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martedì 30 gennaio 2024

Michele Annese è volato in cielo


IL MESSAGGERO DI CULTURA DI CRISPIANO HA SMESSO DI LAVORARE PER LA SUA CITTA'

 



Michele Annese
Colpito da una malattia gravissima, ha trascorso lunghi giorni di sofferenza. Alle telefonate rispondeva che stava bene, nella speranza di farcela contro la falce maledetta

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
Non potrò più chiamare al telefono Michele Annese, come facevo per annunciargli l’argomento dell’articolo che mi accingevo a scrivere. Non posso più dirgli “sto per arrivare a Martina, aspettami a Crispiano”; e lui non potrà più sottoporsi alle mie tiritere sul lavoro di notte al giornale o sulle arditezze con l’aerostato, anche se era anche lui giornalista, corrispondente de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e scrittore e appassionato delle masserie della sua terra e anima dell’Università del Tempo libero e del sapere, da lui fondata dopo essere uscito dalla Biblioteca e lasciato, per andare in pensione, la Comunità montana, di cui era Segretario Generale. Michele, fondatore e direttore di “Minerva news”, organizzatore di mille iniziative per la valorizzazione del territorio, sostenitore di tante altre che non lo avevano come autore, è stato chiamato per espletare altri compiti in un mondo di cui non si conosce niente. Lì, in alto, oltre la rotta di navigazione delle nuvole, laddove non partono messaggi, non si danno permessi per tornare sulla terra neppure momentaneamente, le porte sono sbarrate.
Silvia ha trovato la forza per telefonarmi e darmi la terribile notizia. E’ stata qualche secondo in silenzio, ma lo stesso squillo mi aveva gettato nell’angoscia, anche se da tempo ero in trepidazione. E si è aperto il canale che non so da dove porta le lacrime agli occhi. Ne ho versate tante. Ne sto versando mentre scrivo. Come dimenticare Michele? Come non volergli bene?
Silvia e Michele
La nostra amicizia nacque il giorno dei funerali a Noci di un altro grande amico, il questore Vito Plantone. Era il ‘92. “Vienimi a trovare a Crispano”, mi disse. “Voglio mostrarti la Biblioteca e farti conoscere le persone che lavorano con me”. Ci andai dopo un paio di mesi. E rimasi ammirato del lavoro che aveva fatto per renderla così ricca di volumi interessanti, così frequentata anche dagli adulti, anche da lavoratori. Della “C. Natale” aveva fatto una fucina, con corsi di ogni tipo. Vi invitava anche autori famosi, come Alberto Bevilacqua, e li faceva parlare davanti a centinaia di crispianesi, e non solo. Mi telefonava a Martina Franca: “Stasera che fai?”. “Mi gratto la testa”. “Te la gratti domani, stasera vieni da noi: abbiamo una sorpresa”. “Dimmela subito, se no mi viene l’ansia”. “Beh, c’è la sagra del peperoncino piccante, so che t’interessa”. “E come no. A stasera”. E insieme visitavamo gli “stand”, dialogavamo con il cestaio Antimo di Oria, che esponeva le sue opere, con Vito Santoro, grande fisarmonicista amico di entrambi e suo ammiratore, passeggiavamo, facevamo la mietitura di notizie, come i cibi sui quali i “fans” della spezie spargevano l’Habanero o chi lo aveva sostituiito nel… Guiness dei primati, applaudivamo Rocco Di Chiesa, medico erborista con negozio a Martina e presentatore per hobby… Tutti salutavano Michele: chi aveva un progetto da esporre, chi prometteva di andarlo a trovare, chi chiedeva un consiglio… Era un uomo popolare, non soltanto a Crispiano, anche a Martina, Mottola, a Gioia del Colle, dove aveva l’ufficio, e altrove.
Amava Crispiano, amava la sua gente, amava il suo lavoro. Quando uscì il suo voluminoso libro sulla Biblioteca, così ricco di notizie, di immagini, di ritagli di giornale, raccolti meticolosamente, per raccontare una storia, lo presentò nel suo paese, dove furono presenti tanti personaggi: l’onorevole Luciano Violante, Franco Punzi, presidente del Festival della Valle d’Itria, l’ex sindaco Scialpi (non so più chi altro, perché sto scrivendo veloce) e a Martina, dove in un’accogliente sala del municipio accorsero molte persone, interessate ed entusiaste. Le manifestazioni di Michele non andavano mai deserte. Se si svolgevano all’aperto si affollava tutto il corso che si avvia dalla chiesa della Madonna della Neve per arrivare fino alla vecchia Biblioteca, dove inizia la via per Martina. Una sera mi invitò alla masseria “Le Monache”, dove si festeggiava il gemellaggio con la Grecia. Mi sedetti ad un tavolo di fronte alla porta di ingresso di un enorme salone, forse già stalla, assieme all’ex segretario comunale Donato Plantone, fratello di Vito, Il titolare, un medico dell’ospedale Nord, mi fece visitare i vari locali della struttura, dettagliando il valore intrinseco di letti, comò e armadi e rimasi fermo a contemplare il grande camino, dove veniva cotta la carte da offrire agli ospiti.
Ricordo “le limme” (contenitori di terracotta decoranti all’interno, dove le donne una volta lavavano i panni) colmi di ciliege ferrovia e altri di mozzarelle; ricordo , il discorso di Michele, pacato, breve, efficace, e la gioia di tutti. Non se ne stava mai con le mani in mano. Sempre presente alle dotte conferenze di Silvia e di altri esperti all’Università del Sapere e del Tempo libero. Da Milano, attraverso il video, lo vedevo fare la spola fra il tavolo e l’ultima fila, mentre il figlio Gabriele, consigliere comunale, governava l’apparato elettronico. Ricordando e scrivendo mi si appanna la vista e lo immagino al di là della scrivania mentre mi regala una battuta di spirito.
Michele Annese tiene una conferenza
Michele ha seminato la cultura ovunque ce ne fosse bisogno. All’epoca della “sua” Biblioteca moltiplicava le iniziative: i libri nei condomini, i libri nelle vetrine dei negozi... Usciva un libro nuovo e la sua Biblioteca ce l’aveva già. Era il principe del libro. “Michele?” - mi disse un giorno un tale mentre a passo svelto andavo verso via Roma – se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Sai quanto ha fatto per Crispiano?, Ti voglio raccontare una storia. Tanti anni fa Michele aveva deciso di abbandonare Crispiano per andarsene al Nord, dove sicuramente avrebbe fatto una bella carriera in un giornale, in una casa editrice, dovunque. Un gruppo di concittadini si precipitò in stazione e lo tirò giù dal predellino. “Dove vai? Tu hai la Biblioteca da creare, se te ne vai ci lasci in braghe di tela. Chiedi, chiedi in giro, vedrai quante storie su Michele ti racconteranno”. Non avevo bisogno di girovagare per Crispiano, lo conoscevo bene, per me era un gigante. Non l’ho mai sentito vantarsi, nelle masserie entrava in punta di piedi, spesso lasciava parlare gli altri, la sua mano nelle manifestazioni altrui era evidente, ma lui sempre dietro il fondale del palcoscenico.
 Annese, De Lucretiis, Santoro
L’amore per Silvia si intuiva da come ne pronunciava il nome; quello per i figli lo esprimeva con poche parole sulla loro attività: “Gianpaolo viene mandato dal “Resto del Carlino” per il quale lavora nella redazione di Modena, ogni anno, a New York in occasione della mostra sulla ceramica…” “Marzia fa l’architetto a Milano e Antonella la psicologa…”. E così per gli altri due. Camminava piano, parlava a voce bassa, mai una frecciata contro questi o contro quello, il pettegolezzo non era cosa sua. Per gli altri soltanto elogi.
Mi accompagnò alla visita al presepe vivente nelle grotte basiliane; al presepe confezionato con i biscotti scaduti dagli “Amici da sempre”, mi portò a vedere il primo vivaio di lumache di Liuzzi, m’invitò al convegno organizzato dallo stesso Liuzzi sulle monacelle. Grazie a lui mi sono arricchito di esperienze. Una sera, durante la passeggiata alla sagra d’u diavulìcchie asquande” una signora accennò a un libro scritto dal parroco della Chiesa di San Gabriele, mi vide interessato e senza dirmi niente mandò un collaboratore a procurarlo. Il libro parlava della Crispiano com’era, quindi di alberi della cuccagna, di tradizioni, di giochi… Pane per i miei denti.
Michele e io
Adesso? Un po’ di tempo fa ha affidato la rivista al genero Donato e ha chiesto a me di non abbandonarla. Piuttosto mi faccio segare le gambe, già malandate. Tu per me sei un mito, Michele. Uno di quegli uomini che lasciano tracce indelebili, che restano impressi nella memoria collettiva. Chissà se a Crispiano ti dedicheranno una strada o qualcuno scriverà delle pagine su di te, sulla tua storia, sulle tue imprese realizzate per tenere alta la cultura nel tuo paese, e non solo. Mi hai dato tante notizie, compresa quella di Alda Merini e Michele Pierri in una villa a Crispiano. Un giorno mi raccontasti dei tarantini che a Crispiano venivano a villeggiare o vi si rifugiavano durante la guerra per le bombe che cadevano sulla Bimare, del treno di Martina che si fermava a Nasisi. E adesso, dove si ferma il tuo treno, amico mio?

