Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 27 aprile 2022

Il ricordo di una grande serata

 

Giovanni Borghi a destra
GRAZIE AL BEL LIBRO DI GIANNI SPARTA’ SU UN PERSONAGGIO GENIALE: BORGHI


Giovanni Borghi era un vulcano e aveva

come Milano il cuore in mano. 

Dal niente creò un colosso imprenditoriale.

Nato nel ‘10 all’Isola Garibaldi, la stessa

culla di Berlusconi e Confalonieri, fondò tra

l’altro una squadra di ciclisti, tutti campioni


 

FRANCO PRESICCI 

Quanti giovani conoscono la vita e le opere di Giovanni Borghi, il “re dei frigoriferi", zio di Fedele Confalonieri, amico d’infanzia di Silvio Berlusconi?. Tutti e tre, futuri assi dell’Isola “Garibaldi”, un quartiere poco distante dalla Stazione Centrale e dal nuovo palazzone della Regione.

Gianni Spartà con il suo cane
Le imprese di quel monumento che è stato Giovanni Borghi, come gli altri tre legatissimo al suo quartiere, furono rinverdite nella primavera del 2000 con la presentazione del libro: "Il signor Ignis”, di Gianni Spartà, allora caporedattore del quotidiano storico “La Prealpina” di Varese, nella sala Montanelli del Circolo della Stampa, a Milano. Tra i relatori, Fedele Confalonieri, che ebbe un pacato, civile battibecco, per amor di patria, con il giornalista di Rai 3 Andrea Bosco, “colpevole” di aver accennato a briciole di malavita che vivacchiava ai primi del ‘900 all’Isola Garibaldi, dove lui e gli altri due personaggi erano nati. Detto a volo di uccello, è vero che l’Isola era popolata da tanti operai e artigiani onesti e laboriosi, che nelle ore libere andavano a giocare nelle varie bocciofile del quartiere, ma oltre a questi c’erano anche tagliaborse e altri tipi di furfanti, tanto che la gente aveva paura di trovarsi in strada quando calava la  sera. In un altro bellissimo libro, uscito pochi giorni fa, “B” (che sta per Berlusconi”), di Vittorio Testa, già valente inviato speciale di “Repubblica”, vicedirettore di Canale 5 e grande conoscitore di musica, l’ex presidente del Consiglio ammette, sfiorando l’argomento, che nella zona allignavano ladruncoli e ricettatori.
 
Casa di ringhiera dell'Isola
Passando subito a ricordi personali: le domeniche iniziate con la Messa celebrata dal don Eugenio al patronato Sant’Antonio in via Sebenica, “all’Isola dove sono nato e abitavo in via Volturno”. Dopo il rito andava a comperare le paste nella pasticceria che faceva le zeppole più buone di Milano e poi correva a casa ad aiutare la mamma, Rosella, ad apparecchiare la tavola. Ricorda anche le partite giocate con il fratello Paolo e con Confalonieri nel campetto sotto casa. Sempre la domenica Giovanni Borghi, per arrotondare la paga di garzone, suonava il piano al cinema Pastrengo, accompagnando con motivi dell’epoca la proiezione dei film rigorosamente muti e in bianco e nero. Il piano lo suonava ad orecchio e rivolgendosi a Confalonieri, che con quello strumento si era diplomato al Conservatorio G. Verdi di Milano, diceva.: “Se io avessi le tue mani saria un signore anche senza la Ignis”.
 
Gianni Spartà
Tornando alla serata dedicata al libro di Spartà, non mancò la presenza di un altro grande personaggio, il professor Francesco Ogliari, autore, se non sbaglio, di oltre 300 libri e ideatore del Museo europeo dei trasporti di Ranco. Quella sera il salotto buono del Circolo della Stampa in corso Venezia era affollatissimo, in prima fila membri della famiglia Borghi, attenti ed emozionati: il “commendatore el custa”, detto così perché uso a minacciare di acquistare tutto ciò che gli venisse negato, qualunque fosse il prezzo, fu rievocato sotto ogni aspetto, umano e imprenditoriale. Gianni Spartà, il “commendator el custa” lo aveva riproposto usando pennelli e colori in questo suo libro: “un’ottima idea, un contributo doveroso alla conoscenza di un personaggio di grande valore umano e professionale”: parole dello stesso Silvio Berlusconi. Per scriverlo, Gianni Spartà, giornalista scrupoloso e talentuoso, aveva interpellato carte, registri, interrogato la segretaria del “cumenda”, anziani dell’Isola (dove passò una notte al numero 14 l’”Eroe dei Due Mondi”), stuzzicando la loro memoria. Quella sera al Circolo della Stampa qualcuno tirò in ballo una pagina che un altro grande Giuann, il Brera, principe della carta stampata, aveva cucito nel settembre del ‘75 per Borghi su “Il Giorno” di Italo Pietra: “…in verità ha lavorato e creato da gigante, la sua è stata una voce di prim’ordine nel prodigioso rilancio industriale lombardo e italiano”. Giovanni Borghi era l’asso dell’imprenditoria italiana che portò nelle nostre case il frigorifero come prodotto di massa, che s’impose all’Europa e al mondo, fra l’altro meritando la copertina di un’autorevole rivista specializzata, “Officiel du fr”, che lo indicava come "l’artefice della rivoluzione”.
 
