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mercoledì 28 luglio 2021

Il ricordo di un grande artista

Il pittore Mario Bardi con Presicci
IL SICILIANO MARIO BARDI

E IL SUO AMORE PER MILANO


Aveva lo studio in una casa di

ringhiera di corso Garibaldi, al

piano terra del primo cortile.

Coltissimo, aveva fatto mostre

dappertutto. All’apparenza un

po’ ruvido, con i coinquilini era

generoso e disponibile.

 

 

Franco Presicci

Casa di ringhiera di corso Garibaldi
Ho uno scrupolo, di cui non riesco a liberarmi. Mi prende quando meno me lo aspetto. 

Riguarda Mario Bardi, il pittore siciliano che aveva lo studio in una vecchia casa di ringhiera di corso Garibaldi, all’angolo con via Moscova, dove si ricordano le cannonate del 1878 di Bava Beccaris contro il popolo in rivolta per l’aumento del prezzo del pane. Più volte Mario mi aveva mandato a chiamare tramite sua nuora, amica di mia nipote, ma io in quel periodo non avevo tempo neppure per pranzare e rimandavo. Poi seppi che era volato oltre le nuvole. Non potevo immaginare: credevo volesse darmi la notizia di una mostra personale; invece…

El vicerè, olio di Bardi

 

Ci legava un’amicizia sincera e affettuosa; e quando andavo a trovarlo, prima ancora che bussassi mi diceva: “Franco, entra”: conosceva il mio passo. Dopo i convenevoli mi mostrava le sue ultime opere, un vicerè con il capo in ombra o un cardinale anch’egli con la sommità non ben definita: entrambi erano rappresentanti del potere. Una mattina, continuando a dipingere, fece una specie di viaggio a ritroso: “Dove sono nato io, il Paese in cui ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ai tempi era stata la sede di re e di vicerè. Per ragioni storiche note e ignote l’impronta dell’età barocca era prevalsa su altre di epoche pure più antiche e illustri. E quell’impronta si era perpetuata nel tempo, sia nell’aspetto delle cose che nel carattere degli uomini”. Poi si fermò, depose il pennello e scrisse una decina di righe su un foglio. “Può essere l’inizio di ciò che voglio scrivere in una paginetta del mio catalogo della prossima mostra”. Poi mi donò due litografie per ringraziarmi di un lunghissimo articolo che gli avevo scritto e pubblicato con molti accenni al barocco.

Litografia di Bardi
In seguito mi dette un olio che troneggia nella mia stanza dei libri: una rosa rossa, che colpisce chiunque entri in casa mia. “E’ di Mario Bardi”, dico con orgoglio. Un collega mi propose di vendergliela e gli risposi scherzando che non aveva abbastanza soldi. Non me ne priverei neppure se fossi ridotto in povertà. Mario mi verrebbe in sogno con l’indice puntato e l’accusa d’ingratitudine. Andare da lui per me era anche occasione di arricchimento culturale. Una mattina mi riferì una sua scoperta di tracce di una colonna del Cinquecento in un angolo della casa che lo ospitava; e mi portò quasi per mano sul posto. Poi picchiò con le nocche alla porta dello studio dello scultore toscano Nado Canuti, altro nome illustre, ci presentò e mentre mi mostrava le enormi opere che quasi toccavano il soffitto, dandomi, alcune, l’impressione di pinne di pescicani, mi indicò gli altri artisti che operavano nella struttura con tre cortili, compreso Mario Ligonzo, giornalista de “Il Corriere della Sera”, che dopo aver lavorato per anni alla prima pagina del quotidiano di Taranto si era trasferito a Milano. 

Canuti nel suo studio
Dopo una mezz’ora di conversazione, salutammo Nado, che fece in tempo a dirmi che quei lavori avevano fatto parte di una mostra dedicata al figlio, intitolata “I racconti del padre”. Mario riprese il discorso iniziale: “Successivamente ho vissuto in altre città, spesso ugualmente e talvolta anche più ricche di testimonianze storiche e monumentali, ma dove il tempo ha camminato, e tanto”. Era nato a Palermo, nel ’22. Diplomato al liceo Scientifico aveva frequentato per alcuni anni la facoltà d’Ingegnera, che abbandonò per iscriversi all’Accademia di Belle Arti della sa città. Conseguito il diploma nel ’51, vinse una Borsa di Studio della Regione per giovani artisti. Ottenuta la cattedra all’Accademia di Belle Arti “Fidia” di Agrigento, passò ad Aosta, Torino, quindi a Milano. Consegui premi importanti, espose in molte mostre nazionali, sue opere presero la via di molte collezioni private. Disegnò mirabilmente i disastri del terremoto di Gibellina del ’68.

 

Ugo Ronfani

La rosa di Bardi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uomo coltissimo. Una sera lo invitai a cena a casa mia, dove gli feci conoscere Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”, di cui fino a qualche anno prima era stato corrispondente da Parigi, professionista noto e stimato per il suo vasto patrimonio culturale. Nella capitale francese aveva intervistato Joan Rostand, Jean Paul Sarte, Simone de Beauvoir… ; aveva scritto libri (sui palcoscenici di Parigi, su monsignor Lefèvre…) ed era direttore di “Sipario”, rivista di teatro molto diffusa. Davanti a un piatto di orecchiette con le cime di rapa discussero degli argomenti più vari e tutti li ascoltammo pendendo dalle loro labbra. Veleggiavano senza fermarsi da un lido all’altro, Ugo a volte con dolci suoni francesi.

