo un servizio tanto utile per le città e i paesi. “Gli interventi dei vigili del fuoco sono numerosi e i più diversi”, mi diceva nel 2011 il mio interlocutore, sapendo che dovevo scrivere ella loro festa all’Arena.

Pompieri nel 1895 da libro On Gran Milan di A. Lorenzi, editori Marietti
“Oggi il Corpo ha migliorato le sue caratteristiche peculiari nel soccorso, anche con l’istituzione di reparti specializzati, come il nucleo batteriologico, chimico e radiologico, pronto per attacchi terroristici. Con il Saf, specializzato in tecniche speleo-alpino-fluviali; compie manovre molto complicate: la più recente, la partecipazione al fissaggio dell’antenna del grattacielo “Garibaldi”. Importante anche l’assistenza in campo faunistico: con apposite attrezzature abbiamo recuperato sciami di api e aiutato a salvare molti cervi, tanto che l’ente protezione animali (l’Enpa), con il quale collaboriamo, nel 2005, ci ha assegnato un premio per la sensibilità e l’umanità dimostrata in ogni occasione. Nel 2006 e nei due anni successivi, aprirono la sede di via Messina agli anziani. Li prelevarono con i pulmini nelle loro abitazioni e li portarono nella caserma trattandoli con ogni riguardo. Gli ospiti, provenienti anche dalla provincia, sostarono dalle 8 alle 17 nella centrale operativa e potettero anche visitare il museo del Corpo, ricco di splendide auto storiche. A mezzogiorno si sedettero a tavola assieme ai custodi della pubblica incolumità, e poi, più che soddisfatti della giornata, furono riaccompagnati al loro domicilio. I vigili del fuoco dunque non arrivano soltanto per spegnere un in incendio, per far fronte alle alluvioni, alle frane, ai terremoti, insomma nelle calamità naturali…. Mesi impegnativi – aggiunse il mio cortese informatore - sono luglio e agosto. I milanesi vanno in ferie senza chiudere il rubinetto centrale dell’acqua oppure lasciano la lavatrice in funzione o aperti i contatori di luce e gas. Una casalinga aveva architettato una ragnatela di tubi per dissetare in sua assenza i canarini e le piante: la pressione dell’acqua aumentò e provocò un danno. “E poi il problema degli anziani lasciati soli. Capita che qualcuno cada e rimanga ferito”. “E ci sono quelli che scambiano il “115” per ‘Telefono Amico’. Un lavoro durissimo, pericoloso, che richiede professionalità di altissimo livello. Se n’è avuta la conferma (ammesso che ce ne fosse bisogno) in questi giorni nel caso della cascina esplosa a Quargnento (Alessandria), dove di angeli ne sono morti tre. Una tragedia immane. A questo Corpo, a questi uomini straordinari, bisognerebbe fare un monumento, a testimonianza perenne del loro altruismo.







mercoledì 6 novembre 2019

Correvano gli anni Cinquanta



Il sindaco Monfredi riceve gli universitari
LOTTE ACCANITE PER LA CONQUISTA

DELLA FESTA DELLA MATRICOLA


Un attacco epilettico, forse artefatto,
consentì alla formazione più debole
di raccogliere una valanga di consensi.
Tra le iniziative, la rappresentazione
nel teatro del circolo dei marinai della
commedia di Diego Marturano “Marjie
a canzirre”: un topo scambiato per un
fantasma

CORRIERE DEL GIORNO

 