mercoledì 24 gennaio 2024

I commissariati di polizia

 

FRAMMENTI DI VITA VISSUTA RIMANDATI DALLA MEMORIA

Episodi, situazioni, personaggi della
malavita, ambienti, storie, indagatori
intelligenti e coraggiosi, pronti a ogni
sacrificio pur di raggiungere lo scopo.
Il mondo della nera e i suoi cronisti.








Franco Presicci

Conquistai il quarto piano del “Giorno”, in via Fava 20, di fronte alla “Cassina de’Pomm” e al naviglio Martesana, da tempo ricoperto, nel quartiere di Greco, dopo aver seguito per tre anni i commissariati di polizia e qualche caserma dei carabinieri (una era in via Finzi, entrata da viale Monza). Non smetterò mai di ringraziare prima Enzo Magrì, proveniente dall’”Europeo”, settimanale della Rizzoli, dove fece ritorno, lasciando il posto al suo conterraneo Enzo Catania, un vulcano di idee che all’arrivo di una notizia di rilievo non ci pensava due volte a smontare una pagina per darle il maggiore respiro possibile. Li ringrazio per aver pensato a me per quel compito, molto delicato e faticoso, perché quegli avamposti erano serbatoi inesauribili per un cronista desideroso di fare mietiture abbondanti. Alle 11 del mattino prima Macrì e poi Catania aspettavano la mia prima telefonata, per essere sicuri che alcuni spazi erano già occupati.
Chiarelli, Beticelli, Presicci, Catania

Io giravo con la mia 127 quasi tutta la città, per andare dal Ticinese a San Siro, da Lambrate a Porta Genova e non ne uscivo mai con il carniere vuoto. Lì un ragazzo era improvvisamente scomparso e la sorella, che ne aveva cura dopo la scomparsa dei genitori, lo cercava disperatamente e dopo oltre un mese lo rivide ricomparire in casa di uno zio, che aveva fatto il partigiano. In viale Papiniano, dove il commissariato era diretto dal dott. D’Ambrosio, gli agenti prelevarono dal caseggiato in cui viveva un personaggio accusato di essere coinvolto in un movimento di eroina e organizzava festini fastidiosi per la quiete dei coinquilini. Al commissariato di Lambrate sorpresero un mercante di orologi falsi, depositati sotto la vasca da bagno, prendendoli all’occorrenza infilando la mano in un buco nascosto da una mattonella. In una casa di ringhiera di corso San Gottardo, a una settimana dalla sua morte fu trovato un uomo, grazie alla radio che gracchiava ininterrottamente di giorno e di notte. Dalla foto notai che era il parcheggiatore di corso Como, che qualche tempo prima mi aveva confidato di essere il fratellastro di Tina Pica, la nota e simpaticissima attrice che partecipò tra l’altro a diversi film con Vittorio De Sica. In via Novara un cane molto intelligente, se non ricordo male uno spinone italiano, una mattina, passeggiando libero con il padrone ai margini del parco di Trenno, scorse un portafoglio su una panchina e senza esitazione lo afferrò dirigendosi al commissariato. Il poliziotto, imperterrito, visto il malloppo che l’animale lasciava cadere dalla bocca sulla scrivania, interrogò con lo sguardo l’accompagnatore: “Evidentemente ha imitato me – la risposta - Anch’io tempo fa trovai un portamonete per terra e venni a consegnarlo a voi. Vi giuro che io non gli ho dato alcun comando: ha fatto tutto da sé”.
Armando Sales
Al Ticinese l’ispettore capo Armando Sales, un napoletano con grandi doti umane e di intelligenza, e un’ottima conoscenza del diritto penale, mi rifilò una notizia con la preghiera di non pubblicarla. Mi allettava, mi stuzzicava, ma promisi e mantenni la parola, convinto anch’io che se quella chicca finiva sui giornali sarebbe stato involontariamente un suggerimento per i ladri d’auto. Ne parlai con il capo degli autisti del giornale Monterosso, che facendo fare l’esperimento al meccanico di via Fava rimase di stucco di fronte al risultato. L’inventiva dei ladruncoli, nel gergo della mala milanese “lader de pan de mej”.
Poi un giorno Enzo Catania, “Etna” come lo chiamavo io dal nome del vulcano che ogni tanto sbuffa ed erutta, venne alla mia scrivania e con un sorriso seminascosto sotto la barba nerissima mi disse: “Da domani niente più commissariati: farai parte del pronto intervento con Piero Lotito, Giorgio Guaiti, Giovanni Basso. Sono sicuro che formerete una squadra molto affiatata ed efficiente”. Fu così fu. In redazione – va detto – c’erano ottimi colleghi come Nino Gorio (vinse il Premio cronisti di Senigaglia per uno “scoop” internazionale) e Giancarlo Rizza, oltre a Tanino Gadda.