Corridori al Vigorelli
Il pubblico, molto interessato all’argomento faceva domande all’elegante firma della “Prealpina”, che integrava, aggiungendo elementi sul carattere del “cumenda”, che 1961 aveva fabbricato il milionesimo frigorifero, record che andarono a solennizzare in un ristorante di Arona: una bisboccia memorabile, come sempre, quando c’era il Borghi, che aveva terminato gli studi all’età di dieci anni per entrare nella bottega del padre ad imparare il mestiere. Teneva a dire di avere inciso un 45 giri con pezzi celebri, e dimostrava di non essere una schiappa cantando seduto al pianoforte “’O sole mio” in napoletano. Con il lavoro, la tenacia, le intuizioni geniali Borghi fece cose mirabolanti: la sua “Ignis” con satelliti in decine di nazioni, dava filo da torcere ai potenti tedeschi, mandava in bestia i francesi, sconfiggendo il “made in Usa” nel settore degli elettrodomestici. Nei suoi stabilimenti ricevette capi di stato, tra cui Giuseppe Saragat, ministri, delegazioni estere. La sua genialità era nota ovunque, tanto che a Bari, dove diventerà una sorta di cittadino onorario, nel ’66, gli dettero la “laurea honoris causa” in ingegneria elettrotecnica. Non si stupì e non assunse atteggiamenti trionfalistici. Aveva modi bruschi e andava sempre per le spicce. 
 
Borghi al centro
Ma aveva un gran cuore. In un rigidissimo autunno dei primi anni Sessanta, raccogliendo un sos dei naturalisti, mandò il suo aereo personale in giro per l’Europa a salvare migliaia di rondini intirizzite. Ma fu anche capace di urlare al direttore de “L’Equipe”, autorevole giornale sportivo francese, che non voleva gli sponsor al Tour, che si sarebbe comperato il giornale: “Se la custa ‘sta baracca? La cumpri mi”, ringhiò con la sua voce cavernosa. Forte la sua passione per lo sport e per la bici. Per diffondere i suoi prodotti nella sua squadra di corridori reclutò Bobet, Poblet, Maspes. Sempre il meglio e il primo. Fu uno dei primi ad investire nel Sud. Una leggenda: arruolando Miguel Poblet, gli fece mettere la firma su una scatola di sigarette per sancire l’accordo e il campione dirà: “Per Giovanni Borghi basta la parola”. Grandissimo personaggio. Per Camilla Cederna era il Gran sultano delle esaltanti manifestazioni al Vigorelli, che lui aveva rianimato. “Un uomo di attraente simpatia”, per Giulio Andreotti. “Il simbolo della più felice stagione dell’imprenditoria italiana”, per Gianni Agnelli. “Lo zio Giovanni? Un Berlusconi senza laurea", per Fedele Confalonieri. “Ancora un po’ che restavo in casa sua – scrisse nella primavera del ’64 su ‘Il Corriere della Sera’ Indro Montanelli, altro principe della penna non certo incline alle carezze – ne uscivo indossando come i suoi atleti una maglia con la scritta ‘Ignis”. Questi ed altri episodi emergevano dal libro, edito da Mondadori, di Gianni Spartà, diffondendosi tra il pubblico che debordava nelle sale adiacenti. Il giornalista scrittore, con acume, pazienza, impegno da certosino, era riuscito a pescare tutti i Borghi sparsi qua e là, partendo da lontano: oltre ai Borghi maestri tessitori a Varano, in provincia di Varese, e un Borghi, sindacalista anarchico a Bologna, un Borghi letterato romano, autore di studi di Dante e Petrarca, e addirittura un Borghi operaio vissuto all’epoca in cui a Milano troneggiava Napoleone. Mille i commenti del pubblico e tutti esaltavano le doti del volume, ricco di dettagli. “Esauriente, scrupolosa, avvincente biografia di un uomo che rimarrà nella storia. Circa duecento pagine in cui si sgomitola in uno stile arguto, brillante, espressivo, il meraviglioso racconto che ha come protagonista un uomo dotato dei “geni della grandezza” (Brera). Cominciando da poco in cinque “oeucc de vedrina” il Borghi riuscì a creare un’ammiraglia. I primi passi li mosse nella natia Isola Garibaldi. Poi Milano fu oltraggiata, ridotta in cenere dalla guerra. Danneggiati piazza San Fedele, Palazzo Marino, la Scala, la Galleria… Brutale il bombardamento di una scuola a Gorla il 20 ottobre ’44, con morti e feriti tra i bambini. I Borghi si trasferirono a Comerio, dove cominciò la grande avventura di un uomo che non si fermava davanti a niente. Ci metteva un attimo per volare in ogni parte del mondo per trovare la soluzione ad un problema, ottenendo vittorie sia nel campo dei frigoriferi sia nel campo dello sport. “Deve essersi divertito a scrivere questa biografia, Gianni Spartà, un cavallo di razza che fa onore alla genia dei terroni e al giornalismo” (non ricordo chi l’ha scritto, ma condivido). Non è il solo libro che porti la firma di Spartà, che annovera anche libri di storia industriale, biografie di aziende famose e non solo. Nato a Messina, vive a Varese, ama la bici. Lo conobbi quando aveva 19 anni ad Arco di Trento. Prese la laurea in Giurisprudenza, superò gli esami di procuratore legale, ma era già stato risucchiato dal giornalismo e ha percorso quella strada sino in fondo. Amante della Puglia e di Martina Franca, dove lo incontrai una ventina di anni fa. Nella stessa città del Festival della Valle d’Itria, tre o quattro anni or sono, nella Rotonda, che ospitò i nomi più famosi e amati dello spettacolo, a cominciare da Domenico Modugno, incontrai Memo Remigi, che mi disse: “Sei amico di Gianni Spartà, allora sei amico io”. Lo avevo intervistato per il quotidiano “L’Italia” nel ’60 in Galleria del Corso, allora quartier generale delle case discografiche. Ma quella serata al Circolo della Stampa con Gianni Spartà, Francesco Ogliari, Fedele Confalonieri e Andrea Bosco fu un’altra cosa.






mercoledì 20 aprile 2022

Dalla carta stampata al teatro

Piero Colaprico
PIERO COLAPRICO, FIRMA DI

“REPUBBLICA” NOMINATO DIRETTORE

DEL “GEROLAMO”.