Parlavano di barocco, di stucchi siciliani, di chiese gotiche, di art-nouveau, e della casa di ringhiera di corso Garibaldi 93, su cui si ventilavano idee di un destino poco rassicurante come quello di sostituirla con un centro residenziale. La prima volta che ci misi piede era forse il 1975. Ero già informato delle sue vicende passate, avendo distillato vino dalle bottiglie di Paolo Valera, scrittore stile carta vetrata, caustico, intransigente, che oltre alle cannonate di Bava Beccaris del 1848 parla di corso Garibaldi con “i suoi quaranta fabbricati sporchi ed ulcerati, loschi, insidiosi per quel povero disinformato che avesse messo il becco in quell’intestino”.

Mario Bardi
Sarà stato così, il corso, ai suoi tempi, ma credo che l’avesse ridotta a quel modo la sua penna arrabbiata (“absit injura verbis”). Certo aveva avuto vicino vie poco raccomandabili come quella Dei Guast, per niente decorosa anche per la locanda del Berrini, frequentata da “locch” e da elementi della “ligera”. Ma erano robe di altri tempi. E guai se qualcuno ne faceva cenno al custode del civico 89, soggetto a una fierezza incrollabile. Non faceva altro che vantare degli artisti famosi che vi avevano avuto lo studio. Indicava uno stanzone del cortile e faceva il nome di Pablo Picasso. “Picasso???”. “Sì, Picasso. Non capisco la vostra meraviglia. “Di certo – precisò un signore che si era fermato avendo sentito la contesa – qui hanno concepito le loro opere artisti come Tallone, Alciati, Solenghi, Ferraguti-Visconti… E non potete immaginare quante fanciulle dai corpi statuari venivano a posare per quelle tavolozze prestigiose”. Mario Bardi confermò. Solenghi imbastiva feste chiassose, ma senza ombra di orge. Nella casa di ringhiera in cui il mio amico aveva lo studio al piano terra del primo cortile regnava il silenzio. Vidi entrare una signora un po’ in carne, due borse della spesa in mano, abito nero, passo stanco, capelli bianchi, “il marito in attesa di me al cimitero”, rassegnata, originaria della Trinacria. 

Chechele Jacubino
Mi avvicinai, scambiammo due parole e mi disse che ogni tanto indugiava davanti alla finestra dello studio di Bari per vedere emergere sulla tela figure e nature morte. “E’ una brava persona, sa? Sembra burbero, ma quando ti parla ha un sorriso affabile”. Proprio sul tetto di Mario Bardi un aiuto regista di Dario Fo aveva allestito uno spettacolo alternativo; e tutti gli inquilini ad assistere dalla ringhiera, con bandiere stese lungo il filo dei panni da asciugare. Bardi ne era contento; e ancora una volta mi parlò delle colonne che per lui testimoniavano l’antica dignità di convento della casa. “La torre campanaria dà sul cortile del 91”. Gli piaceva questo scenario. “Sto più qui che a casa mia, Vieni, facciamo due passi”. E m’introdusse negli altri due cortili, legati da una specie di corridoio semibuio. Mi fece salire su una scala erta, imbrigliando la mia paura che mi cadesse un mattone sulla ghirba al primo starnuto. Era una giornata di pioggia e di vento. Nell’altro cortile signoreggiava un grande fico con le sue belle foglie spesse e ruvide. Mi venne in mente la Bibbia, dove, quando i nostri due progenitori si videro nudi, cucirono alcune foglie di fico per coprirsi l’essenziale, dando l’idea ai pittori del Seicento, che rivestivano di frasche gli arditi artisti del Rinascimento. Lo ricordai a Mario, che intanto pensava al pugliese Chechele Jacubino, che, innamorato della sua Apricena, seduto sotto quell’ombrello si faceva immortalare dal suo corteo di fotografi. “Non sai quanta gente è passata per questa casa di ringhiera. Era di una donna ricchissima e affascinante. Frequentava i salotti dell’alta società. Poi finì qui in due locali con la sola compagnia di una domestica che alla sua morte vendette tutto. Un paravento Liberty è quello che vedi nel mio studio”.






mercoledì 21 luglio 2021

L' ONOREVOLE VIOLANTE PRESENTA A MARTINA FRANCA IL LIBRO "LA BIBLIOTECA DI CRISPIANO DI MICHELE ANNESE

Consegna targa ricordo all'onorevole Luciano Violante(Foto di Cataldo Albano)

Una serata vernice nel

Palazzo Ducale di Martina

Franca, presieduta

dall'assessore Antonio

Scialpi, presenti autorità,

amici, colleghi ed ex

collaboratori della

Biblioteca.                           

Franco Presicci

Devo confessare che ho provato una certa amarezza nel seguire su Facebook la cerimonia della prima presentazione del libro di Michele Annese sulla Biblioteca di Crispiano: 560 pagine di storia e un migliaio di immagini di titoli di giornali che negli anni si sono occupati dell’attività di questo tempio del libro, che è stato un centro di aggregazione noto e apprezzato anche al di fuori della città.