Tanino Gadda

Nino Gorio
Cominciai ad occuparmi di criminalità organizzata, a studiare gli elementi che la componevano, le loro vite, le loro tecniche, gli ambienti che frequentavano. Qualcuno andai anche a cercarlo, sotto casa, in un bar, per intervistarlo. Riuscii ad avvicinare il boss più famoso della Lombardia, anzi di tutt’Italia. Dopo aver raggiunto un accordo con la mamma, gli parlai in tribunale, dove si svolgeva un processo a suo carico. Conoscevo il personaggio per aver letto pagine e pagine su di lui, compresa una storia pubblicata dal “Corriere d’Informazione” a firma di Ferruccio De Bortoli. La scovai nel fornitissimo archivio de “L’Unità”, nella vecchia sede di viale Fulvio Testi. Formai una raccolta di ritagli di giornali (comprendevano mafia, camorra e ‘ndrangheta, “stidda”) così ampia che trovavo difficoltà a fare entrare l’auto nel box. Ma la consultavo poco: una volta letti, rimanevano incollati nella memoria. Un pomeriggio venne l’amico e collega di “Repubblica” Piero Colaprico, più giovane di me, ma già ben collaudato, e rimase stupito da tante buste, anche tre o quattro o cinque sullo stesso argomento. La voce si sparse, e quando tanti anni dopo fu allestita una grande mostra sull’attività della polizia un questore mi telefonò per chiedermi di prestargli quel tesoro. Non potetti accontentarlo: avevo già fatto piazza pulita qualche mese dopo la pensione. Un po’ di quell’archivio era incollato nella mia testa. Ricordavo bene per esempio l’operazione del primo gennaio del 1986, in cui la Squadra mobile sequestrò 100 chili di eroina in un abbaino di viale Espinasse, arrestando due persone.
Seguivo la cronaca senza risparmiarmi. Non mi pesava essere buttato giù dal letto alle 2 del mattino per un omicidio (uno in viale Suzzani: due turchi trovati incaprettati nel bagagliaio di una Peugeot).
Giancarlo Rizza

Quando poi Guaiti lasciò la nera per la scuola, Lotito per la cultura, Basso per la cucina, rimasi solo ma non mi persi d’animo. Nutrito di passione, entusiasmo, curiosità, attaccamento al mestiere, non mi risparmiavo. Se alla fine del mio turno di notte, catturavo la notizia di una sparatoria, chiamavo il fotografo, di solito Lorenzo Pizzamiglio o Giovanni dell’Abate o Gaetano Montingelli, sempre pronti a correre, c’infilavano nell’auto guidata da un autista e via. Gli autisti, Gramegna, Ricciardi, Camarda, Napolitano, Gusmaroli e altri erano talmente bravi e così conoscitori delle vie di Milano che in un baleno scaricavano il “nerista” sul posto. Ne ho visti, di cadaveri, di giorno e di notte: uomini di notevole spessore criminale e gregari, sorpresi da “killer” spietati nei ristoranti, nelle piazze, sulla strada, in un bar, ai margini di una festa. Qualche volta le scene le rivedo, limpide come davanti a uno schermo cinematografico o alla televisione.
A volte mi viene in mente la strage del Lorenteggio, il 18 novembre dell’81: mi ero appena seduto a tavola, quando mi chiamò Gigi Gervasutti, il vice capocronista, pregandomi di raggiungere al più presto il teatro del fatto di sangue. Conoscevo tre delle vittime, avendole viste al mercato della droga più bazzicato della Lombardia. Nascosto dietro una serranda, per tre o quattr’ore assistetti a tutto il movimento. Chi aveva ordinato quella strage, erede dell’impero delle bische, fu colto di sorpresa dalla polizia nella sua abitazione il mattino alle 3 del 28 settembre di tre anni dopo, in seguito all’arresto a Torino di un elemento della sua stessa banda.
Milano allora era spesso teatro di fatti di sangue: uno al giorno, a volte anche tre. Esplodevano conflitti a fuoco a San Siro, al Parco Lambro, in via Selvanesco. Qui, all’alba del 29 giugno dell’84, in un campo di granturco vennero uccisi a colpi di pistola tre persone. Per “Il Giorno” sul posto si precipitò Piero Lotito, scrivendo poi un meraviglioso articolo. Era il giorno del suo compleanno. E già era alla Cultura.
Come si sa, attraversavamo anche gli anni del terrorismo ed eravamo impegnati anche a recuperare i volantini con cui le Br rivendicavano le loro imprese.
Antonio Pagnozzi