Nel ’59 l’incarico fu assegnato a Carletto

Colombo, animatore della Compagnia del

Teatro Stabile Milanese, traduttore, regista,

giornalista. Nel ’58 il teatro fu rimodernato

per volere di Paolo Grassi e aperto ad attori,

cantanti, tra cui Dario Fo e Milly. Per decenni

quella ribalta è stata dominata da un grande:

Piero Mazzarella.


Franco Presicci 

Quando Piero Colaprico nel ’76 scese dal treno, in quel ventre di balena che è la Centrale, si trovò un po’ disorientato.

A Putignano, la sua città di origine. lo scalo è quasi un modellino, con pochi binari e un paio di vagoni parcheggiati su rotaie con i respingenti, in attesa di essere accodati a un convoglio. Era capitato anche a me, e a tantissimi altri, osservare la tettoia della stazione di Milano, alta quanto un grattacielo e con tutta quella gente in attesa di un parente in arrivo o di una partenza, e rimanerne smarrito.

Poi, fuori della Galleria delle Carrozze, di fronte al palazzone della Pirelli, mi sentìi una formica ed esitai ad attraversare la strada per la quantità delle cilindrate e della loro velocità a 70 all’ora, e forse di più. Piero Colaprico, al quale dedico queste note, si è laureato in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano, e quando decise di fermarsi nel capoluogo lombardo con la sua valigia e un ottimo bagaglio di cultura, oltre a una gran voglia di fare il giornalista, senza immaginare che dopo aver fatto il rodaggio con un allenatore di tutto rispetto, Guido Passalacqua, nella redazione milanese di “Repubblica”, avrebbe fatto una carriera brillante fino a diventare direttore del giornale a Milano, per poi conquistare la plancia di un teatro storico come il “Gerolamo”, in piazza Beccaria. Ne ha fatta dunque di strada, e di fatica anche, mangiando panini e polvere o addirittura digiunando per tanti anni, sempre dietro alle notizie con un fiuto da cane da tartufi. Un cronista di razza, come si dice; innamorato del mestiere, che a Putignano vagheggiava mentre era chino sui romanzi russi, americani e francesi sulla terza pagina de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Quante volte ci siamo incontrati sul luogo di una rapina clamorosa fatta da una banda agguerrita e bene equipaggiata o di uno spietato regolamento di conti, in una strada o in un’osteria. Era un osservatore scrupoloso, attento ai dettagli, a catturare ciò che doveva rimanere riservato per non compromettere le indagini, a individuare il testimone giusto, indifferente ai vaniloqui di chi si credeva erede di Tommaso Besozzi, pur non riuscendo mai a riempire il carniere. Il giorno dopo leggevo il pezzo di Piero e pensavo: “E’ anche una bella penna, questo ragazzo”.

 

Adesso, lasciata “Repubblica”, concordando una collaborazione, lo ritrovo direttore del Teatro Gerolamo, incarico che avevano tenuto, dal ’59 al ’78, Carletto Colombo, e dal ’79 Umberto Simonetta. Colombo era animatore della Compagnia del teatro stabile dialettale milanese, di cui ha scritto la storia, autore, traduttore, regista, direttore de “L’Avanti”, consigliere alla Scala, amico e assistente di Paolo Grassi. Umberto Simonetta compose testi di canzoni per Giorgio Gaber (per esempio, “La ballata del Cerutti”); e da uno dei suoi romanzi, “I viaggiatori della sera”, fu ricavato un film di Ugo Tognazzi. Al “Gerolamo” portò in scena “Mi voleva Strehler”, interpretata da Maurizio Micheli.

 

Colaprico ha scritto una decina di volumi, i primi tre con Piero Valpreda. Per me è un piacere enorme sapere Piero su quella poltrona prestigiosa”, in quel luogo che un tempo era definito “il piccolo salotto di Milano”. Il suo palcoscenico fu per lungo tempo regno delle marionette, comprese quelle dei Colla; e nel 1815 per la prima volta comparve, nell’opera “Il mostro turchino”, il personaggio di Gerolamo (da cui l’attuale nome del teatro), un burattino con i fili tirati dall’abilissimo Fiando, che ogni sera riscuoteva un caloroso successo. I gestori del teatro sollecitavano l’autorizzazione a far salire alla ribalta attori in carne ed ossa in commedie e opere buffe, ma s’imbatterono in oppositori alleati e ostinati e il progetto s’impantanò in una foresta di dinieghi, da cui uscirono nel 1816 con una commedia giocosa interpretata da cantanti e danzatori.