Da dx:Punzi.Violante,Scialpi,Annese,Schena

Contadini, casalinghe, studenti, intellettuali vi si ritrovavano per leggere giornali e volumi; per discutere, confrontarsi, scambiare opinioni. Direttore Michele Annese, che ha ideato e messo in cantiere iniziative che hanno contribuito alla crescita culturale della città. Ho seguito con attenzione la manifestazione, che patrocinata da Martina Franca, si è svolta nel pomeriggio di sabato scorso nella sala consiliaredella stessa città.

Franco Presicci-"Miglior cronista 2002"

L’ho seguita senza perdere una parola anche per l’amore che provo per Crispiano, “culla” fra l’altro di una notevole personalità del luogo, che in anni ormai lontanissimi spese le sue energie per il bene del paese: l’onorevole Lo Re; e per la stima che

provo per l’autore del volume, Michele Annese, che ha sorvolato la sua opera per accennare ancora una volta ai suoi collaboratori, tutti validissimi, della biblioteca “Carlo Natale”, sede in Via Roma, due passi dalla chiesa della Madonna della Neve e dal Municipio. Annese ha parlato con il tono e l’affabilità di chi racconta una fiaba ai nipotini, senza enfasi, senza auto celebrazioni, ma con naturalezza bonaria, con un sorriso amabile e spontaneo.Di fianco a lui, il presidente onorario della Camera dei Deputati Luciano Violante; il presidente della Fondazione Paolo Grassi, Franco Punzi; 

 

Il presidente della Fondazione Nuove Proposte Elio Greco; e l’assessore alla Cultura della città dei trulli e del Festival della Valle d’Itria Antonio Scialpi, che ha espresso il saluto della cittadinanza. E non potevano mancare le presenze di Angela Schena, pilota della Casa editrice omonima di Fasano, che ha dato alle stampe il volume, e del sindaco della città delle cento masserie Luca Lopomo. 

Consegna del libro all'avv. Greco
Sala Consiliare Martina Franca

 

 

 

 

 

 

 

 

Una cerimonia semplice ma con un folto pubblico, accorso anche dai paesi vicini. Tutti soddisfatti, in modo particolare Punzi, che ha poi telefonato ad Annese “per la bella figura che mi hai fatto fare”, perché la sala è grande e si temeva che avrebbe registrato molti posti vuoti, anche perché la gente sta al mare o in campagna. E invece no: la gente ha bisogno di cultura e la biblioteca di Crispiano, con la guida di Michele Annese, in decine di anni di navigazione anche controvento, di cultura non solo a Crispiano ne ha diffusa.

Progetto valorizzazione territorio  

Prof. Franco Punzi

Con lui la biblioteca è stata una fucina, un laboratorio. Non ha fornito soltanto libri, ma indetto anche corsi di formazione; ha invitato importanti autori di libri a illustrare, per esempio Bevilacqua, le loro novità, dialogando con i cittadini; 

ha mandato testi nei condomini, che le persone hanno puntualmente restituito dopo la lettura; ha messo i libri nelle vetrine dei negozi, comprese le macellerie;

 
ha portato i forestieri nelle masserie per farli assistere a spettacoli teatrali, mentre nelle stalle sonnecchiavano i cavalli, facendo conoscere queste strutture rurali, come, fra le tante, la Pilano, La Monti del Duca, Lupoli, Le Mesole, La Pizzica, la Francesca, le Monache , dove si festeggiò alla grande il gemellaggio tra Crispiano e la Grecia (mi sia permesso di ricordare le squisite mozzarelle e le carnose ciliegie “Ferrovia”, servite “indr’u lìmme”, il contenitore in terracotta, utilizzato dalle massaie di una volta per lavare i panni strofinandoli “sus’u strecatùre”, una tavola scanalata, rettangolare, oggetto da museo. Sono uno dei “fans” della vecchia biblioteca di Crispiano.
 
 
 
 

13.9.2010-Gemellaggio Crispiano-Kalivia

Quando vi entravo mi sentivo a casa, come si sentiva a casa l’altra sera a Martina Angela Schena, partecipando alla manifestazione martinese; come si sarebbe sentito a casa il padre Nunzio, la cui casa editrice venne visitata da persone illustri, come il Dalai Lama, Giovanni Spadolini… (Nunzio era un uomo di grandissime qualità, la cui storia bisognerebbe raccontarla ai giovani nelle scuole come esempio da imitare: davvero una formica di Puglia). Sfoglio ancora una volta “La Biblioteca di Crispiano”, nella sua veste elegante, nella sua impaginazione armoniosa, nel susseguirsi delle foto e dei documenti. Lo sguardo cade su una notizia, certamente pubblicata da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, di cui Michele Annese è stato corrispondente per quarant’anni: “Una rassegna sull’arte, la fotografia e la moda”. Segue: “Masserie e chiese rurali.
Museo della Civiltà contadina-Mass.Lupoli

Di scena la vita contadina”. Accompagnato da Annese, anni fa visitai la masseria Lupoli e il suo interessantissimo museo della civiltà contadina, la sua chiesetta con un enorme Crocifisso subito dopo l’ingresso, i vari ambienti, osservando a lungo una vecchietta che sferruzzava su una soglia. A pagina 171, la cronaca di un nuovo edificio per l’Alberghiero, “voluto e realizzato nell’ambito del progetto delle centro masserie, grazie all’onorevole Amalfitano, al preside di Brindisi, professor Pietro Mulè, al commissario del Comune De Carlo e al commissario straordinario Giovanni Galeone, che mise a disposizione la storica Villa Cacace e con annessa pineta”; e una bella foto a colori che ritrae i vari personaggi.  Altri ritagli: “Il Museo dell’agricoltura fra storia e archeologia”; “Le masserie del Tarantino capolavori tra gli ulivi”; “Una visita di prestigio alla Biblioteca C. Natale, quella del prof. Gabrieli, del Lincei”; “La scuola media a Crispiano, una struttura al servizio del sociale”. Più avanti, “Recital di poesie canzoni e concerto”, nella biblioteca. 