Chissà più quante volte il cronista del turno di notte, e anche di giorno, riceveva una telefonata che gli indicava un cestino portarifiuti in via Imbonati o in via Melchiorre Gioia vicino alla chiesa di Greco che fronteggia la “Cassina de’ Pomm” o nel mezzanino di via Palestro della metropolitana…. Ho visto i corpi del giudice Galli alla Statale e quelli dei tre poliziotti del Ticinese, il mattino dell’8 gennaio ‘80 (Cestari, Santoro, Tatulli), con i quali ero stato a cena qualche sera prima in un ristorante di piazza Sant’Eustorgio con agenti e dirigenti del commissariato Ticinese. Erano stati uccisi da vili e implacabili raffiche di mitra mentre controllavano una scuola. Non dimentico le tracce del terrore sui loro volti. Ricordo le lacrime di Antonio Pagnozzi, allora capo della Squadra mobile e uomo di grande umanità. Difficile non essere assaliti dai ricordi mentre sono seduto sulla poltrona a leggere un libro di Carofiglio o “Sequestro alla milanese”, di Piero Colaprico, ripresentato alla Feltrinelli con interventi musicali.
I ricordi sono autoritari: non ti chiedono se possono ripresentarsi. S’impongono. E a volte fa anche piacere riceverli, vederli raccontare in modo limpido come acqua incontaminata brani della nostra vita.

mercoledì 17 gennaio 2024

Quando avevano i pantaloncini corti


GIOCAVAMO AL CALCIO CON LA PALLA DI PEZZA



Il nostro campo era la strada: quattro
sassi per fare la porta e poi il fischio
dell’arbitro, che non aveva mai visto
una partita vera. Ci divertivamo anche
“c’u spezzìedde”, ma la nostra passione
più grande era “’a levòrie”: due palle
d’acciaio, le palette e “’a scìgghie”. 

 

 

 

 
 
 
 
 

Franco Presicci


Un mio caro amico milanese, curioso e intelligente, spesso m’interroga sulla mia adolescenza. In particolare è interessato a conoscere i giochi maggiormente praticati. Gli rispondo sempre volentieri, anche perché ho un bagaglio mnemonico abbastanza pieno. E se qualche volta il contenitore fatica ad aprirsi, ho il mio pronto soccorso negli amici Antonio De Florio, comandante di Foto Taranto com’era su Facebook e studioso della città; e di Cataldo Sferra, poeta, scrittore e anche lui esploratore della bimare di una volta. A Cataldo ricorro per qualche immagine, che lui pesca nel suo archivio personale; e in questa occasione ha trovato quelle su “’a levòrie”.
'a levòrie

La livoria, mamma quante volte ci ho giocato sul marciapiede in terra battuta, più largo che lungo, davanti a casa, con la nonna che occhieggiava dalla finestra, sferruzzando. Io la guardavo con la coda dell’occhio mentre posizionavamo “’a scìgghie”, cerchio di ferro saldato a un chiodo, impugnavamo ognuno una paletta di legno e a turno lanciavamo la palla, d’acciaio, verso “‘a scìgghie“ con l’intento di attraversarla, per guadagnare un punto. Se le palle venivano a trovarsi in una situazione ideale per far realizzare due punti, chi doveva tirare, dopo aver proclamato “cape, ce madène jè fatte, pàlle, palètte e levòrie”, lanciava la propria palla contro quella avversaria e se riusciva a farle superare la linea, “’a menàte”, da cui il gioco era partito, era per lui un trionfo. La “platea” che si era formata attorno a noi applaudiva.

Questo passatempo era molto diffuso, anche nella città vecchia, dove tra le barche e le reti, si divertivano anche i grandi, come testimoniano alcune foto di Nicola Giudetti, titolare di un piccolo museo a Taranto vecchia, pittore e poeta, custode della Taranto di allora. Un’icona.
Sferra mostra come si giocava alla livoria
Io ho vissuto i tempi del dopoguerra, quella dei portafogli vuoti, che non ci consentivano di procurarci un pallone; e se avevamo voglia di giocare a calcio, confezionavamo una “palla di pezza”, con stracci legati da giri di spago, improvvisavamo le porte con quattro sassi e via pedate facendo chiasso quando si spiazzava il portiere. Il campo lo montavamo proprio di fronte a casa mia, in via Nettuno, quartiere Tre Carrare, separato dalla campagna da due vie.

Un giorno da un tale acquartierato con il suo banchetto all’angolo tra via Dalò Alfieri e via Giovan Giovine, tassandoci, comperammo una quindicina si caramelle, sperando di trovarvi il biglietto vincente (un pallone), reclamizzato dal vaso di vetro. Fummo fortunati e andammo subito al “monte delle vacche”, tra via Leonida, viale Virgilio e piazza Marconi, area su cui oggi sorge l’ospedale Santissima Annunziata, e facemmo tante partite da spellare la sfera, al punto da renderla inservibile.

A volte giocavamo “’o spezzìdde”: un bastoncino doveva colpire un legnetto smussato alle estremità facendolo saltare e subito senza che toccasse terra colpirlo per farlo andare il più lontano possibile. Che gioia “’u currùchele”: una specie di trottola che tirando uno spago girava su un ferro appuntito. Facevamo dei gruppi e chi faceva vorticare di più il proprio aveva la soddisfazione ... di assestare “azzugnàte” sulla testa di quello dei rivali, provocando buchi, che, sommati, rendevano “’u currùchele” una specie di cimelio. Il piacere più intenso lo provavamo quando, ancora in movimento, attraverso le dita indice e medio, lo facevamo saltare sul palmo della mano, dove continuava sino a quando si afflosciava.
'u spezziedde

Chi preferiva ‘u turnìedde” tracciava un cerchio con il gessetto sul pavimento e da circa tre metri di distanza lanciava soldini o bottoni, che se non superavano la linea al primo colpo dovevano essere spinte con il dito medio: chi centrava prendeva tutto. Ho consumato tanto gesso, per tracciare quel cerchio in casa della nonna, che odiava la “livoria” per la mia mania di realizzare i “capi” intaccando i piedi dell’armadio e del comò.
Non esistevano i telefonini e se li avessero inventati a quei tempi non avremmo potuto averli, quindi niente giochi con quegli apparecchi. In casa avevamo la radio, che la domenica pomeriggio trasmetteva da Bari “La caravella”, trasmissione spassosa con protagonisti Colìne e Mariètte, che incontrerò a Milano in un ristorante dopo una mostra di Filippo Alto nella galleria di Renzo Cortina, in piazza Cavour. La televisione era di là da venire, e quando arrivò se la potevano permettere in pochi. La domenica, se volevamo vedere il Taranto, dovevamo aspettare fuori dell’ingresso gli ultimi dieci minuti della partita, perchè allora ci facevano entrare gratis, se la squadra di casa aveva segnato.