Colaprico con il prof. Lenoci al Piccolo di Milano

Piero Mazzarella e Franco Presicci

Il“Gerolamo” è un gioiellino. ”il teatro della nostra infanzia”, dice Alberto Lorenzi in “Milano, un secolo”, e accenna a Piero Mazzarella, che al “Gerolamo” portò Edoardo Ferravilla, il più grande comico del teatro meneghino. Andava a vederlo persino la mala, che seguiva i suoi spettacoli in devoto silenzio e con attenzione rapita. Al “Gerolamo” Mazzarella rinverdì quelle atmosfere, interpretando “Tecoppa”, che il pubblico adorava. Anche Lorenzi applaudì quella figura (che Cletto Arrighi bollò come “teppista indurito nel vizio e nell’infingardaggine”) nella versione di Mazarella. Il teatro lo trovava ancora più bello, brillanti di vernice tutti gli stucchi, le lunghe trombe incrociate…”. In tempi meno lontani il “Gerolamo” ha ospitato artisti celebri: Juliètte Grèco, Dario Fo, I Gufi, Edoardo De Filippo, Milly, oltre, ripeto, a Piero Mazzarella, che, nato, a Vercelli nel’28, intraprese la via del teatro dialettale, interpretando fra tanti altri il personaggio del brumista “Peppon” nel “Nost Milan” di Bertolazzi, rendendolo famosissimo. Di Mazzarella ho tanti ricordi. Uno in particolare. Appena giunto a Milano, nel settembre del ’62, fui reclutato come “free-lance” al quotidiano “L’Italia”, attuale “Avvenire”, e Graziano Motta, trentenne capo degli Spettacoli, mi mandò al “Gerolamo” ad assistere alla commedia “El zio matt”, con Mazzarella. 

Seduto in platea, il mio cuore andava come lo stantuffo di un locomotore a vapore: non capivo una parola ed ero terrorizzato al pensiero del pezzo che dovevo buttar giù rientrando al giornale, in piazza Duca d’Aosta. Mi venne un’idea: saltai sul palcoscenico, bussai al camerino del mattatore e confessai da terrone verace il peccato di non conoscere il dialetto di quello zio fuori di testa. “Tranquillo”, la risposta, e fui illuminato. Il giorno successivo Mazzarella mi telefonò per congratularsi e a poco a poco diventammo amici. Anche Carletto Colombo porto ben sistemato nella memoria. Mi chiese di confezionare la rivista “Tempo di Regioni” e ce la misi tutta. Feci una buona mietitura di testi e di foto e per la rubrica di cucina telefonai a Enzo Jannacci, che accettò a condizione che potesse confezionarla a modo suo. Titolo “DDT” (dadi, datteri e tacchi). Il mio amico e collega Edgardo Bertulli mi dette una mano e Colombo fu soddisfatto. A proposito, avevo conosciuto Jannacci a Salice Terme, dove si svolgeva un premio importante, che era stato assegnato anche ad Alberto Sordi e ad Aldo Fabrizi. Alla cerimonia assistevano anche Paolo Panelli e Bice Valori, che mi concesse un ballo. Accipicchia, ho perso Colaprico. Mi capita di deragliare, gli chiedo scusa.

E’ stato chiamato dunque a guidare il “Gerolamo”, dove era andato in scena un suo spettacolo: “Qui, città di M”, e aveva avuto una valanga di consensi. Poi era toccato ad un altro suo testo, “Una valigia più ligera”, con canzoni in milanese, comprendenti anche quelle della malandra. Per chi non lo sapesse, la “ligera” era una conventicola di giovani che ai primi del ‘900 sfioravano o sconfinavano nel codice penale per reati come il borseggio e avevano sempre alle calcagna un cacciatore instancabile, una sorta di Joe Petrosino soprannominato “el Dondina” per il modo di camminare ondeggiante che agli stessi appartenenti alla banda ispirò una canzone burlesca, che intonavano appena lo vedevano spuntare. Da cronista ottimamente collaudato, Piero Colaprico la conosce bene, la “ligera” (come conosce la teppa, la scopola, i “locc”, consorterie che sono venute prima o dopo, frequentando la taverna del Bernini in via dei Guast) al punto da portarla in palcoscenico. Un palcoscenico che ora gestisce lui con un programma più che interessante. Ma come mai – gli ho domandato – hai fatto questo salto, dalla carta stampata a quel trono? Presto detto. La direttrice generale del “Gerolamo”, Chitose Asano, una signora giapponese che ha rinnovato il teatro, gli aveva detto che una volta scaduto il suo tempo lavorativo, gli avrebbe affidato questo impegno.

Giunto il momento, si sono risentiti e un’ipotesi di collaborare insieme è diventata una promessa mantenuta da parte di Asano e da onorare da parte di Colaprico. Un’attrice ha poi detto a Piero di essere sicura che lui era la persona adatta per questa mansione: aveva lavorato con Umberto Simonetta, che non veniva dal teatro, ma dal giornalismo e dai libri. “Perciò non si preoccupi troppo”, lasciandolo felice come una Pasqua. Al “Gerolamo”, di Simonetta, era andato in scena “Mi voleva Strehler”, con Maurizio Micheli. Ora Colaprico sta studiando un calendario che comprenda un po’ di più Milano, sperando di offrire agli spettatori anche un testo con protagonista il cardinale Carlo Maria Martini. Il signor direttore è una fucina di idee, ha una grande esperienza, una profonda cultura, una solida volontà: è, come si dice, un uomo del fare, uno di poche parole e costruttivo, pacato, riflessivo e rispettoso. Nella nostra conversazione non abbiamo parlato soltanto del “Gerolamo”, ma anche delle sue emozioni. Anche di quella che prova aprendo le finestre del teatro che danno su piazza Fontana: un’emozione indicibile. E Putignano, la sua città d’origine? Io sono legato a Taranto come le cozze alla corda; lui indissolubilmente a Putignano, che fu messapica e romana e per lunghissimi anni possedimento dei Cavalieri di Malta. Non è uno di quei pugliesi che qui imparano il dialetto locale, si spacciano per lombardi e dimenticano la terra degli avi (vizio denunciato anche da Giuseppe Giacovazzo nel libro “Puglia, il tuo cuore”). Lui ogni anno torna nella sua Putignano, dove tra l’altro si svolge un carnevale mirabolante, noto e apprezzato dappertutto. Se la gode, la sua città, riattraversa le vie dell’anima e della memoria, e va a fare con la famiglia i bagni a Torrecanne o a Ostuni (dominio di ulivi saraceni), dove fino a qualche anno fa si svolgeva la Sagra dei fischietti in terracotta, che troneggiano ad Alberobello nella bottega di Maria Matarrese, di fronte alla chiesa detta a trullo. Eh, la Puglia! Quanti terroni di talento vero ha mandato nella casa del Porta?







mercoledì 13 aprile 2022

Nato durante la clausura per la pandemia

Base rendering
IL ROMANZO POPOLARE DI UNA COMUNITA’
BOLLATE, A NORD-OVEST DI MILANO


L’autore del testo è Paolo Nizzola, giornalista televisivo; 

fotografo Giordano Minora; 

grafico Filippo Bordegoni. 

