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mercoledì 26 gennaio 2022

Un pomeriggio alla Rai di Milano

IL DIRETTORE ROBERTO COSTA

PARLAVA E DISEGNAVA GATTI


Un gatto di Costa
In casa sua aveva un Blu di Prussia,

che quando aveva voglia di uscire

andava a prendersi il guinzaglio da

solo. Il noto libraio Renzo Cortina

sottrasse al l’amico giornalista un

mucchio di foglio e pubblicò il libro

40 gatti”. Uno dei volumi di Costa

fu presentato da Ruggero Orlando.

Tra l’altro vinse il “Premio Campione

d’Italia”.


 

 

Franco Presicci

Roberto Costa
Ci sono persone che sono state dimenticate o vivono nel ricordo di pochi. Roberto Costa per esempio, che fu condirettore del Centro di produzione Rai di corso Sempione a Milano. Lo intervistati il pomeriggio del 9 marzo del ’73, nel suo ufficio, e ricordo la sua cortesia e il suo piacere di colloquiare. Mentre gli ponevo le domande, pur ascoltando attentamente, spesso con la mano lasciava scorrere la matita su un foglio di carta, poi su un altro. Non erano scarabocchi per un’antica abitudine. Erano gatti.

Gli bastavano poche linee ad arco, attorcigliate, rapide, nette, mai spezzate, cerchi, ovali. Lì c’era il gatto. Li conosceva bene, i gatti, pur avendone sempre diffidato. Fino a quando un operatore del Telegiornale trovò in corso Sempione, a due passi dalla Rai, un Blu di Prussia di colore grigio-azzurro, come le uniformi degli avieri. Non si sapeva dove ospitarlo, era intirizzito e ancora bagnato di neve. Costa lo mandò a casa sua. Era un gatto elegante, fine, da ammirare per la sua bellezza, di quelli amati alla corte reale inglese e che le fioraie russe tengono fra gli scanni. Costa cominciò a osservarlo, a seguire i suoi atteggiamenti, le sue espressioni; e a capirlo. 

Paolo Grassi in una tela di Angela Barratta
Il felino perdeva la testa ogni volta che arrivavano in casa rose o gladioli. Soprattutto le rose. E anche se si spandeva in casa un profumo che richiamava i fiori. Era un gattocane. Non usava le unghie e andava al guinzaglio. Quando aveva voglia di uscire, il guinzaglio se lo andava a prendere da solo. Poi è rimasto vittima di un incidente stradale, come tanti suoi confratelli che vengono abbandonati o si smarriscono. Il giornalista cominciò a schizzare sagome di gatti, che aveva conosciuto in città e in campagna, e che gli erano rimasti nella memoria. Prima di allora non aveva mai disegnato un gatto. Tracciava segni con quelle forme mentre pensava ad altro. Forse non si accorgeva che dalla sua matita nasceva il corpo svelto, slanciato, la coda affusolata di un siamese focato-marrone o il collo agile e sottile di un birmano. 

Antenne RAI
I fogli si accatastavano sula scrivania: centinaia di gatti accigliati, aggressivi, scontrosi, ritrosi, docili. Un giorno si accorse che aveva allestito un gattile di carta. Se ne accorse anche un suo amico da anni, Renzo Cortina, il famoso librario bellunese che aveva la galleria d’arte nel piano sottostante, in piazza Cavour, e un quadro di Dino Buzzati esposto in vetrina (credo un mastino napoletano, il cane più antico d‘Europa, testa grossa, severo, bonario, vigile, intelligente, imponente) e gli soffiò una quarantina di esemplari, che raccolse in un volume intitolato appunto “40 gatti”. Il cedimento di Costa all’invito di Cortina di organizzare anche una mostra di gatti da portare in giro per l’Italia e all’estero avvenne dopo parecchie resistenze. Costa non amava mostrare le sue opere. Da anni infatti dipingeva, scolpiva e nascondeva tutto in cantina o in altri luoghi. Eppure, due sue mostre ebbero un successo tale da fare invida ai maestri. In quelle esposizioni veva allineato, nella prima, ombrelloni da spiaggia; nella seconda, automobili. Non so se mantenne il proposito di realizzare gatti su legno, con una tecnica che si rifà a quella dell’ebanista.

Sede RAI
“Sarà il legno a dirmi che c’è il gatto, io lo ricaverò esaltando le venature”, mi disse, mostrandomi un gatto di carta appena accennato, che mi regalò. E aggiunse: “Recentemente ho fatto una scultura raffigurante l’animale che lotta per vivere”. L’opera, che era ispirata da una mummia di gatto trovata a Livigno in una legnaia, raffigurava un felino che camminava andando sempre avanti, non poteva fare marcia indietro; per cui se s’infilava in un buco non poteva più uscire, senza la possibilità di girarsi. Roberto Costa parlava come disegnava: senza fronzoli, rendendo l’essenziale. E quando aveva bisogno di descrivere una persona che l’interlocutore non conosceva, lui ne affidava i tratti alla matita. Se lo chiamavano al telefono, riempiva fogli e fogli. In un disegno gli occhi espressivi di un gatto abissino. Poteva capitare che fosse sprovvisto di carta bianca davanti; allora il segno scorreva sulle colonne di un giornale o di un libro scritto in latino. 