Il mio giovane amico mi chiede se io abbia mai partecipato a “Patrune e sòtte”. No, perché per me non era un gioco, ma un supplizio. Solo una volta mi capitò di sbilluciare da un varco per vedere qualche passaggio: eletti i due conduttori del gioco, appunto “’u patrùne” e “’u sòtte”, il secondo chiese al primo: “Ce dìce, facìme bèvere ddò’ dìscete de mìere a Cellùzze?”; e ‘u patrùne”, con l’atteggiamento di chi si crede superiore, rispose: “Cellùzze non è affidabile e ha diverse colpe da scontare. Jè petteddàre, stangachiàzze, mbàme, ‘mberatòre. Perciò facìme bèvere a Memìne, ca mèrete”.
'u currùchele
Mimino, che probabilmente non era uno stinco di santo, ma riabilitato dal despota, era quello destinato all’ubriacatura. I conduttori del gioco irrompevano nell’intimità della vittima, affermando cose che lo stesso interessato non conosceva. Dopo tanto tempo lessi un libro di Roger Vailland, “La Legge”, da cui nel ‘58 fu tratto un film di Jules Dassin, con Gina Lollobrigida, Marcello Mastroianni, Giancarlo Tedeschi, Vittorio Caprioli ed altri, film non esaltante, secondo il critico cinematografico Morando Morandini. Nella finzione cinematografica, nel palleggio tra “patrùne” e “sòtte” viene tritata la frequentazione di una bellissima donna, per cui sbavano molti uomini del paese, con un giovane aitante. E’ la moglie di una persona molto in vista, ma questo non basta a risparmiarla dalla lotta tra i forti contro i deboli.

Uno svago dei miei coetanei colpiva le persone anziane, soprattutto nelle giornate d’inverno: lasciavano per terra un portafoglio vuoto legato a un filo; quando il vegliardo, andando verso il tabacchino di don Damiano per comperare il sigaro, vedeva il malloppo si piegava con fatica per prenderlo, le “vastase”, nascosti in un portone, tiravano e il malcapitato lo seguiva fino a quando non si accorgeva del truppo e inveiva contro le sganasciate degli… attori.
'a ròzzele


Qualche volta mi dilettavo anche da solo con a le “cìnghe pètre”: si spargevano a terra quei piccoli sassi, se ne lanciava uno in alto e mentre quello ricadeva bisognava prenderlo in mano lanciando il secondo contemporaneamente, e così via. Gioco semplice, basato sull’abilità e sulla prontezza di riflessi. Tentai di coinvolgere un tale che abitava nel mio stesso stabile, nonostante avesse più anni di me. Fu tentato di accettare, ma si tirò indietro, perché non si sentiva sicuro di farcela. Si fece avanti Vincenzo, altro vicinante, che ho poi perso di vista. Era un po’ fumantino e non tollerava i fallimenti.

Le ragazzine si divertivano con la campana: dopo aver disegnato a terra con il gesso dei quadretti a mo’ di mosaico da saltare con una gamba sola, lo facevano canterellando. I maschietti non avevano alcuna riserva ad imitarle, qualche volta. Un giorno decisi di partecipare a un gioco che poteva essere pericoloso. Non ricordo come si chiamasse, e non è il caso che io faccia squillare il telefono di Antonio De Florio, che può essere impegnato in uno dei suoi coinvolgenti video con la recitazione della bravissima Amalia Ressa. Cerco di ricreare la situazione: praticavamo un fossetto nel terreno, vi deponevano un pezzetto di carburo, coprivano con un barattolo fornito di un buco, avvicinavamo un fiammifero e il contenitore partiva come un razzo raggiungendo l’altezza di diversi metri. Un pomeriggio il salto e il rumore frantumò la conversazione di un gruppetto di signore sedute sotto la finestra della tranquilla famiglia Schirano, spaventandolo.
'u currùchele

Che dire della sassaiola organizzata e mai eseguita tra ragazzi di vie vicine. Ogni giorno veniva rimandata, uno dei ragazzi ammucchiò delle pietre, che rimasero come testimonianza della nostra ingenuità. Meglio “’u cavallucce” (non giuro che questo fosse il nome): il salto sulla schiena piegata di un compagno: si prendeva la ricorsa e via su quella specie di sella, come fanno certi “cow-boy” nei film di Jhon Wayne, Nessuno si faceva male.

Credo che i miei ricordi siano limpidi come l’acqua di un fiume non contaminato. E proprio un fiume, per me sacro, il Galeso ospitava le mie passeggiate con due o tre compagni di scuola. Disubbidivo a mia mamma, che voleva sempre essere certa che non mi allontanassi. Ero attirato da questo corso d’acqua che scoprirò essere stato decantato da Orazio, Virgilio e tanti poeti più recenti... Facevo anche piccole passeggiate attorno all’isolato di casa con il mio amico Pierino Lincesso, che non ho mai più incontrato. Ho rivisto invece Marino Ceci, cinque anni meno di me, che abitava in via Nettuno, due numeri più avanti rispetto al mio. Marino ama la musica, suona il pianoforte, ha diretto vari complessi ed è stato un ottimo educatore, tanto che a Martina gli vogliono bene anche quelli che non hanno insegnato avendolo come direttore.

mercoledì 10 gennaio 2024

Un romanzo giallo avvincente

 

 IL GENERALE NICOLO’ SERGIO GEBBIA SCRITTORE DALLA PENNA NOBILE

Il generale Nicolò Sergio Gebbia
 La storia si svolge tra invenzione e realtà, protagonista un colonnello dei carabinieri, oggi generale a riposo. Lavorò a Milano anni fa, alla Legione di via Moscova, conducendo indagini famose, rimaste nella storia della città.

 

 

 

 

Franco Presicci

 