Franco Presicci 

Chi ricorda le Feste delle matricole degli anni 50, a Taranto? Se si rivolge la domanda a uno dei giovani che frequentano oggi l’università la risposta è negativa. Ma la memoria di alcuni ottantenni sicuramente ne conserva qualche scampolo. E’ trascorso più di un secolo da quando si tenne quella che desidero raccontare, quindi è naturale che sia stata dimenticata, o quasi.
Scena de Marjie 'a canzirre. A dx: F. Presicci
Una volta presi parte anch’io a quel serraglio, e ho ancora in mente le polemiche, i dispetti, le scorrettezze tra le due formazioni in gara. Mettersi d’accordo, unendo le forze per predisporre meglio la ricorrenza era impresa titanica. Anche perché i contendenti erano di diverso colore politico, e quei colori come i campanili hanno sempre acceso gli animi. Come nel minuscolo libro di Indro Montanelli, che riferisce degli “insuesi” e degli “ingiuesi” (quelli del paese alto e quelli del paese basso), che “si affrontavano a colpi di uova marce”. Insomma la fazione opposta a quella a cui io davo la mia collaborazione avrebbe sicuramente trionfato, se il giorno delle votazioni, che si svolsero in un locale di via Berardi, vicino all’ospedale San Giovanni di Dio - che aveva come primario traumatologo il delicatissimo poeta Michele Pierri, che poi sposò Alda Merini - non fosse avvenuto un fatto straordinario: uno di quelli dati per perdenti, fuoricorso di medicina all’ateneo di Bari, ebbe un attacco di epilessia e attirò l’attenzione di tutti, provocando il vuoto attorno all’urna. 
Taranto vecchia
Quando il flusso dei votanti si esaurì e la cassetta venne aperta, la sorpresa fu enorme: i nostri avversari risultarono sconfitti, e andarono su tutte le furie. Pretesero che si tornasse a votare o che addirittura si rinunciasse alla festa. Sembravano irriducibili, convinti che i movimenti convulsi del collega fosse stato un abile “escamotage”. Nonostante il clima arroventato, si dette inizio alle danze, avviando la questua, per raccogliere il denaro necessario per allestire i carri e il resto. Gli incaricati, a gruppi di tre, andarono casa per casa per raccogliere le 10 o le 50 lire elargite dalla cittadinanza; la sera riunione nella sede del comitato, dove il denaro si riversava su un tavolo e si contava. I più abili venivano elogiati; gli altri esortati a rendere di più. Uno, che si distingueva per il carattere scherzoso, sosteneva di avere la capacità di valutare un palazzo dalla facciata: sapeva in anticipo se la cerca sarebbe stata soddisfacente o scarsa. E in effetti il gruzzolo più consistente era sempre il suo. Aveva successo con un metodo particolare: non chiedeva, supplicava. E quando notava che l’interlocutore vacillava, accentuava il tono: “Volete prendervi la responsabilità di mandare a monte la festa che tutti aspettano con ansia? Lo faccia almeno per la ia nonna, che è morta da poco”. I renitenti cedevano per stanchezza.Ma un imprevisto debilitò il comitato. 
Barche in Mar Piccolo
Seduto a un tavolo del bar Principe in via D’Aquino, non sapeva che pesci prendere, perché la somma accumulata non bastava: se si allestiva un carro, bisognava rinunciare a un’orchestra o ad altro. Il problema si profilava insanabile, quando uno del gruppo ebbe un’idea: “Utilizziamo i colleghi che suonano uno strumento, poco importa se bene o male; troviamo qualcuno che possa procurare gratuitamente cinque o sei traini tirati da cavalli, promettendo un ringraziamento pubblico, dal palco che sarà montato in piazza della Vittoria… insomma rendiamo protagonisti anche i carrettieri. E rappresentiamo una commedia dialettale di Diego Marturano o di Alfredo Nunziato Majorano, chiedendo l’autorizzazione per l o spettacolo al colonnello da cui dipende il teatro del circolo dei marinai, nei pressi dell’arsenale. Animo, ragazzi!”. Il comitato riprese energia e si mise all’opera.Marturano, insigne poeta e commediografo, concesse la commedia in un atto “’U cuèrne de Marije ’a canzirre”; le scene vennero date in cambio di 3 mila lire; il colonnello fu generoso e così mettemmo in cantiere il testo. Ma ecco un’altra difficoltà: le studentesse non erano disposte a recitare in dialetto; e alla proposta storcevano il muso. Nessuna disponibilità dai licei, dagli istituti tecnici, dal magistrale. Alle prove avevamo soltanto una ragazza bassa e con i capelli lunghi e corvini, bravina e volenterosa. Che fare? In attesa di un pescaggio fortunato, cominciammo con gli uomini nei panni delle donne. Ma si accese un’altra lampadina nel solito “genio”: “Andiamo in scena vestiti da donna, vedrete che divertiremo di più Sarà una novità”.
La dogana