Pippo Baudo con Presicci

Era un uomo disponibile, schietto, puntuale ad ogni domanda sugli argomenti più vari: sullo stato del nostro mestiere; sui giovani; sulla moda dei capelli lunghi (uno studente universitario che faceva parte di un complesso musicale fu messo alla porta dal docente, perdendo l’esame, proprio per la capigliatura e la cosa finì nelle pagine di cronaca); sulla partenza della Stramilano, marcia non competitiva organizzata dal gruppo alpino “Fior di Roccia”, con il patrocinio del Comune di Milano, de “La Gazzetta dello Sport” e il contributo della Banca Popolare di Milano, percorso da piazza Duomo all’Arena; su Pippo Baudo, che conduceva “Canzonissina”; sui “Pullman dell’arte” per raggiungere i vari quartieri milanesi; sulla Scala, dove Ghiringhelli aveva ceduto la poltrona a Paolo Grassi; sulla visita alla nostra città di Salvator Allende, presidente costituzionale della Repubblica del Cile, con la consegna da parte del sindaco Aldo Aniasi del sigillo di Milano (In seguito lo stesso Aniasi andò a rendere visita a Pablo Neruda)... Insomma un diluvio di domande, mentre Roberto Costa faceva scorrere la matita. Poi disse: “Voglio bene a tutti gli animali, ma il gatto è per me l’animale più complicato e più semplice nello stesso tempo. Nella sua linea anatomica e nei suoi movimenti non ha angoli, solo curve.

Gatto sui pesci
L’ho studiato molto. Anche il fenomeno dell’abbagliamento. Se un gatto che attraversa la strada di notte è abbagliato da una macchina finirà sotto le ruote con molta facilità. Perché per qualche secondo non vedrà più niente e credendo che l’auto sia già passata andrà incontro alla morte”. Gli domandai: “Quale delle tue attività preferisci?”. Non ebbe alcuna esitazione: “Certamente quelle del giornalista e dello scrittore. E’ da quando avevo 25 anni che scrivo e più passa il tempo e più la mia professione mi entusiasma”. Il suo era un lavoro intenso. Dove trovasse il tempo per fare tante cose lo sapeva soltanto lui. Certo toglieva diverse ore al sonno, tanto che poteva scrivere libri come “Uomini e buoi” o come “Maroja”, con il quale l’anno prima aveva vinto il “Premio Campione d’Italia”, e lavorare 12 ore al giorno alla Rai. La sera arrivava stanco davanti al cavalletto; eppure dipingeva e se non dipingeva disegnava; se non disegnava leggeva o scriveva.
 

Sede RAI
Con i gatti, scrisse Ruggero Orlando (lo ricordate? “Qui New York, vi parla Ruggero Orlando”, sventolando la mano a mo’ di saluto) nella prefazione al libro, “si trova a suo agio con queste creature e con esse si riposa”. Ad ogni modo questi gatti erano eseguiti con una verità e un’efficacia che quasi balzavano dalla pagina per venirti sulle ginocchia. Il dialogo con Roberto Costa durò un’ora e mezza e nessuno dei due aveva voglia di alzarsi dalla sedia. Una volta in piedi mi guidò sino alla porta con un sorriso e un arrivederci. “Alla tua prossima mostra di gatti?” “Certamente in un’altra occasione. Negli anni ho pensato spesso a lui e più volte mi sono proposto di andarlo a trovare. Ma si sa, gli impegni ammazzano i propositi. Alla sede della televisione di corso Sempione sono stato andato molte volte, per partecipare a varie trasmissioni, tra le quali, su Rai3, “Fuori Orario” con Davide Riondino, i critici cinematografici Tatti Sanguinetti, Enrico Ghezzi, tra l’altro anima di “Blob” (una sera, aspettando il mio turno, mi capitò di fare una conversazione con il poeta americano Gregory Corso e un’altra con Amanda Lear), ma non ho mai avuto il tempo di cercarlo. Un mezzogiorno fui intervistato da Giancarlo Magalli sui rapporti tra Francis Turatello e Renato Vallanzasca, e non riuscii neppure a intercettare la bravissima e bella collega Elena Golino, e quindi non potetti chiederle notizie su Roberto Costa: pur essendo troppo giovane, la storia della Rai di corso Sempione la conosce e dei giornalisti che l’hanno preceduta hanno sentito parlare.












mercoledì 19 gennaio 2022

La vita professionale di un pilastro del giornalismo

VITTORIO MONTI, INVIATO SPECIALE

DEL QUOTIDIANO DI VIA SOLFERINO

Il libro di Vittorio Monti

Ha scritto un libro bellissimo e molto

interessante: “Un panda estinto”, che

si legge con grandissimo piacere.

Monti racconta, con uno stile nobile, senza

Fronzoli, le difficoltà, i sacrifici, le partenze

improvvise, gli imprevisti, i problemi spesso

affrontati per mandare l’articolo in redazione.

Inviato di grande prestigio, ha informato i

lettori di quello che negli anni è successo nel

mondo,da un colpo di Stato a un’alluvione, a un

sisma.