Vi si raccontano vari episodi vissuti e anche fatti, luoghi, personaggi di una volta e del presente, che hanno fatto la storia del paese. 

Un viaggio entusiasmante.

Franco Presicci 

Una volta mi piaceva andare per cascine. Per allontanarmi per qualche ora dal traffico frenetico di Milano e per conoscere nuovi luoghi, nuove atmosfere, nuove architetture, nuovi paesaggi. Spesso incontravo gente disposta a raccontare un po’ di storia della struttura, dell’attività svolta o ancora in atto, i lavoratori impiegati come il cavallante, il bozzolone, il camparo d’acqua, i cambiamenti avvenuti nel tempo e tante altre cose. In una cascina nei pressi di Segrate, il titolare mi descrisse la fatica dall’alba al tramonto e la sua capacità di novantenne ancora con la forza e la volontà di guidare il trattore.

Coscritti del 1918 con Gino Bartali

Lo svago era un’occasione non quotidiana: una partita a bocce dopo la cena preparata dalla moglie e una festa per celebrare l’onomastico del patrono, un matrimonio, un battesimo, con suoni e balli nel cortile, canti e bevute. La vita era grama: il freddo s’insinuava nelle ossa e bisognava vincerlo con un indumento in più. Mi affezionai cascine e soffrivo quando m’imbattevo in una piena di ferite, senza più anima o in una abbattuta dalla ruspa. La cascina mi ricordava la masseria delle mie parti, e il paese che ne contiene addirittura cento, una più bella dell’altra. Il paese è Crispiano, 13 mila abitanti, dove i tarantini andavano l’estate per godersi l’aria pulita e ristoratrice; e durante la guerra per paura delle bombe. A Crispiano c’è anche una villa che ricorda il soggiorno di Alda Merini e Michele Pierri, traumatologo e poeta. 

Michele Annese, già valentissimo direttore della biblioteca (di cui ha scritto la storia in un volume prezioso), ispiratore del volume “Le cento masserie di Crispiano”, ricco di foto, schede, testimonianze, interventi autorevoli; fautore del gemellaggio del suo paese con la Grecia, m’istruì su questi sacrari della civiltà contadina, invitandomi quando ospitavano un avvenimento affollato di mestieri ormai scomparsi, con finti briganti, per ricordare quelli veri che all’epoca che fu assalivano i luoghi, li depredavano, come in Lombardia gli avventizi che conoscendo bene gli ambienti, avendovi lavorato, gonfiavano le bande criminali dedite alle scorribande. 

Pranzo sul prato
La cascina dunque mi avvince. A suo tempo ho visitato quelle sparse lungo il Naviglio Grande, come la Guardia di Sotto. Alla consorella Guardia di Sopra, che la fronteggia, potetti solo lanciare uno sguardo attraverso uno spiraglio del portone serrato. Ne ho visitate tante altre, con la macchina fotografica pronta per lo scatto. Sono stato anche nei cortili di Milano, al Ticinese, a corso San Gottardo, all’Isola Garibaldi..., incaricato di scriverne da “Il Milanese”, settimanale fondato da Arnoldo Mondadori, poi chiuso, riaperto sotto la direzione di Angelo Ronzoni, già stimatissimo vicedirettore de “Il Giorno”, e sepolto dopo un paio di anni. Mi seducono le case di ringhiera, mi piace sentir parlare della vita che vi si conduceva, caratterizzata soprattutto dalla solidarietà. E mi piacciono certi agglomerati nei dintorni di Milano: Cernusco sul Naviglio, Cassina de’ Pecchi, Bollate...

Paolo Nizzola

Figuratevi la gioia quando ho saputo che il carissimo collega e amico Paolo Nizzola, caporedattore di una importante antenna televisiva, e il mago dell’obiettivo fotografico Giordano Minora, nell’osteria “4 Leoni” di Castellazzo, avevano presentato un loro libro da leggere e da vedere: “Il romanzo popolare di una comunità, Bollate”, al quale hanno partecipato con entusiasmo anche i cittadini. Il libro non ha alcuna pretesa storiografica - avverte subito Nizzola... - “vuole rappresentare una narrazione legata all’evolversi del costume e della società cittadina, trasformatasi in modo repentino da paese agricolo in città metropolitana...”. Il nome di Bollate deriverebbe da un vocabolo celtico, scelto in virtù degli alberi di betulle concentrati nella zona, che, a detta dell’autore, comprende tra l’altro la cascina del Sole, con le sue cinque corti sette-ottocentesche, di cui due restaurate dopo la prima guerra mondiale, e qualche casetta unifamiliare. In questo contesto operavano tre sarti, due per uomo e uno per donna, che stentavano ad andare avanti, perché la gente era povera e poteva farsi un vestito a Natale o a Pasqua o in altre circostanze importanti . I luoghi in cui i sarti confezionavano gli abiti più che botteghe erano salotti – informa ancora Nizzola - perché, come nei saloni dei barbieri sin dai tempi antichi i compaesani si riunivano per passare un po’ di tempo a discutere dei problemi di ogni giorno e anche per qualche pettegolezzo...