1993-Presentazione "Miscellanea-Crispiano di M. Annese

E ancora “Crispiano-Miscellania, un’opera ricca di storia della comunità”, curata da Michele Annese e presentata nella suggestiva Pineta della Villa Cacace, a Crispiano. A pagina 290 due storiche macchine per scrivere illustrano le cronache di corsi di stenodattilografia nella “C. Naatale”. Ed ecco un convegno sull’Acquedotto del Triglio e… dintorni, corredato di una foto con lo stesso Annese, monsignor Fonseca, Fragnelli e il sindaco di Allora Liuzzi. Per scrivere la storia della Biblioteca “Carlo Natale” attraverso testimonianze e ricordi Annese deve aver sottratto anche molte ore al sonno. Sicuramente ha impiegato tutta la sua pazienza certosina.

Gruppo collaboratori/ci Biblioteca
Ha saccheggiato il suo archivio personale, ha pescato nella sua memoria inossidabile e ha fatto alla sua città il suo ennesimo regalo. Non ho esitazione a definire questo instancabile operatore culturale un elemento più che prezioso, indispensabile, intelligente, colto, disponibile, dalle mille risorse. Felice fu a suo tempo l’idea di un gruppo di concittadini di volare alla stazione appena in tempo per tirar giù dal predellino Michele in partenza per il Nord a cercar lavoro, sapendo “come sa di sale lo pane altrui e com’è duro calle lo scendere e ‘l salir l’altrui scale”. Alle suppliche cedette. Rinunciò al viaggio con il treno della speranza e rientrò a casa, pronto a prendere in mano le redini della biblioteca, i cui libri, in verità pochi, erano stati lasciati da un personaggio del paese.

1997-Visita di Violante al Centro Montale, in via D'Annunzio

Michele Annese li moltiplicò, costituì un’emeroteca, il centro montaliano e accolse, nella sede del corso principale (successivamente si trasferirono in via Roma) anche mostre di pittura, convegni, cicli di incontri d’informazione sanitaria (i “Lunedì della salute”)… E’ stato anche il promotore o l’ispiratore di spettacoli per rievocare i tempi delle feste improvvisate in masseria” (compresi i matrimoni sull’aia fra balli e botti di ottimo vino), la sagra musicale d’autunno… e i corsi di preparazione agli esami. E ho citato soltanto alcune delle sue iniziative. La Biblioteca “Carlo Natale” con lui è stata l’anima e il cuore, il fulcro culturale di Crispiano. Un giorno un tale che mi aveva visto in compagnia di Michele, fissandomi mentre attraversavo la villa con il dottor Donato Plantone, già segretario comunale, mi sussurrò: “Se Michele Annese non ci fosse, dovremmo inventarlo. E ci costerebbe fatica”. Tutto questo mi è venuto in mente dopo aver seguito su Facebook il video della presentazione a Martina Franca del libro di questo castoro di Crispiano. Chissà quante volte pensa ai giorni della biblioteca di via Roma, agli incontri, alle discussioni, alle decisioni da prendere mentre faceva anche il segretario generale della Comunità Montana. Intanto si occupa dell’Università del Tempo Libero e del Sapere, della quale è presidente la moglie, la professoressa di Lettere in pensione, Silvia Laddomada. 

Presentazione libro




VIDEO DI LUCIANO DE LEONARDIS

 

 

 

NOTA:

SU "NOTIZIE ED EVENTI ASSOCIAZIONE"(BLOCK NOTES SITO ASSOCIAZIONE MINERVA.ORG) E' STATA PUBBLICATA LA RELAZIONE DI  MICHELE ANNESE RIFERITA ALLA PRESENTAZIONE DEL 10 LUGLIO 2021 A MARTINA FRANCA.

mercoledì 14 luglio 2021

La mia fonte di ricordi

 

LA VIA CARA AL MIO CUORE

OLTRE MEZZO SECOLO FA

Via Nettuno


Uno spettacolo quotidiano

visto anche dai balconi delle

case. Le persone, gli epiteti

i pettegolezzi bonari, gli usi,

i negozi. Con il passare degli

anni la strada ha cambiato

faccia. 