Franco Presicci

L’inviato speciale è un vagabondo curioso con una gran voglia di conoscere luoghi e persone, peccati e virtù di chi abita nei luoghi più lontani e a volte sconosciuti. Quando gli capita di fermarsi scalpita, perchè il suo tetto è il mondo. La sua casa anagrafica resta in piedi perché ha una moglie eroica, e se non lo è il castello corre il rischio di crollare. 

L'insegna del Corriere

L’inviato ha le valigie sempre pronte vicino all’ingresso ed è pronto a scattare alla telefonata che può arrivare anche in piena notte: con il mezzo più rapido deve trovarsi sulla scena di un avvenimento clamoroso, cercare testimoni, investigatori, ascoltarli con prudenza, analizzare, trarre conclusioni meditate, cercare di snidare l’invisibile o la verità nascosta. Qualcuno ha detto che somiglia a un commesso viaggiatore. Non è vero: l’inviato scatta quando riceve la chiamata del comandante della nave, vive ore febbrili, e quando ha tutto bene ordinato in testa o sul taccuino, deve scrivere il pezzo e farlo avere al giornale nel più breve tempo possibile. Il suo non è un viaggio turistico, ma un lavoro di grande responsabilità soprattutto verso il lettore, che giudica severamente. Con tutte le cose che accadono a Dubai o a New York, nel Nord o nel Mezzogiorno del nostro stivale, dovrebbe avere il dono dell’ubiquità: qui un colpo di Stato, lì una sommossa, altrove un ‘alluvione, un terremoto, un atto di terrorismo, un incendio che incenerisce un grattacielo. 

Il ristorante Rigolo

Vittorio Monti, bolognese, inviato speciale de “Il Corriere della Sera”, di galoppate ne ha fatte tantissime. Il l giornale ha i suoi ritmi; e per realizzare un servizio occorre la velocità di Alberto Cova. Monti non ha mai mancato un appuntamento, non è mai arrivato in ritardo, con l’occhio dell’aquila ha visto la preda da lontano e quando si è messo davanti alla macchina per scrivere ha ricostruito i fatti con un notevole pregio narrativo, senza mai inzuccherare la notizia, taroccarla, enfatizzarla. L’ha irrorata, nel senso che l’ha arricchita di ogni particolare. Da quello che scrive dipende la sua attendibilità. Il lettore non perdona, ma per sua coscienza il giornalista non lascia spazio alla fantasia: e per colmare un vuoto che non è riuscito a strappare alla trama, per colmarlo ha cercato di entrare di più nel fatto, nei personaggi, nell’ambiente, immedesimandosi. Come ogni cronista che si rispetti ha saputo emozionare il lettore, catturare subito la sua attenzione, in modo che restasse fedele al giornale e anche alla sua firma, che sta sotto l’etichetta “dal nostro inviato speciale”. 

Franco Di Bella e il sindaco Carlo Tognoli
Un paio di volte l’ho avuto come compagno di viaggio, Monti, autore del libro ”Un panda estinto”, pubblicato da Giraldi editore, 138 pagine dense di immagini e di situazioni. L’ho visto quindi all’opera e l’ho subito stimato. Si muove senza far rumore, prende i suoi contatti con garbo, coglie subito ciò che gli interessa con quei suoi occhi penetranti e la sua grande capacità d’intuizione. Se acchiappa uno “scoop” non si esalta, non se ne vanta, non si mette la medaglia sul petto. E il concorrente prende e porta a casa il fallimento, magari congratulandosi con il fuoriclasse che l’ha battuto sul campo. Una delle volte che l’ho incontrato è stato a Tunisi, in occasione dell’arresto dell’autore del delitto del catamarano, nel luglio dell’88.
 
 
Gabriele Cagliari
Prendemmo lo stesso taxi, guidato da Mustafà, che per tutto il tragitto si lamentò per l’impossibilità di acquistare il montone per la festa del Sacrificio, mentre il concorrente che lo stava sorpassando, avendo due mogli, ne doveva e poteva acquistarne due; e chiedeva notizie della Carrà e di Pippo Baudo, perché in quel Paese si vedeva solo Rai Uno. Eravamo diretti alla spiaggia di Gar el Mel, dove il killer e la compagna minorenne e un terzo, ignaro di tutto, erano sbarcati. Dal prefisso di Ancona (la vittima era stata scoperta da alcuni pescatori a strascico nelle acque di Mazzocca di Senigaglia), che sbirciava da una vela attorcigliata ricavammo la certezza che quella era l’imbarcazione che cercavamo. Rientrati in albergo, lui venne a sapere che l’assassino e gli altri erano stati presi sulla via per Djerba, a cavallo. L’autore del delitto, che come il francese Vidocq (morto nel 1857), riuscirà ad evadere più volte, era stato tradito da una telefonata fatta alla mamma a Milano, perché le tasche gli si erano prosciugate. Monti lo ritrovai a Ferrara tra i giornalisti assiepati attorno al presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, per la tragedia di un elicottero caduto con a bordo cinque specialisti dell’Eni.