Pranzo sotto il pergolato
La lettura di queste pagine è piacevolissima, per il contenuto denso di particolari interessanti e per lo stile lineare, fresco, scorrevole, accurato, senza fronzoli. L’autore porta il lettore quasi per mano in un viaggio riposante nel passato e nel presente della città a nord-ovest di Milano, città che vanta anche un carcere modello. Da Bollate e da qualche altro paese, prima dell’alba, arrivavano a Milano, ”el lunedì d’l’offizi”, parecchi sacerdoti per celebrare la messa. Le donne lavavano i panni in un ruscello che veniva giù da Baranzate di Bollate. Quante notizie, quante curiosità, quanti dettagli di vita vissuta. Paolo Nizzola, che ho avuto il piacere di conoscere quando lavorava a Telereporter, è un giornalista di lungo corso, attento, colto e scrupoloso. L’idea di questo volume ne è la riprova. Un libro ricco anche di splendide immagini evocative in bianco e nero, che colgono momenti di lavoro e conviviali in allegria, con il piacere dello stare insieme. Il covid, killer spietato, vile e inarrestabile, ha confermato la sofferenza della clausura, dell’impossibilità di bere un caffè o una bibita al bar, di incontrare la gente. “Il piacere dei banchetti – per Cicerone citato nel libro – “si deve misurare non dalla squisitezza delle portate, ma dalla compagnia degli amici e dai loro discorsi”.

Donne con i piatti per la tavola

Ed ecco le donne della “Curtum di Murum” in una foto del ’57 con piatti di cibi da portare in tavola. Segue una bella sequenza da cinema muto: pranzi o cene a base di trippa e cene all’aperto o al chiuso, magari in un’osteria affollata, gente che conversa, gente che scherza, gente seduta a un tavolo con fiaschi di vino al centro, sotto un pergolato o in un’osteria, gente che brinda. Persone, sempre persone in strada, nelle corti, in campagna. Una cascina ripresa da Mauro Ghioni; la corte di Verga; una sposa a piedi dalla cascina alla chiesa; lavoranti intenti a seminare le cipolle; clienti del Circolo cooperativo Solese in via Coni Zugna, demolito negli anni 40: una tavolata in strada lunga 50 metri, una via trasformata in un grande ristorante; un pranzo sui prati di Castellazzo; contadini che a mezzogiorno mangiano i panini; un banchetto in onore di un libro sulla storia della bici, presenti Gianni Rivera, l’”abatino” per Gianni Brera, e il campione della due ruote Antonio Maspes. La gente ama stare a tavola, raccontare e raccontarsi, tra abbondanti fiaschi di nettare.

Giordano Minora

Quanti personaggi, in queste pagine, descritti con saggezza da Nizzola e fotografati meravigliosamente da Giordano Minora. C’è anche lui, tra le immagini d’epoca: il calzolaio al deschetto con la scarpa fra le mani: figura ormai scomparsa (tanti anni fa intervistai l’ultimo di Milano, che serviva tra gli altri Walter Molino). Il volume – con prefazione di Gabriele Moroni e grafica di Filippo Bordegoni - riporta anche una selezione delle storie pubblicate nel blog online Bollate Oggi, nato durante il periodo più devastante della pandemia e diventato un libro “a grande richiesta allo scopo di disarmare il nostro territorio e tramandare la memoria attraverso testimonianze dirette di chi ha vissuto avvenimenti o situazioni oppure ricordando eventi, luoghi e personaggi che sono entrati nella storia cittadina. Da qui Romanzo Popolare, ossia una comunità che si racconta”. Il volume dunque è stato scritto durante la clausura, su esortazione dei cittadini di Bollate. Avevano letto le storie del territorio che Nizzola e compagni andavano pubblicando e hanno espresso il desiderio che fossero raccolte, perché quelle esperienze dolorose non fossero divorate dal tempo. Ed eccoli accontentati con questo “romanzo” bello, ottima veste tipografica, da tenere bene in vista sugli scaffali, dopo averlo letto e goduto. Uno di quei libri che si scrivono con il cuore. 

Trippa e damigiana al centro
A parte la narrazione di Nizzola, che coinvolge, le foto ti fanno sentire lì, oggi e nel passato, tra quei gruppi che sorridono innalzando i fiaschi; gente che sa ospitare, condividere, gente di altri tempi e anche dei giorni nostri. Come la gente delle masserie di Crispiano, che subiva i briganti, usi al saccheggio anche delle transumanze: briganti come Ciro Annicchiarico, il sergente Romano, Cosimo Mazzei, detto Pizzichicchio, neutralizzato nella gola di un camino. “Canzoni, fumo e allegria. Io ti ringrazio sconosciuta compagnia. Non so nemmeno chi è stato a darmi un fiore, ma so che sento più caldo il mio cuor”: Lucio Battisti (Il fiore dell’amicizia e dell’amore) collocato come titolino tra un periodo e l’altro.Che devo dire ancora? A me questo libro piace. Come piacque (tantissimo), “Le cento masserie di Crispiano”. E so che piace a tanti altri. Vorrei congratularmi con l’amico Paolo, ma non ha bisogno. E’ stato per tanti anni in pista, meglio davanti alla telecamera; è ricco di esperienze, ha conosciuto tanta gente, ha intervistato personaggi illustri, è stato sempre in plancia da bravo pilota, ma anche sulla strada,da cronista rispettabile, di quelli che sanno catturare la notizia e irrorala, come diceva Gaetano Afeltra, una vita passata nella carta stampata: in via Solferino, quindi in via Fava, al “Giorno”.


mercoledì 6 aprile 2022

Figure di spicco del collezionismo

Pigini, Menegazzi, Arienti

 

PER VITO ARIENTI NEI TAROCCHI

C’E’ ARTE, COSTUME E CIVILTA’


E’ sempre un piacere sorvolare la

storia delle carte da gioco storiche

attraverso le parole e le opere di

chi vive o ha vissuto quel mondo,

ricco di curiosità, leggende, fascino.