 

Franco Presicci

Il popolo di via Nettuno, via collocata tra la Capitano Egidio Giusti e la Fratelli Melloni, alle Tre Carrare, si é da anni assottigliato. Cancellati anche i negozi, quei pochi che c’erano: il tabacchino di don Damiano, un signore anziano burbero, ma generoso (ha lasciato il posto a una specie di minuscolo supermercato); la salumeria “d’a francaveddèse”, all’angolo con via D’Alò Alfieri; l’elettricista Quatraro, padre e figlio, che vendeva lampadine e spine; e più recentemente il laboratorio di Michele, che aggiustava le macchine per cucire, soprattutto marca Singer. La stessa strada ha cambiato volto: quasi tutti i vecchi stabili a suo tempo sono stati demoliti per costruire al loro posto palazzi di cinque o sei piani che hanno ingoiato tutto lo spazio superfluo, su cui noi ragazzi praticavamo la “livoria”, un gioco che prevedeva il lancio di due palle d’acciaio verso un ferro rotondo saldato su un chiodo conficcato nel terreno, “a scìgghie”, che bisognava attraversare per conquistare un punto. Eravamo in tanti a trastullarci su quel “campo”, e non solo con la “livoria”. I più bravi assumevano atteggiamenti spavaldi e si contendevano il titolo di campione. Li ricordo tutti. Non era tra questi Pierino Lincesso, che abitava in uno stabile di fianco al mio (al numero 8), in un appartamentino con una loggetta che dava sulla strada e sembrava un palco di un teatro. I genitori vi si sedevano e ammiravano lo spettacolo che si svolgeva in quel tratto. 

Marino Ceci
Estraneo a quelle competizioni erano Marino Ceci, cinque anni meno di me, che quando è diventato grande si è trasferito in via Regina Elena. Amante della musica, virtuoso del pianoforte, poi docente di notevoli virtù culturali e didattiche, tanto che per i suoi ex alunni è ancora un modello da imitare. Lo era anche Gino Gattinari, studente al Liceo Classico “Archita” in piazza della Vittoria, intelligenza viva, ottimi voti anche all’Università di Bologna, dove si laureò in medicina disattendendo i desideri della mamma che lo voleva professore. Aprì uno studio de in via Giusti, dove aveva trasferito l’abitazione e dopo anni è deceduto nella sua nuova casa dalle parti di piazza Sicilia. La notizia della sua scomparsa mi procurò molto dolore, perché Gino era un caro amico di gioventù, mi veniva a trovare a casa tutte le sere, rimanendovi fino a tardi (se ne andava solo quando vedeva i miei occhi chiudersi a intermittenza come le lampadine dell’albero di Natale). Era sempre ben vestito, corteggiato, spiritoso, senza mai la voglia di dimostrare il sale che aveva in zucca. Al liceo, con rappresentanti di altre classi, confezionò un giornale. Quando il preside, che non era ancora Massafra, lo lesse, redarguì tutti, meno Gino, a cui dette come premio 3 mila lire, per la scrittura, giudicata agile e brillante, e per l’argomento scelto. Non era uno sgobbone, Ma nella sua libreria convivevano Pirandello, Papini, Palazzeschi, Croce, Sciascia, Prezzolini…

La dogana
Si poteva permettere tutti i libri preferiti: il papà aveva alle dipendenze maestranze che sfoltivano i boschi, a Policoro, ricavandone carbone che stoccava in un grande deposito credo in via Aristosseno, di fronte allo stabile di un altro amico, Mario Filomarino, che vendeva gli uccelli in via Pupino. Mai visto tra il pubblico della “livoria” neppure il giovane Belloni, che abitava al secondo piano del palazzo quasi di fronte al mio: frequentava il Conservatorio e già suonava da maestro il violino. Di fianco al suo stabile sorgeva una casetta lillipuziana preceduta da un giardinetto con un cancello sulla strada. Uno dei figli, di cui non ricordo il nome, aveva acquistato le scarpe per il “tip-tap”, di cui era molto appassionato e si vedeva già in una sala ad esibirsi come virtuoso professionista. Un giorno con altri tre o quattro compagni di gioco facemmo un pic-nic a base di sedano, olive, pane e melanzane sott’olio su un prato in fondo a via Dante. La sera il futuro artista ci dette un saggio di quel ballo e alla fine lo applaudimmo senza capirci niente. Ho appreso in seguito la storia della tap dance. Al numero abitava 2 abitava la signora Magenga, una bravissima infermiera che veniva chiamata da tutti per ogni problema. Ebbi un foruncolo a un dito, che mi procurava molto dolore, e mia madre di notte andò subito ad avvertire la donna dei miracoli (si fa per dire). “E’ maturo”, esclamò riferendosi all’infiammazione, e m’infilò un ago nell’indice. Il figlio, un ottimo ragazzo, si trasferì a Venezia, dove – mi scrisse – esercitava l’arte del prestigiatore. 
Scuole elementari Acanfora