Il primo a dire di sì fu Minguccio Mondrone, un tipo effervescente, che quando incontrava un amico o un conoscente in via D’Aquino lo abbracciava, sfornando gradevoli e spassose spiritosaggini. D‘accordo anche Ninì Vanacore (la mamma aveva una piccola bottega davanti al cinema Dopolavoro Ferroviario e pare fosse parente di Virna Lisi); gli altri si accodarono. E via al rodaggio. L’interprete principale, il sottoscritto. Trovammo anche un giovane appena diplomato al conservatorio, che accettò di venire a suonare “Ohi Marjie” dalla… strada, mentre la famiglia “d’a canzirre” andava a letto e Tinghisce, il figlio, attraversava il palcoscenico in penombra con l’orinale in mano. Mondrone era bravissimo a divertire il pubblico. Non imparava la parte a memoria e improvvisava battute comiche che disorientavano i compagni di scena. Il “clou” fu quando, durante una recita del rosario, compresa nel canovaccio, inventandosi una pulce su una gamba, unì indice e pollice fingendo di afferrarla, la… depose davanti alla buca del suggeritore, la colpì con uno zoccolo scatenando una nuvola di polvere, che investì il collega sepolto sotto la cupola della ribalta. 
Scena de Marjie 'a canzirre. A dx: F. Presicci
Al pubblico, che straripava, piacque la storia di “Marjie”, che abitava in una casa in cui era deceduta una fattucchiera e si agitava al pensiero che gli strani rumori avvertiti di giorno e di notte dipendessero dal suo spirito, per scoprire alla fine che a farli, quei rumori, era non la maga, ma un topo. Lo spettacolo ebbe l’onore di un articolo sul “Corriere del Giorno”, con tanto di foto. Titolo: “Un trenta anche se senza lode agli universitari tarantini” (se non sbaglio il pezzo era firmato da Arturo Pellegrini, che poi passò al “Popolo”). Se ne occupò anche “Il Messaggero”. Diego Marturano si disse soddisfatto e ricordò che la commedia era assente dai teatri dal ’45. Naturalmente non volevamo imitare gli studenti baresi, che avevano formato una compagnia che si esibì anche a Taranto con un testo di Anouhil. Eravamo attori occasionali, che si dilettavano “semel in anno”, tanto che l’anno successivo ripetemmo l’esperienza interpretando “’A Sanda Moneche”, di Alfredo Nunziato Majorano, che poi sul settimanale “La voce del popolo” invitò i concittadini a dare una mano per creare, per noi, un teatro in un locale di via D’Aquino.
Mar Piccolo
Ma quando Tommaso Carmelo Imperio dell’Enal espresse l’intenzione di riunirci in una filodrammatica rimase deluso; e si avvalse di altri giovani, più dotati e appassionati, che portarono in scena con successo al circolo sottufficiali anche “Trenta secondi d’amore”. Dopo anni, qualcuno, ricordando, quei giorni, disse che avevamo anticipato i Legnanesi, messi su da Felice Musazzi. Esagerazione dovuta alla simpatia e all’amicizia. Per dovere di cronaca, devo aggiungere che il giorno prima dell’appuntamento al circolo dei marinai, il comitato era andato al Municipio, atteso dal sindaco, che era Luigi Monfredi, per la consegna simbolica agli universitari delle chiavi della città; la sera avevamo allestito un processo alla matricola in piazza della Vittoria tra una folla che debordava in via D’Aquino. La manifestazione era stata così intensa, che alla fine un signore anziano chiese all’”avvocato difensore”, dove avesse lo studio perché aveva bisogno di un lottatore come lui, che però non era ancora laureato. Tutto sommato, la festa della matricola anche quell’anno andò benino.
Silvio Noto con F. Presicci
I carri variamente addobbati con studenti imberrettati che suonavano mandolini, chitarre, fisarmoniche, trombe e perfino la grancassa, applauditi dal pubblico schierato ai bordi delle vie D’Aquino, Di Palma, eccetera. Il conducente di una carrozza fu travolto dall’atmosfera e urlava: “Erghià! Erghià”, ma si scoprì che non faceva parte del corteo. In un angolo, solitario, sorrideva divertito “Marche Polle” senza proporre “’U panarìedde”. Gli animi si riconciliarono definitivamente e le divisioni si sciolsero in bicchieri di birra spumeggiante. Con il passare del tempo la memoria si affievolisce e ci fu chi raccontò quella festa a modo suo, attribuendone ad altri la paternità. Succede nelle migliori famiglie. Noi tutti, calato il sipario, tornammo a ballare, ogni sabato, nel salone del Cin Cin Bar” – aperto in piazza Maria Immacolata, di fianco alla libreria Filippi – dove una sera venne a trovarci il famosissimo Silvio Noto, attore, doppiatore, presentatore, che, tra l’altro, negli anni ’50 e ’60 prese parte a tante trasmissioni radiofoniche e televisive, fra cui, “Primo applauso”, programma condotto da Enzo Tortora; “Telematch”, che ottenne numerosi consensi da parte della critica e del pubblico; e condusse, ancora con Tortora, nel ’57, “Voci e volti della fortuna”, abbinato alla Lotteria Italia, conquistando sempre più successo. Da quei giorni sono passati quasi settant’anni; quella generazione si è sfoltita, molti hanno i capelli bianchi.
                                                                                                 
                                                                                    LA VOCE DEL POPOLO     
 IL MESSAGGERO