La sorpresa è arrivata una settimana prima di Natale. Sfogliando Facebook, tra le “persone che potresti conoscere”, ho visto il volto del generale Nicolò Sergio Gebbia. L’ho conosciuto tantissimi anni fa, quando per lavoro, tutte le mattine dopo le 11, con i miei colleghi della concorrenza, andavo in via Moscova, alla Legione dei carabinieri, per mietere notizie.
Cappello dei carabinieri
E lì incontravamo Sergio Gebbia, allora capitano, che quando il serbatoio era pieno saziava la nostra avidità. Era cortese, amichevole, amante della battuta di spirito, colto, abilissimo investigatore, gentiluomo. Molto misurato nel somministrare i risultati delle operazioni notizie, attento a non dire più di quanto le indagini consentissero. Alto, pelo rossiccio, robusto, a volte si divertiva dicendo e non dicendo. Quando era in programma una conferenza stampa, era l’appuntato Pino Lato, oggi maresciallo, a telefonare in redazione: “Sono Lato della Legione dei carabinieri, l’appuntamento è per le 17. E allora ci procuravamo carta e penna, perché voleva dire che il colpo fatto dai carabinieri era sostanzioso e quindi dovevamo annotare parecchio. E infatti una volta era stata neutralizzata un’organizzazione coinvolta in un colossale traffico di sostanze stupefacenti, un’altra una banda di rapinatori, un’altra ancora avevano spedito al “gabbio” gli autori di un sequestro di persona o abilissimi fabbricanti di monete false. La curiosità ci spingeva a snocciolare domande, magari inopportune perché sfioravano angoli ancora da esaminare. Ma il garbo degli investigatori non veniva mai meno. Qualcuno, a conferenza-stampa terminata, accerchiava Gebbia, ma non aveva capito che il capitano era inflessibile. E con un sorriso appena accennato respingeva i tentativi. Poi ci invitava a bere un caffè nel bar della caserma, dall’altra parte della piazza d’armi e lì facevamo due chiacchiere prima di andarci a sedere a tavola. Ricordi lontani, che si sono appisolati nel ‘95, quando anche per me è scattata l’ora della pensione. Ma alcuni di quei ricordi li ha rispolverati la ricomparsa, dopo quasi quarant’anni, di Sergio Gebbia nella veste di generale e di affascinante scrittore. Già, il generale scrive libri gialli, che generosamente mi ha spedito (sette). Ho avuto un piacere nell’aprire il pacco: un regalo che veniva da Vicenza, dove Gebbia, nato a Napoli nel ‘50, risiede.


Ho aperto subito il primo: “Accadde a Malta”, e mi sono trovato di fronte, oltre che ad un “detective” di grandissimo spessore (dote già ampiamente conosciuta), “un James Bond coi fiocchi”, come lo definisce Giulietto Chiesa nella presentazione. Diego Fusaro ha intitolato il suo intervento “Giallo e filosofia: un nesso inconfessabile”. Già le prime pagine mi hanno catturato e coinvolto. Ed è esplosa la voglia di andare oltre. L’ho fatto, con il fiato sospeso. Il tempo passava e io ero sempre più immerso nella lettura, sedotto dalle ipotesi che si susseguono, si accavallano, si moltiplicano, prendono una via, poi un’altra, portano l’investigatore in altri Paesi, toccano organismi spionistici internazionali… Non c’è impegno che ti lasci deporre il libro (questo e gli altri). L’autore ti tiene vincolato per ore e quando proprio non puoi non mettere il segnalibro lo fai a malincuore, con la voglia di tornare subito alla storia. “Accadde a Malta” si snoda con un linguaggio agile, scorrevole, chiaro, brillante, a volte ironico. “Non voglio guastare la lettura di questo romanzo – ha scritto Chiesa -- riempiendo le righe scritte con l’inchiostro simpatico dal generale Gebbia. Dirò soltanto che ‘Accadde a Malta’ è al tempo stesso un ‘divertissement’ e un racconto di ciò che il Mediterraneo ha vissuto nell’ultimo decennio…” Che cosa è accaduto, in questa vicenda? E’ il 12 dicembre del 2017, quando il capitano di vascello Costance Mary Luise Blanchard si fa registrare alla reception del “Preluna Hotel” di Malta e si fa dare la chiave della “suite” 503 “Luna di Miele”. Entra, osserva dal balcone il bellissimo panorama che si trova di fronte, mentre da dietro un mucchio di lenzuola poste su un carrello si sporge una mano armata di un pugnale e la colpisce più volte. Scoprirà poco dopo il corpo il portiere di notte dell’albergo Pino Camilleri. Arrivano gli investigatori, il “maitre” constata che la prenotazione è stata fatta due mesi prima dai signori Blanchard e confermata poche ore prima. Ma il signor Blanchard, l’accompagnatore, dov’è? Non si sa nulla. 
Milano, Corso Venezia
La prenotazione è per due persone. Un mistero. Le indagini spettano all’ispettore capo Piero Branchitta, che brancola nel buio; e chiede aiuto a un asso delle indagini, il colonnello dei carabinieri Corrado Lancia in forza al servizio segreto militare presso l’ambasciata militare di Malta (al secolo Sergio Gebbia, che “durante le battute di pesca sulla barchetta di Camilleri racconta delle sue inchieste più importanti, svolte quando a Milano aveva gestito la “Duomo Connection” e successivamente a Palermo, dove si era trovato sul punto di entrare nel covo di Bernardo Provenzano, arrestandolo, e non potette per colpa di un imprevisto. Lancia non sa che pesci prendere. La prima ipotesi: una lite con il marito. Ma si rende subito conto che è un’ipotesi troppo semplice. Dubbi su dubbi scuotono la mente di Barchitta e di Lancia. E si domandano perché gli Stati Uniti non collaborano e pur non dicendo apertamente il motivo non soddisfano la richiesta di documenti che  possono accendere qualche lume. La Cia? La mafia? Lancia non riesce a prendere sonno, gli si presentano vecchi ricordi, come quello del sequestro di un traffico di droga gestito da un boss. Per carità, anche Cosa Nostra? Rintracciano a Cleveland l’ex marito di Connie (la Blanchard), l’avvocato Scott Mason, niente a che vedere con il personaggio della televisione. Il legale non tarda a prendere l’aereo e viene a Malta. Camilleri : “Dottor Mason, ho l’onore di introdurla al colonnello principe Corrado Lancia di Brolo. Mason racconta la storia con Connie e piange.
Spuntano altre ipotesi: Lancia, ripensando ad altri episodi, pensa ad un’idea che può legare l’omicidio al dittatore libico Gheddafi. Barchitta si sforza di rintracciare qualche altro da cui partire. Lancia chiede a Mason, che ama ancora la moglie, se abbia una possibilità di risalire al signor Blanchard. Poi Mason prega il fratello di mandargli da Cleveland dei documenti che forse potrebbero aiutare le indagini e il giorno dopo il suo ufficio viene messo sottosopra da sconosciuti, che evidentemente vogliono impossessarsi delle carte richieste da Malta, ma non li trovano: prudenzialmente sono stati portati da un’altra parte. Con un percorso complicato vengono portati personalmente a destinazione da una segretaria. Ritorna l’ombra della Cia: La Blanchard sapeva qualcosa che aveva minacciato di rendere pubblica? Un ginepraio. Riemergono altri fatti, come quello di Sigonella, della nave da crociera Achille Lauro, l’uccisione di Leon Klinghoffer da parte di terroristi palestinesi. Intanto Mason ha raccontato la sua storia con Connie, commuovendosi; in albergo legge alcune lettere spedite da Connie, in cui lei fa sapere di avere avuto a suo tempo un bambino e tante altre circostanze. Non posso, non devo svelare tutto il libro, che è davvero avvincente: Lancia vi semina briciole di cultura e una conoscenza profonda della nobiltà, di personaggi, di luoghi, di situazioni, di episodi, di amori vecchi e nuovi in alcune casate. Non c’è una pagina di troppo, una che annoi il lettore. In una conferenza-stampa richiesta da Connie in una lettera all’ex marito, l’avvocato di Cleveland, una giornalista esprime il suo dissenso e Peter Gomez giunto da Milano con Piero Colaprico, prende il microfono e dice che l’attendibilità di Corrado Lancia è nota e che se la collega non crede a ciò che è stato detto può andare a quel paese.