Enrico, nipote di don Damiano, ereditò il tabacchino del nonno, ma lo spostò all’angolo con via Dante, dirimpetto alle scuole elementari Acanfora. (le avevo frequentate anch’io, avendo come maestra la dolce signora Carrozzo, che abitava in corso Umberto). Enrico aveva troncato gli studi di chimica all’università di Bari, per intraprendere subito il lavoro, sostituendo la mamma, una gran signora che tutte le volte che mi vedeva entrare per acquistare il sale per la nonna mi chiedeva come andassi a scuola; e io dribblavo perché quel mio percorso era accidentato. Poi il negozio passò in altre mani e di Enrico non seppi più nulla. Via Nettuno aveva tante belle ragazze. Fra queste, Lisetta, che abitava al numero 14; le figlie di Schirano, una famiglia numerosa con abitazione di fronte alla mia. Il papà, persona seria, onesta, buona e disponibile, in testa sempre un cappello nero a falde larghe, a suo tempo arruolato per necessità nella milizia come mio suocero. Nei pomeriggi d’estate la famiglia si sedeva fuori a conversare anche con altri della via: Gilda, Soccorsa... a godersi l’atmosfera tranquilla. Le auto erano poche, le carrozze di più. Rare le liti, rarissimi gli scontri, che finivano a “tarallùcc’e vvìne”. I ragazzi ogni tanto programmavano, per passatempo, una sassaiola contro quelli delle vie vicine, stabilivano l’orario e studiavano la strategia, ma il giorno della battaglia non arrivava mai. I pettegolezzi circolavano a ritmo di valzer. Una fanciulla usciva alle 9 di sera ed entrava nell’auto del fidanzato in attesa? Subito: “Addò vè’ quèdde a quèst’òre de nòtte? Ma averamènde s’hà’ revutàt’u mùnne. Fàce bbuène Salvatore ca ùse màzze e panèlle cu le fìgghie. Otre ca càpa pàcce accùme dìcene”. 

Vendita di frutti di mare in dogana
Bastava un gesto, un comportamento, un’abitudine, un “tic”, una modo di camminare per appiccicare un’etichetta: “Segaròne” fumava il cubano; Celluzze era grasso e quindi “’A bòtte”; Franchine, avendo i capelli ricci, “Rezzetjidde”; Pascàle non appariva molto sveglio? “Mènza meròdde”; “Memìne era “Nàs’a puperùsse”; Colìne “Maulòne” perché alto; Menechìne “‘nu tàppe” perché basso; Giuannìne, amante degli scherzi, “’u Cegghiòne… (i nomi di battesimo sono naturalmente di fantasia, per rispetto delle persone). Anche il paese di provenienza suggeriva un nomignolo: Giuànne u’ Musciagnèse” era di Mesagne; Penùcce, “vurtagghièse”, di Grottaglie. Mechèle, che frequentava via Nettuno, ma apparteneva a un’altra via, era di Roccaforzata e qualcuno gli dedicò dei versi: “D’a Ròcche mo’ tu’ è scìse ‘nzign’a Tàrde p’acchià cume se dice ‘a pàgghia bbòne/ e mmèce de sazìzze, sùgne e làrde te pegghiàte ‘nu furbòne … ”. Se uno studente disertava i banchi, il padre minacciava: “Je te mànne a carescià’ a còffe da Giuànne ‘u Musciagnese”. E il ragazzo continuava a inanellare “felùne”, cioè a marinare la scuola. Un bell’assortimento.

Gianni Rotondo

Ah, spesso vedevo arrivare Gianni Rotondo, destinato a fare strada come giornalista de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Veniva a visitare una signora anziana spesso seduta sulla soglia di casa: forse la sua futura suocera. Allignavano anche le leggende. C’era chi giurava di aver incontrato “’u lupannàre”; e chi ne aveva sentito l’ululato provenire dall’androne del numero 7. Ne parlava anche una signora alta, sagoma da gemella Kessler, passo da danzatrice classica, sui cinquant’anni, un po’ “snob”, che nelle serate in cui si riuniva il parentado raccontava di aver assistito ad una seduta spiritica e di esserne uscita terrorizzata: il tavolo era saltato e ricadendo si era spezzato una gamba. Tutti stavano ad ascoltarla tremebondi. Tante persone se n’erano andate all’altro mondo ed era facile trovare anime da convocare, Immagino mèste Fiorènze, “c’u bànche de falegnàme indr’o purtòne, sèmbe chijne de farfùgghie”; mest’Andònie, c’a tenève cu tùtte l’onevèrse; Cerùcce; Ronzìne, àbbele a fa’ ‘u presèpie; Osvalde, ca facève ‘u sucanchiòstre… Zio Dionigi ascoltava in silenzio e mi dava l’impressione di non gradire. Anche quando la signora Lina, donna forte, ma mite e concreta, mai sedotta dalle credenze popolari, giurò di aver visto l’aùre far capolino dall’armadio e salutarla sventolando la mano. 