Guglielmo Zucconi
 
Quando ho preso in mano questo libro e ho cominciato a leggerlo, ho dimenticato che era pronto in tavola. Non riuscivo a staccarmi dalle pagine scritte con uno stile agile, brillante, senza fronzoli, e sono andato avanti steso sulla sdraio senza perdere una parola. Monti in queste pagine preziose racconta il suo mestiere, svolto con passione, entusiasmo, con gioia; racconta il sogno fatto fin dall’età di dieci anni di fare il giornalista, e lo ha fatto con on saggezza, senza mai tirarsi indietro, prima dei social e del gsm, che hanno fatto una rivoluzione nella carta stampata. Usava la lettera 22, come quella su cui ha lasciato la sua impronta Indro Montanelli, che in una foto storica lo si vede seduto su un marciapiede a battere i tasti di quella gloriosa Olivetti. Chissà quante volte anche lui, Vittorio, ha dovuto scrivere, magari non accosciato a terra, ma su una panchina o al tavolo di un bar. Anche lui sembra innamorato dell’epoca del piombo e dell’odore del petrolio in tipografia. Anche se dice che non intende fare un elogio del tempo in cui fra le linotype e i banconi ci si sporcava d’inchiostro “e gli articoli venivano scritti calcolando a spanne la lunghezza”. Sente ancora la voce del proto che dovendo accorciare un testo sul bozzone sibilava di tagliare in fondo. Vittorio prende l’avvio dagli anni Sessanta, quando riuscii a piazzare piccole collaborazioni su un giornale glorioso come l’”Avvenire d’Italia”, diretto da Raniero La Valle. Erano gli anni in cui nella città felsinea il capo della Curia era il cardinale Giacomo Lercaro. Monti capì subito come funzionava il meccanismo: “Se ti chiedono di scrivere un articolo devi farlo, tutti i mezzi per riuscirsi sono buoni. L’importante è che la cronaca sia verosimile Non dico vera, perché la verità assoluta non esiste”. Semina granelli di esperienza un po’ qua e un po’ là. Se i neofiti del mestiere li raccolgono bene, se non si arrangiano. E continua: “Oggi tutte le cronache sono simili se non uguali. Quando invece erano pezzi d’autore il gusto della lettura cresceva dal confronto delle varie testate” A guardar bene, il percorso di Vittorio Monti comincia da più lontano, in un nuovo settimanale illustrato diretto da Emilio De Martino, dopo aver fatto tanti passi, anche in clandestinità. 

La targa di via Solferino

A farlo progredire fu un gol, sparato durante una partita su un campo parrocchiale. Poi con Piero Ottone, la conquista del “Corriere della Sera”. E il suo nome ha cominciato a fare il giro del mondo. Sempre sotto la scritta “dal nostro inviato speciale”. Un inviato infaticabile, attento, abituato a scavare, indagare, creare il mosaico andando oltre i verbali, le voci ufficiali, i banditori, senza cedere alle lusinghe, alle adulazioni del potere, che usa ogni strumento per catturare un giornalista. Ma di fronte ai pesci grossi lui è stato sempre con la schiena dritta e la testa alta, avendo come solo padrone il lettore. Ha tutte le carte in regola per parlare del giornalismo estinto, avendolo percorso in lungo e in largo per molti anni. E lo rispolvera dicendo pane al pane e vino al vino, senza offendere nessuno. Racconta anche le difficoltà che allora l’inviato incontrava per fare arrivare il pezzo in redazione: non c’erano i telefoni e i computer (“Il Giorno” fu il primo a introdurre le innovazioni tecnologiche, dotando l’inviato prima di un M10 e poi di un Toshiba, chiudendo l’epoca della dettatura al dimafonista, che poteva presentare pericolo d’intoppi e di incomprensioni). Posso stendere un’esperienza personale? Sull’autostrada Taranto-Milano ci fu un terribile incidente, con morti e feriti. Il giornale mi mandò; sulla via Emilia trovai un anaconda di auto, la radio di bordo era ammutolita, scesi e mi misi a correre alla ricerca di un telefono, suonai al campanello di una villa, per il buio non vidi un grosso cane lupo che si avventava con rabbia (per fortuna tra me e lui c’era un cancello). Risalii in macchina, che intanto mi aveva raggiunto, svirgolando su strade di campagna, alla fine arrivai alla caserma della polizia stradale. 