Colaprico al Teatro Gerolamo

Gomez è un cronista serio e coraggioso, dice pane al pane e vino al vino. Ed è autore di libri d’inchiesta. Quando Lancia ha convocato i cronisti italiani, da lui conosciuti durante il suo precedente lavoro nel capoluogo lombardo non ha esitato. Anche l’avvocato Mason esprime la sua fiducia in Corrado, investigatore esemplare, generale di brigata dei carabinieri a riposo, che ha diretto per molti posti delicati operativi e di comando in Italia e all’estero, dove tra l’altro è stato Capo di Stato Maggiore del contingente italiano in Iraq. A realizzare questa ed altre opere si è anche divertito; e il risultato è davanti agli occhi di chi legge. Un romanzo con l’architettura solida, senza orpelli, senza luoghi comuni, senza enfasi. Alla figura di Corrado Lancia a un certo punto si accompagna quella di Ottoline Morrell, sovrintendente capo di Scotland Yard, duchessa, conosciuta da Corrado Lancia a Firenze, in casa Frescobaldi trent’anni prima. Un romanziere con il sangue blu e con la penna agile e appassionante.

mercoledì 3 gennaio 2024

Dolce & Gabbana ad Alberobello





GLI STILISTI IN VIA MONTE PERTICA NEI TRULLI DI MARIA MATARRESE





Maria Matarrese e Filippo Lasorella

Dopo quella di Alberto II di Monaco,
visita delle celebrità della moda ai
fischietti e alle telerie storiche. Folla,
applausi, curiosità vicino alla chiesa
con il tetto a cappuccio.














Franco Presicci
 
Dopo il principe di Monaco e il suo seguito tra il popolo dei fischietti in terracotta di Maria Matarrese, ad Alberobello, ecco Dolce & Gabbana. Una visita inattesa e graditissima dalla padrona di casa, che come al solito è stata all’altezza della situazione: ha conversato, scherzato, accompagnato gli ospiti tra i suoi 8000 e più esemplari, che tiene ben ordinati sugli scaffali.
Scaffale di fischietti
Le personalità continuano dunque a varcare la soglia dei trulli di Maria, abitati da tutti questi personaggi dalla rilevante intensità espressiva, tra cui l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’atto di cucire la bandiera italiana, che a suo tempo qualcuno voleva dare alle fiamme; Silvio Berlusconi, con il suo sorriso accattivante; Antonio Di Pietro, nella sua toga di magistrato agguerrito, Maurizio Costanzo, sornione, con la sua cartella in mano; Aldo Fabrizi, Vittorio De Sica, colti nei loro atteggiamenti abituali; e vescovi, parroci di campagna rubicondi immersi nella vasca da bagno con il tricorno in testa; miti del calcio; e una fauna interminabile, dal gallo canterino, solenne, dominatore del pollaio, orgoglioso della sua cresta rossa, dal passo superbo, cadenzato, simbolo del risveglio e della resurrezione. E’ tale la varietà delle figure, vestite di colori elementari senza sfumature e dotati di divertente vena satirica, che la curiosità è incontenibile. Ecco ancora il netturbino con la sua scopa; la famiglia che va in vacanza con l’auto ingombra dentro e fuori e il guidatore quasi attaccato al volante come avesse paura di guidare.
Carabinieri
E’ la fantasia di Vito Moccia, che ha vinto diverse volte la Sagra nazionale del fischietto in terracotta di Rutigliano, città a un quarto d’ora da Bari; di Filippo Lasorella, che ha le mani d’oro in pasta chissà da quanti anni… Per la cronaca, la Sagra si svolge il 17 gennaio, occasione della festa di Sant’Antonio Abate, che ha in programma la benedizione degli animali, il corteo dei cavalli e la comparsa in alcune strade di bancarelle “pattugliate” da carabinieri riprodotti con il pennacchio e non e con il “salterio” sul sedere; da vigili urbani, attorniati da tante altre immagini spassose, come il medico con lo stetoscopio nel taschino, il farmacista dietro il bancone, il prete, il sindaco, il maresciallo dell’Arma baffuto e con le mani che puntellano i fianchi nell’atto di imporre un ordine: le autorità del paese da sempre prese per i fondelli garbatamente, con simpatia, con arguzia, levità che sposa il sacro con il profano.

I partecipanti, alcuni dei quali impreziosiscono il mondo di Maria Matarrese e Claudia Caporaso, in via Monte Pertica 9, ad Alberobello, meritano di essere citati tutti, e lo faremmo con vivo piacere, se le pagine dei giornali fossero di gomma. Non lo sono e noi per primi ce ne rammarichiamo.
Via di Alberobello

Quando si entra in questi bellissimi trulli di Maria e Claudia, così ricchi di manufatti bizzarri, lo spirito si rinfranca, per l’allegria che essi sprigionano. I turisti e anche i nostri connazionali provenienti da ogni parte, da Milano, da Firenze, da Vicenza, da Canicattì…, li guardano con evidente interesse, li godono e li lodano, interrogano Maria con il desiderio di scoprire la loro origine, il modo in cui il figulo trasfigura la terra secondo la sua inventiva, ottenendo risultati che qua e là hanno valore di sculture.