Dino Abbascià e Nico Blasi

Zio Dionigi
Cose che si raccontano la sera di Natale seduti intorno al braciere con la pedana. Mi viene in mente il maestro martinese Oronzo Carbotti, che scriveva di tradizioni, usi e costumi antichi di Martina Franca sull’interessantissima rivista diretta da Nico Blasi, “Umanesimo della Pietra”; e al giorno in cui mi portò in una scuola elementare e mi presentò il direttore, che affermava di aver abitato nella mia via proprio di fianco al mio caseggiato. Ma per quanto sollecitasse la mia memoria, questa non trovava riscontri. Solo dopo una mezz’oretta si aprì un varco. Il ricordo più limpido riguarda zio Dionigi, il mio faro. Nell’agosto del ‘75, l’Associazione produttori di biciclette indisse un concorso sul prodotto, che prevedeva due vincitori e un “velocipede” per tutti quelli che avessero pubblicato un articolo sull’argomento. Partecipai con il racconto di un fatto accadutomi all’età di 15 anni. Ogni lunedì d’estate lo zio tornava dal week-end trascorso con la famiglia a Martina nella campagna sul Chiancaro, una zona incantevole e riposante. Arrivava a Taranto alle 7 con un treno della Sud-Est tirato da una locomotiva a vapore e alla stazione prendeva il pullman dell’Aeronautica, dove lavorava. Mi offri di andarlo ad aspettare io con la sua bici, orgoglioso di poter fare qualcosa per lui; e dovetti insistere molto, dato che lo zio temeva che durante il percorso potessi avere un incidente. Alla fine riuscii a convincerlo e il lunedì successivo pedalai fino alla dogana, nella città vecchia, dove si ruppe la catena. Non sapevo che cosa fare. Erano le 6 e si aprì un deposito, chiesi aiuto e mi fu risposto che solo uno del mestiere avrebbe risolto il problema, e non in poco tempo. Cercai di arrangiarmi ma peggiorai la situazione, sporcandomi di grasso anche la faccia. Quando lo zio mi vide arrivare a piedi, le mani tra manubrio e sella, s’impressionò perché da lontano scambiò il grasso per sangue, e mi venne incontro correndo. Io quasi piangevo e quel sant’uomo mi rincuorò. Pubblicai l’articolo e conquistai il “trofeo” (Ugo Ronfani si piazzò onorevolmente al secondo posto dopo Gianni Granzotto con un articolo sulla Rivoluzione cinese fatta in bicicletta). Lo rivedo, lo zio, che il pomeriggio stava spesso affacciato al balcone della sua casa al primo piano di via Nettuno 10 ad osservare il via-vai. Era nato in via Nettuno e lì morì all’età di 66 anni, uno dopo il pensionamento .










mercoledì 7 luglio 2021

Marco Ciacci, giardiniere-artista

Marco Ciacci
 

SCOLPISCE CON LA MOTOSEGA

FIGURE UMANE E ANIMALI


Ha trasposto negli alberi secchi

una storia creata da Alice Marcati,

una ragazza che lavora alla Comunità

Montana. Ha realizzato anche altri

personaggi, dando nuova vita a una

pianta morta.

 

 

 

 

 

Franco Presicci 

Agriturismo Grassi e Lunghi
Moggio è un paesino acquattato tra i monti della Valsassina, a 890 metri di altezza. Ha 480 abitanti, che d’estate si moltiplicano per via dei turisti che lo scelgono come mèta delle vacanze. Ha una chiesa dedicata a San Francesco, citata da Goffredo da Bussero, che, rifatta nel XVIII secolo, ha un organo del 1913.

Marco Ciacci e i figli
Ha anche una casa-museo, ricca di attrezzi da lavoro e altri oggetti di notevole interesse. Famosa per la qualità dell’allevamento bovino da latte, per i suoi formaggi invecchiati nelle grotte, “offre un’aria pulita e una vita tranquilla”, oltre a una splendida varietà di fiori e vedute incantevoli”, racconta Marco Ciacci, 51 anni, giardiniere e scultore, nato a Lecco, cresciuto a Cremeno e trasferitosi a Moggio dopo aver conosciuto una bella fanciulla di qui, diventata sua moglie. “Mi trovo bene, il mestiere che svolgo mi appaga e sono contento. Purtroppo il covid mi ha imposto l’alt per un bel po’ di tempo, come del resto a tante altre persone in tutto il mondo”. Marco è simpatico e se gli si dà la spinta parla volentieri. Non dice molto di sé e sottovaluta le opere che realizza. Pettinando giardini, mettendo piante a dimora, scegliendo quelle più intonate all’ambiente, manifesta un vero amore per la natura e le sue bellezze. Viene chiamato anche per abbattere gli alberi allungati un po’ troppo o addirittura morti, trasformando in gnomi, scoiattoli, fontane, cestini, funghetti i tronchi residui lasciati attaccati alle radici e quelli sezionati che si porta via…Ha realizzato anche uno scarpone da montagna con un tronco di un metro e 50 centimetri e persino un trattore assemblato, e un castagno che fa piovere acqua attraverso un sistema di micro irrigazione. Ha anche creato una fontana enorme di castagno su cui campeggia la scritta “Love” per gli innamorati, che prima o poi riempiranno di messaggi d’amore.
 
Altra scultura
Quando si comincia a respirare aria di Natale scolpisce anche alberelli destinati ai bambini, sempre in legno e sempre con la motosega. Marco non usa toni enfatici: parla come se l’argomento riguardasse un'altra persona. E ne ha da dire, di cose. Sono 15 anni e oltre che scolpisce dopo aver sistemato giardini non soltanto a Moggio, ma anche a Lecco, Mandello, nella stessa Cremeno. E’ tra gli artefici del sentiero didattico nel Parco delle Grigne, che ha disseminato di “animali” e di figure umane, sagomate con quell’oggetto fracassoso con cui si sfoltiscono anche le foreste. “Il sentiero si trova nella vallata dei Grassi e Lunghi ai piedi appunto della Grigna”; e le sculture gli sono state ispirate da una storia scritta da una ragazza, Alice Marcati, che lavora alla Comunità Montana. Il testo si snoda attorno a due bambini, uno grasso e l’altro lungo, allevati da una vecchia signora di nome Elvezia, che li salvò, facendoli crescere nell’amore per queste località immerse nel verde, accarezzate dai rilievi, con spazi-giochi e nastrini di strade da percorrere per ristorare lo spirito. E così chi imbocca quell’itinerario incontra il Grasso, il Lungo, il capo villaggio, la nonna Elvezia, la Strega… tutti i personaggi che popolano quel racconto riprodotto in legno abilmente da Ciacci. 