Via Solferino
Sandro Pertini
Un poliziotto mi raccontò l’accaduto, il numero delle vittime, i particolari più agghiaccianti …
Dovevo spedire il pezzo a braccio ed entrai in un bar affollatissimo e chiassoso. Per guadagnare il silenzio alzai le bracciai e supplicai, gli avventori tacquero a dall’altra parte il collega Vicoli gridò “Dove sei finito, da ore non rispondi alle chiamate, ti credevamo morto”. Chiedo scusa a Vittorio se gli ho tolto la parola, ma lo so indulgente. Riallaccio il filo. L’autore, e che autore, dà anche consigli ai giovani su come costruire un articolo e sul modo di condurre un’intervista seria. L’intervista è un duello, l’interlocutore va studiato, occorre piazzargli le domande giuste, scomode, incalzarlo, denudarlo delle bugie; se vacilla, intensificare il “pressing”, come fa un giocatore di calcio per strappare il pallone all’avversario. Le domande programmate sono un’offesa al lettore e al telespettatore. Ma Monti non lo dice salendo in cattedra. Non è il tipo. E’ uno che ha adorato, e adora, il mestiere più vecchio del mondo (“da non confondere con quell’altro, che è più lucroso”). Raccontare il tempo che è volato via lo mette a disagio. “Ma chiudere gli occhi sul passato non aiuta a vedere meglio il presente”.
Un giorno si scriverà la storia del giornalismo divisa in due parti: prima e dopo l’avvento del cellulare. Qualcuno, magari lo stesso Monti, ci penserà. Ha un bagaglio pieno oltre l’inverosimile, per affrontare la fatica. Tra l’altro ha conosciuto le più alte personalità e le presenta con tratti brevi e succosi: Sandro Pertini, per esempio. Lo incontrò nel ’79 a Genova per il centenario del “Lavoro”, giornale di cui il Presidente era stato direttore. Giovanni Spadolini, che essendo stato sulla plancia del “Corriere”, dai giornalisti amava essere chiamato Direttore, con l’iniziale maiuscola. Romano Prodi. Durante un viaggio in pullman un giornalista ha necessità di fare un … servizio idraulico e non può usare il bagno perché la porta è ostruita dai bagagli. Prodi si accorge del problema e al viaggiatore “infortunato” suggerisce di camminare, per tenere chiuso il rubinetto. Allora un collega beve tutto d’un fiato una bottiglia di acqua minerale e porge all’incontinente il vuoto. Verso le ultime pagine, tutte godibili, ritroviamo Susanna Agnelli, Cicciolina, Giovanni Leone…Piero Ottone, che lo assunse al “Corriere” senza averlo visto mai in faccia, fidandosi di Franco Di Bella, “il più grande capo-macchina di un giornale”, destinato al ponte di comando. Vita professionale esemplare, quella di Monti, fatta anche d’inchieste memorabili: sulle carceri, sulle comunità di povera gente. Gli fu offerto il cavalierato e rifiutò. Vinse il Premio Saint Vincent, il più ambito dalla categoria, e ha avuto molti riconoscimenti non pelosi. Niente di quello che ha inserito in questo racconto è stato attinto dall’archivio. Ha riversato in queste pagine tutto quello che una fonte inesauribile, la memoria, ha fatto scorrere: dai suoi inizi come abusivo in una redazione alla gloria di inviato speciale di un quotidiano autorevole.







mercoledì 12 gennaio 2022

Vittima del cecchino Gianni Cacciapuoti

RIVIVE NEL LIBRO DELLA MOGLIE

MATILDE MAISTO: “PARLAMI ANCORA”

 

Gianni e Matilde
 Giornalista, scrittrice, direttrice di

un giornale on-line, creatrice di un

salotto culturale, pure immersa nel

suo dolore, continua ad affrontare

gli impegni e a pensare ai figli e alla

nipotina.

 

 

Franco Presicci  

Il Covid 19 è un cecchino implacabile. Molti credevano che in breve tempo sarebbe stato debellato, invece il “serial killer” continua nella sua opera distruttiva.

Matilde Maisto     
E’ un camaleonte: mentre sembra regredire, si ripresenta sotto un’altra forma, sparge panico ovunque, miete vite, assottigliando le popolazioni del mondo. Ma la scienza lo sconfiggerà; e finiranno gli arresti domiciliari, il timore di essere aggrediti a tradimento per la minima imprudenza, l’obbligo di andare in giro mascherati, il divieto di entrare in un cinema o in un teatro o di sedersi in un bar per un caffè. La scienza ce la farà: tutti i grandi cervelli del mondo, un esercito, sono impegnati in questa lotta, che deve essere vinta: il “virus” dovrà arretrare. Ma per molto continueremo ad avere davanti agli occhi le bare trasportate dai camion dei militari: persone che sono volate oltre le nuvole senza il conforto di un familiare che stringesse loro la mano, che accarezzasse loro la fronte. E’ un pianto continuo, provocato da questa serpe velenosa che s’insinua tra gli affetti e li sconvolge.

Gianni Cacciapuoti
Non avevo il piacere di conoscere personalmente il commercialista Gianni Cacciapuoti, marito esemplare di Matilde Maisto, giornalista e scrittrice, direttrice del giornale on-line che prende il nome dalla città in cui esce: Cancello e Arnone, paese in provincia di Caserta, noto per la produzione della mozzarella di bufala campana. Non lo conoscevo e avrei tanto voluto. Uomo come pochi: buono, generoso, disponibile, aperto al dialogo, con un sorriso amabile e buone parole per tutti. Il Covid se lo è portato via, sottraendolo a Matilde, che è sprofondata nella disperazione. Improvvisamente il suo orizzonte si è oscurato. La sua vita è mutata. Durante la malattia d Gianni pregava che una mano dal cielo lo salvasse, ma la paura che non ce la facesse era grande. Dovunque girasse lo sguardo, Gianni non c’era più. Gianni era stato la sua guida, la fonte del suo calore, il suo amore immenso. Sono passati i giorni, i mesi, e lei, pur affranta, si è rituffata nel suo lavoro, confortata dalla convinzione che Gianni non aveva più la voce, ma era ancora accanto a lei, si era trasformato nel suo Angelo custode. Potenza della fede.
 