Me lo immagino Vito Moccia mentre modella l’argilla con abilità e la fantasia fertile, e inforna l‘insieme di terra, aria, acqua, fuoco, ricavando il fischietto, lo strumento che - scrisse Leonardo Mancino, coltissimo dirigente scolastico a Macerata e poeta - con il quale si esprime la voglia di dare soffio vitale ai propri sogni. Lo rivedo, il mio amico Gianni, zufolare sotto l’ulivo nella sua campagna di Martina, quando non ha di fronte uno dei suoi libri preferiti.
Opera di Vito Moccia

Anch’io ho la passione per questi giocattoli che hanno tanti appassionati per il loro colore e per la forma buffa, nati da una mano capace di estrarre il meglio dalla creta. Spesso artisti sono quelli che creano nelle botteghe di Caltagirone, Bassano del Grappa, Grottaglie, Rutigliano, Cutrofiano. A Noci il mio amico Vito Plantone, legatissimo al paese e orgoglioso del suo centro storico, lindo, ricco di fiori, ordinato, architetture affascinanti, scoprì una piccola fucina di fischietti. Mi invitò ad entrare, scelse un pagliaccio suonatore di mandolino e me lo regalò, sapendomi patito di quegli oggetti. E fu contento quando lo vide nella mia vetrinetta ben fornita sistemata quasi all’ingresso di casa. A Vito avevo parlato spesso del “santuario” di Maria Matarrese e di Claudia Caporaso. E un giorno, avendolo ospite a Martina Franca, mi chiese di farci un salto. Maria fu più cerimoniosa del solito e per manifestare il suo piacere nel vederci, donò a lui un Topolino e a me un Paperone presi da una parete che li teneva appesi.
Fischietti


Non so più quante volte, nelle mie rimpatriate in Valle d’Itria, sono andato da Maria Matarrese, una signora cortese, ospitale, spontanea, intelligente, comunicativa Ci sono andato sempre volentieri non soltanto per ammirare questi racconti dai colori squillanti, che un tempo venivano regalati come offerte d’amore e simboli di fertilità dal giovane alla fanciulla del cuore, ma anche per ascoltare dalla voce di Maria la sua storia personale e quella della sua bottega, che esiste da 65 anni, per cui ha ricevuto dalla Regione Puglia il riconoscimento di attività d’arte.

Ne passano tanti da qui, di manufatti provenienti prevalentemente dai maggiori e migliori ceramisti di Rutigliano. Maria li conosce uno per uno e a richiesta snocciola la loro bravura con competenza e sentimento. Qualche esemplare lo ha persino portato in Giappone, dove ha diversi amici ed estimatori. Periodici del Sol Levante l’hanno intervistata, corredando l’articolo con fotografie e al termine della lunga scalinata che conduce a lei è arrivata anche una televisione di quel Paese. Le ho chiesto: “Maria com’è nata questa tua amicizia con i nipponici?”. La mia telefonata l’ha raggiunta in Valle d’Aosta e non ha potuto dilungarsi. “Cominciarono a venire alla spicciolata, chiedendo di vedere le mie telerie artistiche; poi ne vennero altre a gruppi; poi il via vai diventò sempre più folto e passando il tempo venni invitata a visitare il Paese del Sol Levante. Vi Incontrai un sindaco, che mi regalò il kimono appartenuto alla madre, io a lui un bellissimo fischietto, ignorando che in quella terra i regali non si ricambiano. Un giorno fuori del mio negozio facemmo una festa con i giapponesi, io indossai il kimono, fra la curiosità dei turisti e dei miei concittadini”.
Al centro prete con tricorno

“Ne hai conosciuti, di personaggi”. “Già. Tra questi anche il colonnello Morici, che faceva le previsioni meteorologiche in televisione. Recentemente, come sai, Alberto II di Monaco, che ho accompagnato persino sui tetti dei miei trulli per consentirgli uno sguardo più ampio di Alberobello. Anche a lui ho raccontato la millenaria tradizione dei fischietti; e lui mi ha ascoltata con molta attenzione”. A Maria piace raccontare: la creatività dei figuli, la loro capacità di modellare l’argilla, imprimendole l’aspetto stravagante, ispirato dalla osservazione della realtà quotidiana trasfigurata dall’ironia mai offensiva, mai obliqua. Il fischietto è un elemento ludico, ma anche un soprammobile. Artefici come Vito Moccia, ripeto, sono veri maestri dell’arte della terracotta. Nel fischietto, per Leonardo Mancino, c’è storia, folklore, tradizioni popolari, cultura, poesia e altre cose.

Non si possono descrivere le passioni – ha detto una volta qualcuno - si possono solo vivere. Io cominciai a vivere la mia quando una sera il pittore Filippo Alto, in una delle tante riunioni della nostra compagnia, oggi sciolta per motivi naturali, spacchettò un involucro, rivelando un elemento della banda dei carabinieri. “Te lo regalo”. Aveva acquistato l’intera orchestra e quello era un doppione, che non aveva notato al momento dell’acquistato. Io ne avevo comperato uno quando avevo 15 anni su una bancarella durante una festa in onore di San Cataldo. Era frutto di un artigianato approssimativo, ciononostante, lo conservo ancora come ricordo di un’età scomparsa. Filippo mi disse che se ne volevo saperne di più, potevo andare in agosto a Ostuni, dove, dal ’78, per iniziativa di Peppino Carella, si svolgeva la Mostra-mercato del fischietto, nella quale convogliavano artisti di ogni parte d’Italia. Fu lì che vidi per la prima le opere di Filippo Lasorella, di Noè Macrì di Grottaglie, di Angela Gelli di Lecce…, rimanendo colpito dai vari soggetti, compreso un Giovanni Spadolini, molto somigliante al vero, calato nella divisa dell’Arma.
Sibilo della creta
C’era anche Nilde Iotti, se non ricordo male anche lei con le mostrine: un grande quadro-affresco di mitologie magiche, come lo definirebbe Mancino, un racconto saporoso e lungo. Mi viene in mente un brillante articolo di Michele Campione, altro innamorato dei fischietti in terracotta, che tenne anche una dotta conferenza sull’argomento. E mi viene in mente “Il garofano rosso” di Elio Vittorini, dove uno zio regala al nipote uno zufolo in terracotta, raffigurante una Madonna a cavallo. Mi viene ancora in mente la mezza giornata che passai a Rutigliano con Peppino Cito, ceramista rispettabile, persona famosa a Martina Franca. Aveva anche voglia di visitare il museo archeologico dei fischietti (comprende tra l’altro un gallo del IV secolo avanti Cristo), oltre alla marea di sibili in creta realizzati con maestria, grazie alla fantasia degli autori. Adesso Maria fa un po’ fatica a procurarseli. Il mondo dei ceramisti si spopola. Probabilmente per l’età.