Torrente Pioverna
Marco è noto e apprezzato in tutta la zona, dove tra l’altro scorre il torrente Pioverna. Prima che quel cecchino maledetto che va sotto il nome di coronavirus cominciasse a mietere vittime, Marco Ciacci veniva chiamato in tutte le sagre in programma per fare dimostrazioni della sua creatività nelle piazze. A cominciare dalle feste del paese. Non ha frequentato scuole, non ha avuto maestri né pubblici né privati. Ha cullato l’ispirazione da solo, quasi senza accorgersene. Se gli si chiede come sia accaduto, risponde di essere stato dall’odore del legno. “Un odore che mi ispira; quell’odore è stato per me irresistibile: mi ha rapito. E ho provato subito la voglia di far vedere ai bimbi che cosa può uscire da un pezzo di legno: il gufetto, la gallina, l’ape, un uomo con il mento appoggiato alla vanga... Gioisco nel vedere i bimbi attorno a me così presi dal mio lavoro…”, e dalla sua capacità, aggiungo, di ricavare da un castagno forme di pozzi e altro, come Geppetto Pinocchio. Qualche giorno prima del Natale antecovid ha conosciuto uno scultore del ghiaccio, di cui non ricorda il nome né la provenienza, che gli ha proposto di andare a scolpire con lui in un paese lontano da qui. Avrebbe ricevuto vitto e alloggio. Poi è esplosa la pandemia ed è rimasto tutto sospeso. “Adesso che il virus ha fatto marcia indietro, dandoci un po’ di sollievo, spero di rivederlo”. I compaesani gli vogliono bene e lo ammirano. Quando lo incontrano, scherzando, gli dicono: “Attento alla motosega”, il cui rumore da queste parti è familiare. “La sentono quando con sofferenza butto giù un albero moribondo o defunto e quando estraggo dal legno quei profili che lei definisce sculture”. 

Cuoco Manuel Agriturismo Grassi e Lunghi
Opera di Ciacci

Della sua vita privata dice frasi brevi. Suo padre faceva il muratore e gli avrebbe potuto trasmettere il mestiere, ma lui non gradiva maneggiare cazzuola e frattazzo, sabbia e cemento, pietre e  blocchetti: preferiva occuparsi di altro, e così ha imparato l’arte da un giardiniere provetto di Cremeno; e quando si è sentito pronto si è messo in proprio.

Non è abituato alle interviste, quindi sulle prime appare esitante, desideroso di accorciare la conversazione. Poi si scioglie e parla di tutto, senza sciupare le parole: dell’ambiente in cui vive, dei formaggi, della funivia che porta ai Piani di Artavaggio… “Siamo in provincia di Lecco, sull’altopiano della Valsassina”. Gli impegni gli portano via tutta la giornata. L’ho cercato per giorni, gli ho fatto decine di telefonate. Arriva a casa tardissimo ed è stanco ma soddisfatto. Si muove tra rose, gerani e tanti altri fiori resi più belli dalla sua abilità e competenza, in un’atmosfera di pace e serenità, in un paese acquattato tra i monti, “come potrei non essere contento?”. Ha nostalgia di Cremeno? “Ci posso andare quando voglio. E’ bello anche quello, circondato da paesi luminosi e magici: Barzio (dove la biblioteca ha sede nel Palazzo Manzoni nell’omonima via); Ballabio (il cui nome secondo alcuni significherebbe luogo degli Orobi e secondo altri villaggio e baita); Morterone, con le sue grotte di Onferno e i suoi tanti eventi, tra cui “Sentire i sentieri”; Pasturo, culla di contadini, casari, località amena decantata da scrittori e poeti come Antonia Pozzi, invaghita di questo paesaggio, tanto da celebrarlo nei suoi versi.
Scultura di Mario Ciacci

Non per niente tanta gente viene qui a trascorrere i suoi giorni d’estate. E ci ritorna anche per contemplare il panorama”. La mia collega Pia Bassi, per tanti anni al “Giorno”, collaboratrice presso altri quotidiani e periodici, colta, curiosa, amante dei pellegrinaggi turistici, scalatrice instancabile in coppia con l’amica Elena Combi, si è imbattuta in Marco, ha ritratto le sue testimonianze che costellano il verde di Moggio, una perla della Valsassina, ricca di colori e di sapori, un paesino riposante, una sorta di paradiso per chi arriva da Milano, silenzioso, ordinato. Pia è entusiasta di questo luogo. Lo raggiunge tutte le volte che può. Un luogo magico. La chiamo al telefono e lei con Elena sta passeggiando sui piani di Artavaggio. Da lì mi ha spedito le foto che illustrano questo articolo: il ponte sul torrente, il cuoco Manuel dell’Agriturismo “Grassi e Lunghi”, Marco e i suoi figli, il Grasso e il Lungo, La Strega, il paesaggio… il vecchio che Ciacci ha volutamente lasciato per un braccio imprigionato nell’albero … Tutte immagini tirate fuori secondo “l’intenzion dell’arte” da Marco Ciacci, che ripudia scalpelli e martelletto per eseguire i suoi lavori, dei quali sono orgogliosi i suoi figli e i suoi nipoti. Già: nonostante la giovane età, Marco è già nonno. La figlia Caterina è campionessa italiana di corsa campestre.