Matilde e il marito

Quando la notizia si è diffusa, valanghe di condoglianze hanno quasi sommerso questa gentildonna, che piangeva il suo amore spezzato. E ricordava le parole, i gesti, i tanti anni trascorsi con Gianni, la sua passione per la musica “fino a sostenere la formazione di un complesso ai tempi del “boom’ economico in un’Italia assai diversa, per tanti versi migliore di quella attuale”. E prosegue, Matilde: “I ragazzi allora facevano il bagno nel fiume Volturno, si radunavano per mille giochi di movimento e d’inventiva… facevano girare per le strade della periferia cerchioni di ruote a raggi spingendoli con un’assicella… andavano andava al mare in bicicletta, si cimentavano in matte corse per afferrare una bandierina; nel periodo natalizio conquistavano ‘‘e nucèlle’ poste in riga come birilli sul nudo terreno dei cortili…”. E ricorda i luoghi frequentati, “il tempo in cui sotto l’egida del Sacro Cuore andava forte la squadra di calcio e intanto Gianni cominciava a tifare Milan, una fede mai abbandonata per tutta la vita”. Poi il felice matrimonio, ma anche il trasferimento al Nord, Milano, “dove Gianni lavorò come commercialista presso la prestigiosa casa editrice Electa…” e lei si occupò al “Corriere della Sera” come supporto al settore editoriale. 

Cancello e Arnone vista dalll'alto
Ma il richiamo del paese natale era forte e vi tornarono anche per la nascita dei due figli, Luca ed Elisa. Matilde racconta il suo percorso, come volesse incontrare Gianni da qualche parte e come colloquiare con lui, che sta vicino a lei senza la possibilità di far sentire la sua presenza. Racconta di “Letteratitudini”, che lei aprì nel bel salotto della sua casa a Cancello e Arone e “al quale Gianni non ha fatto mai mancare il suo contributo tecnico”, come ha sempre incoraggiato l’attività giornalistica di Tide. Una coppia molto legata dall’affinità chimica, da un collante fortissimo, che è l’amore con la lettera maiuscola. Molti, nel desiderio di risollevarla, le dicono che la vita continua. Certo che la vita continua. Matilde lo sa e lo scrive. Matilde non ha più la metà del suo mondo, il compagno che la portava per mano lungo i più diversi sentieri, ma soffre in silenzio convinta che il suo Gianni la voglia attiva e tenace. Ha l’affetto dei suoi figli, della nuora e della nipotina Sofia; riversa su di loro un amore grande.

 

Il libro
Gianni

Nel suo letto non sente più il respiro di Gianni, lo invoca e si distrae pensando all’impegno del giornale . E allora ha scritto “Parlami ancora”, un libro che ti entra nel cuore, redatto con uno stile scorrevole, limpido, appassionato. Tilde risponde agli amici che hanno partecipato alla sua sofferenza, a quelli che le hanno inviato messaggi di vicinanza e a Gianni, che le pare assente per lavoro. “Ciao, amici, inizia un’altra settimana e Gianni non c’è, ormai è quasi un mese, io lo chiamo, lo invoco, ma lui non mi risponde mai… Ma io ancora non riesco a comprendere perché mi abbia lasciata…”. E’ stato il cecchino, Matilde, a portartelo via, e tu lo sai. E sai anche che le per persone care attirate dalle stelle restano per sempre nel nostro cuore, quindi non muoiono davvero. Il 16 marzo 2021 Tilde scrive: “Buongiorno a tutti, sempre pensando a Gianni, che molto spesso mi diceva: ‘La classe è quando hai molto da dire, ma scegli di stare in silenzio’”. Uomo saggio, Gianni, intelligente, comprensivo, empatico. Il giorno successivo Tilde gli dice: “Buongiorno Gianni, ormai è un mese che te ne sei andato, ma dove sei? E’ vero che la tua essenza è sempre accanto a me? Io a volte percepisco la tua presenza, ho l’impressione che mi stringa la mano, ma poi mi ritrovo con un pugno di mosche”.

Fuoco della Pace a Cancello e Arnone
E si rivolge alla Vergine. Segue un pensiero di Francesca Nardi. “E poi…l’ombra perversa di una stagione infame calò lentamente come il più torbido dei destini nelle nostre illusioni depredandole dell’armonia e facendo strame delle nostre certezze, spezzò gli avanzi del tempo e li seppellì lungo i silenzi di un tempo sconosciuto… E la vita di Tilde inciampò nel tramonto… il suo mondo si piegò improvvisamente…”. Bella poesia in prosa. Anche Tilde ne scrive a Gianni. E da buona cristiana ricorda che quando una persona che ami vola via, una parte di essa resta sempre legata al tuo cuore.  “Il suo sorriso, il suo sguardo, il suo profumo, il suono della sua risata sono ricordi che non ti abbandonano MAI”. Ho letto questo libro quasi in un fiato, la notte dell’ultimo dell’anno, mentre fuori molti si divertivano con i botti, i bengala, i lanci che in aria accendono rose di stelle variopinte, che in un baleno si spengono a una a una: l’addio all’anno che se ne va e il saluto a quello che vene, sperando che sia migliore del primo. Ho letto e meditato sulle parole, sulle poesie che contiene, alcune di Tilde, altre di Alda Merini, altre ancora di poeti diversi. E mi sono chiesto: “Può essere così grande un amore?”. Se è amore vero, sì, può essere grande quanto il cielo, quanto il mare. “Con l’aiuto di Dio e la costante vicinanza e protezione di Gianni riuscirò ad aiutare tutti i miei cari ed anche me stessa. Grande messaggio che nasce nel cuore di una donna rimasta “sola e pensosa”, che ascolta la voce del marito e le sue parole: “Ama la vita, che è la cosa più preziosa che hai”. Matilde Maisto è una donna forte, e non vivrà soltanto di ricordi, come le ha suggerito Gianni. Ma non potrà non osservare che nella sua casa ci sono sedie vuote, vuota la poltrona preferita, dalla quale Gianni guardava il telegiornale, il divano su cui faceva il sonnellino… Ma quel posto a tavola, riservato a Gianni, è ancora occupato da lui.