Le carte di Osvaldo Menegazzi


Franco Presicci

Lo conobbi una cinquantina di anni fa. Mi aveva parlato di lui un amico, sapendomi interessato agli ambienti e ai personaggi più originali e curiosi. Allora Osvaldo Menegazzi aveva lo studio a Greco, in una via tranquilla e riposante, con una scuola elementare e nessun negozio. Realizzava diorami con soldatini napoleonici di carta e quadri con conchiglie gigantesche che navigavano nello spazio fra nuvole sparse. Poi quei soldati li trasferì in mazzi di tarocchi apprezzati da tutti gli intenditori.

Osvaldo Menegazzi

Menegazzi, piacevole nelle sue battute spiritose, brillante, geniale, divertente, mi accolse sorridendo sotto la sua barba fluente, e diventammo subito amici. Un pomeriggio mi condusse ad Altare, vicino a Savona, per farmi conoscere i Bormioli, padre e figlio: il primo artista delle facce dei soldati di piombo che sagomava il figlio, che a sua volta praticava anche un’altra attività: soffiando il vetro confezionava bottiglie con le navi all’interno. Ne eseguì una alla nostra presenza, e io capii finalmente come si fa a far entrare il naviglio in quel bacino attraverso il collo: dal fondo, che sempre soffiando e foggiandosi chiude alla fine. La sera il figlio ci invitò a casa sua a mangiare un ricco piatto di riso con i tartufi, dove i secondi erano più del primo, e al caffè mi concesse un’intervista, raccomandandomi di essere preciso nel racconto dei fatti e delle date, perché lui era iscritto alla Società di storia patria e non poteva esporsi a figuracce. Era specializzato nella ricostruzione delle battaglie più famose, soprattutto quelle napoleoniche. Lo rassicurai e mi regalò un soldatino francese con il fucile in spalla. Un giorno andai a trovare Menegazzi nel suo negozio di via General Fara e improvvisamente si assentò. Lo sentii confabulare e credevo stesse trattando una vendita con un cliente; invece rimproverava un passerotto appena entrato. “Non puoi andare e venire quando hai fame. Questo non è un albergo. Tra l’altro adesso sono impegnato. Ho sistemato il becchime lì per terra”. L’uccellino lo guardava e poi saltò sul banco, pieno di tarocchi e di libri sull’argomento, planando nel punto in cui si trovava il miglio. Quando Osvaldo tornò a sedersi mi disse che il volatile era uno di famiglia.

Carta di Arienti

Quello stesso giorno mi promise che saremmo andati insieme da Vito Arienti a Lissone, il più grande collezionista di tarocchi, a livello europeo, e raffinato stampatore di rettangoli di carta suggestivi per le figure e i colorit. Mi fece quella promessa più volte, e siccome non si decideva mai, anche perché sempre indaffarato, pensai di andarci da solo, nella tipografia che Arienti aveva da anni con ingresso nel cortile di uno stabile. E mi trovai di fronte a un uomo alto, robusto, faccia da Gino Cervi, eloquio elegante, gioviale, ospitale. Dopo i convenevoli, mi mostrò i mazzi che aveva prodotto sino ad allora e poi ci spostammo a casa, dove aveva una stanza riservata alle carte e a tanti oggetti, tra “press-papier” e presepi in miniatura. Aprì decine di album con pregevolissimi pezzi che incantavano, facendo passare le ore senza che me ne accorgessi. Trascorsi dunque un bel po’ di tempo ad ammirare carte giapponesi, “uta-garuta”; carte indiane della fine del ‘600 con figurazioni di dei e di animali sacri; le “minchiate” fiorentine, attestato dell’arte incisoria del ‘500, del ‘600, del ‘700; il “Gioco del cucù‘”, ulteriore testimonianza dell’imagerie populaire” e ancora in voga tra gli anziani del Bergamaso: gioco gestuale, spassoso, in via di estinzione. 

Prima pagina della Geografia 

Appassionato del settore fin da ragazzo, Vito commentava i mazzi anche nei dettagli e mi svelava frammenti di questo mondo magico. Poi lo sorpresi amareggiato e attesi che me ne spiegasse il motivo: anni addietro era sulle tracce degli stampi di un mazzo importante che voleva riproporre, e dopo tanta fatica trovò il possessore in un ospedale psichiatrico, dove fallì la sua ricerca. Sensibile e umano com’era, soffriva al pensiero di quel vecchio tipografo, un collega, che a sentir parlare di carte e di matrici rideva.

 

 Arienti accantonò il ricordo accennando a un mazzo di D’Annunzio, “che su ogni carta ha sei versi del ‘Carmen votivum’, del ’32, inedito, dedicato dal Vate a una donna. Quanto mi renderebbe felice averlo”. Gli piaceva rinverdire la storia dei tarocchi, senza assumere atteggiamenti cattedratici. E io lo esortavo, pendendo dalle sue labbra. “Uno degli esemplari più antichi nacque a Milano nel XV secolo: il mazzo Visconti-Sforza, del 1441, attribuito a Bonifacio Bembo”; quindi venne il “Tarocchino Milanese”, stampato da Gumppenberg.