 


Matilde Maisto - VIDEO


mercoledì 5 gennaio 2022

Attraverso i sogni e i ricordi

La Dogana

VOLI DA MILANO A MARE PICCOLO

SULLE LAMPARE E I PESCHERECCI

Nessuno lascia Taranto con leggerezza.

La sofferenza è affievolita dalla speranza

che ci sarà il giorno del ritorno. Per molti

quel giorno non arriva. Altri dimenticano

la culla, imparando il dialetto del luogo che

li accoglie.

 

Franco Presicci

Penso alla mia città e mi si affollano i ricordi: a volte pallidi, confusi; altre volte limpidi. Gli stabilimenti balneari “Nettuno”, “Lido Taranto”, “Lido Venere”, lambito dal fiume Tara, Praia a Mare, Lido Bruno, entrambi sulla strada per San Vito; quella spiaggia, deserta, isolata, senza arredi senza rotonde, dove un giorno, frugando fra le alghe, catturai due “suènne”, granchi dalle chele sottili e dal carapace peloso, sonnacchioso e lento. Mi vengono in mente personaggi, ambienti, situazioni, luoghi scomparsi, stravolti, irriconoscibili per ci rimpatria.

La chiesa del Sacro Cuore
Ecco “‘u Mèe”, che vendeva le caramelle, seduto su una sorta di banchetto da calzolaio davanti all’Istituto per periti industriali Righi; il carbonaio di via D’Alò Alfieri, che vendeva anche il petrolio, uno spilungone sempre in piedi addossato alla porta come una cariatide; il ragazzo che novellava sulle notti del padre trascorse in duelli rusticani, mentre tutti sapevano che “Turiddu” quelle notti le passava a letto a sognare; la signora Manuela, severa custode della figlia inquieta e pronta a scatenare un putiferio se intercettava uno sguardo ambiguo; la signora dalle fattezze poco armoniose, che quando usciva con la sua nidiata era accolta dalla cantilena “Brutos, Brutos”, inscenata da un manipolo di discoli che si ispiravano all’etichetta di una formazione musicale e comica famosa negli anni 50. Non dimentico la figura “d’u ‘mbaghiasègge’”, che spuntava con una bisaccia a tracolla piena di giunchi e attrezzi da lavoro. 

Nicola Giudetti
Non gridava, le massaie lo aspettavano stando al bancone, gli affidavano l’arredo, lui si sedeva su uno sgabello e impagliava il fondo e se necessario anche la spalliera .“Memìne”, che, facendo “’u munezzàre”, veniva evitato pur essendo un’ottima persona, passava, salutava e proseguiva verso la sua casupola nella campagna. E quel tale, sempre on il cappello sulle ventitrè che glorificava il figlio “ingegnere”, in verità solo fuoricorso, poi scoperto con il capo chino oltre il banco di un ufficio postale. Un giorno, vantandosi con mio zio Dionigi e criticando mio cugino che era ancora all’università, ottenne questa risposta: “Scusa, ma non hai patate da pelare a casa tua?”. In verità la risposta, tradotta in dialetto, aveva ben altro suono.

Angolo di Taranto vecchia
Scartabellando nella memoria ritrovo altri personaggi: il solito Marc Pòll, “’A vuè ‘a schedìne?, No’, allòr’ accàttete ‘U Panarijdde””, simpatico, pacioso, rughe profonde, coppola in testa, basso, sottile come un’anguilla, maratoneta (faceva chilometri al giorno per vendere la speranza di cambiar vita); e il giovanotto, magro e in equilibrio instabile, come una festuca (avevamo sempre timore che un colpo di vento lo buttasse a terra), botta e risposta faceva la somma, la sottrazione, la divisione, la moltiplicazione, la radice quadrata di numeri complicati. Sempre calmo, sereno, sorridente, buono. Abitava nel portone di fianco alla salumeria di “don” Peppe Marzo, che aveva un figlio chirurgo e nel cassetto una lunga lista di debitori con la tessera annonaria. Il mio carissimo amico Ruggero Ruggeri (non c’è più da tempo), all’epoca studente al quinto anno del liceo scientifico, che fece in bicicletta il tragitto Taranto Bari e al punto d’arrivo, multato perché scoperto sdraiato su una panchina, disse ai poliziotti che per lui era un piacere pagare data la cortesia con cui gli era stata contestata l’infrazione. Dopo il diploma si guadagnò il grado di tenente assegnato alla caserma Picca di Bari e lo vidi seduto sul sellino posteriore di una Lambretta con le maniche della giacca della divisa arrotolate. Tornò alla vita civile per disamore di quella militare e si laureò in economia e commercio.