Altra carta di Menegazzi
Mi mise sotto gli occhi un gioco uscito dalla Cina durante la diplomazia del Ping-Pong, nel ’71, e tanti altri. Mi disse che Napoleone nel 1805 fece aprire la “Regia Fabbrica di carte da gioco” di Vaprio, appartenuta ai cistercensi, imponendo un’imposta sull’uso dei mazzi ovunque si svolgesse, in un’abitazione, in un circolo, in un’osteria. “Ma le cose non andarono nel modo previsto, e così, affidata l’attività al ventenne stampatore tedesco Ferdinand Gumppenberg, la tipografia venne spostata nei giardini del Teatro alla Scala. Il nuovo direttore manifestò il suo talento già con il “Tarocco Neoclassico”, che però non incrementò le entrate. L’opificio rischiò la chiusura, ma il giovane non si perse d’animo e dribblando i concorrenti riuscì a conquistare il potere decisionale assoluto e creò carte pregevoli come quelle con le immagini dei mestieri di Milano.
 
Osvaldo Menegazzi

Parlando, Arienti mi fece vedere alcune carte eseguite da Osvaldo Menegazzi, elogiate anche da grandi esperti dell’ambiente, a cominciare dal famoso Kaplan, e il “Gioco della Corona ferrea”, ispirato al gioiello custodito nel Duomo di Monza: mazzo ristampato negli anni ‘70 nella stessa tipografia di Lissone. Nelle sue edizioni del Solleone Arienti stampò molti tarocchi, anche con l’intento di equilibrare il mercato, dove per un mazzo considerato importante si chiedevano cifre assurde, come per uno con cui aveva giocato Gabriele d’Annunzio (8 milioni). Sull’esempio del Gumpperberg, mobilitò anche giovani artisti, qualcuno dotato di un tratto graffiante, a volte caustico, sempre piacevole. Cominciò con “Il Gioco della Felicità”, che fu accolto con entusiasmo. Per Arienti le carte erano arte, costume, civiltà, testimonianza di un’epoca. Lo invitai a tenere una conferenza all’Associazione regionale pugliesi, quando la sede del sodalizio era in piazza del Duomo e presidente Bruno Marzo. Accettò, ma poi dovette desistere perché aveva male a un ginocchio ed era costretto a camminare, quando poteva, con il bastone. E siccome il suo intervento era già previsto nel programma, il pittore Filippo Alto, che curava alla grande le attività culturali, lo sostituì con una mostra di giornali del Leccese e dintorni dell’800 di proprietà dello ello stesso presidente. Successivamente presentarono il libro “Belmonte” di Franco Zoppo, che era stato docente di latino e greco al liceo classico di Taranto.

Carta di Menegazzi
Arienti era un’autorità, un mito nel campo: stimatissimo anche all’estero, dove veniva interpellato per consulenze e informazioni. Organizzò tra l’altro un’esposizione di tarocchi al Castello Sforzesco e curò il capitolo su quattro secoli di xilografia nelle carte da gioco per il catalogo della sesta Esposizione internazionale della grafica d’arte a Firenze. Raccolse anche i collezionisti italiani in un “Elenco volontario del collezionismo minore”. In gioventù era stato redattore della “Linea Grafica”, periodico molto diffuso non soltanto fra gli specialisti. Arienti era anche un uomo molto generoso. Quando scrissi il mio articolo su di lui, quasi cinquant’anni fa, gli chiesi quattro o cinque foto da pubblicare a corredo del pezzo sul “Mezzogiorno”, quotidiano per l’Abruzzo diretto negli anni’70 da Paolo Cavallina, il giornalista diventato popolarissimo per una imitazione che gli fece Alighiero Moschese, al tempo in cui conduceva con Luca Liguori la trasmissione televisiva Rai “Chiamate Roma 3131”. E lui: “Perchè non pubblichi sei o sette esemplari del mazzo del pittore Balbi di Genova, fatte per l’Italsider con una custodia d’acciaio?”.
 
              Giulio Giuzzi e Franco Presicci

Ricordo il giorno in cu mi invitò a scrivere la prefazione per il mazzo “La geografica intrecciata nel gioco dei tarocchi”, che nella città felsinea suscitò il finimondo: ero titubante, ma lui insistette e io lo accontentai. Quando il mazzo vide la luce, mi offrì un compenso, io rifiutai e mi donò una splendida rosa del deserto. Sono anni che Vito Arienti non c’è più. Io custodisco alcuni suoi mazzi, tra cui uno che raffigura un bel numero di attori di Berlino di qualche secolo fa e un altro con le illustrazioni del Gonin de “I Promessi Sposi”. Molti nati nella tipografia di Lissone sono introvabili. So che tanti anni fa dal Giappone gli venne una richiesta, credo di 250 esemplari, ma lui li aveva quasi esauriti. Qualche mazzo si può ancora trovare, penso, in via Armorari, dove ogni domenica attorno alle varie bancarelle si affollano amanti di ogni tipo di collezionismo. Una sera il mio collega Giulio Giuzzi, sindaco di Belgioioso, invitò me, Nino Gorio, Luisella Seveso e Maria Luisa Villa a una cena nel castello della sua città e mi disse che in un salone era in corso una mostra di tarocchi. Corsi a vederla alla fine della cena e per sole 30 mila lire potetti recuperare la “Geografia”, che avevo smarrito. Al ritorno a tavola parlammo di carte, di Vito Arienti e di Osvaldo Menegazzi, il cui negozio oggi e al Ticinese, retto da Cristina, una saggia nipote dello scatenato artista delle conchiglie nello spazio.