La Concattedrale
Scrisse anche un “giallo” pubblicato da Garzanti. Il fratello Marcello diventò operatore culturale di alto livello e l’altro, Ninuccio, veterinario. Ed emerge immancabilmente il professore delle mdie, ottimo insegnante, ma incapace di pronunciare correttamente il mio nome: diceva Peticci, quando mi doveva interrogare; e nei rimproveri: “Petì’, tu no vu tudià, va’ fòre”; e quello di italiano e latino che indossava sempre gli stivali e ci insegnò, per fermare nella memoria i tempi di alcuni verbi che intervenivano per aiutarne altri nelle parti mancanti, ci ripeteva: “Dic duc, fac, ferre, mìette màne a le cultèlle e se no fòsse pe’ fio fis t’accedèsse a te e a ijsse”. Era simpatico e severo. Non come quello che alle elementari puniva le marachelle con colpi di bacchetta che coloravano le mani di rosso. Le storie si avvicendano e salta furi quella del ragazzo che, massacrato di botte dal padre per aver rotto il vetro di una finestra, stava accosciato sul marciapiede in terra battuta dietro l’angolo di casa, attorniato da un gruppetto di compagni di strada, che gli consigliavano di procurarsi un po’ di ceci, di buttarli nel pozzo di “mest Rònze” e di tornare a casa tranquillo. 

A destra il muraglione
I ceci non produssero l’effetto pronosticato. Alla mia età il passato riemerge, brutto o buono che sia stato. E mi fa sentire come un attore alla ribalta con il suggeritore acquartierato nella buca del teatro. Di teatro ne ho fatto. Ai Salesiani, di Taranto e di San Severo, alla parrocchia di San Francesco, a quello del Sacro Cuore ... Qualche applauso l’ho avuto, ma di quelli che non si risparmiano ai ragazzi, anche se sono pessimi dilettanti.”. A tratti rivedo il Teatro Comunale di San Severo affollato in ogni ordine di posti per la commedia “Mister Brandi”, del maestro La Pietra, messa in piedi con alcuni compagni del liceo classico “Matteo Tondi” e Tina De Marco delle Magistrali. Il pubblico, numeroso, contava anche elementi venuti, più che per assistere alla recita, per fischiare e fare confusione. Un po’ di teatro l’ho dunque fatto. Anche in tivù. Tanti anni fa in una trasmissione di un’antenna privata milanese (tra il pubblico moltissimi pugliesi) sulla chirurgia estetica domandai ad una delle esperte se si potesse fare qualcosa per rendermi bello. La risposta fu diplomaticamente deludente, ma stimolai mote risate con saporite battute di spirito. Una sera di Carnevale a Telereporter alcuni amici buontemponi mi organizzarono uno scherzo, presenti anche cantanti famosi, tra cui Achille Togliani e l’artista lirica Magda Olivero. Mi fecero chiamare al microfono dal conduttore, il maestro Siani, che mi domandò se mi piacessero le donne e fissando la mia pancia aggiunse che con quella sporgenza non avrei potuto avere molto successo. Gli risposi che secondo gli esperti proprio la pancia ha una carica di seduzione, tanto che io la coltivavo, pur non frequentando territori non consentiti. La signora Olivero mi regalò un “bravo” a microfono aperto.

Via D'Aquino
Stazione di Taranto
 

 

 

Sono saltato da Taranto a Milano. Anche i treni deragliano. E’ facile saltare di palo in frasca quando la memoria è fresca, a dispetto dell’età. Anche se i ricordi a volte giocano; li metti in fila e loro disertano, improvvisamente ricompaiono, tornano a nascondersi e si ripresentano, li riprendi, li rimetti al loro posto, mentre un altro cambia strada a sua volta. Baluginano come le luci dell’albero di Natale. 

Il Castello dal ponte girevole
E visti da lontano sono tutti belli. L’importante è non farsi prendere dalla tentazione di voler riacciuffare il tempo che se n’è andato. Nessuno può tornare indietro, se non con i ricordi. Non posso più tornare con le mie gambe al Mar Piccolo di oltre mezzo secolo fa o alla spiaggia dello stabilimento Santa Lucia, quella degli arsenalotti, dove mi stendevo a pancia in giù sulla battigia lasciandomi accarezzare dall’acqua o sulla rotonda sbirciando le onde attraverso gli spiragli del tavolato. L’ho cercato, quel luogo, nelle mie rimpatriate estive. Ma era stato sepolto dal cemento; e non ci sono più le persone con cui mi accompagnavo per fare il bagno. Tanti angoli di quella Taranto li rivedo su Facebook nelle fotografie o nelle cartoline d’epoca che postano Antonio De Florio, Carmen Adamo, Enrico Vetrò e tanti altri. Attraverso quelle immagini di via Anfiteatro, di piazza Maria Immacolata, via D’Aquino, piazza della Vittoria, la Sem, il cinema Rex che fu divorato dalle fiamme, il cinema Paisiello, il cinema Odeon, i tram che attraversavano il ponte di ferro, piazza Castello, Mar Piccolo… ritrovo un po’ la mia città di una volta. Quelle immagini sono spettacolari, ristoratrici, storiche. Vengono da raccolte private fatte da cacciatori della Taranto di un tempo perduto.





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