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mercoledì 28 settembre 2022

Bruno Zecchi collezionista bolognese

Bruno Zecchi
DA UNA VITA RACCOGLIE

MACCHINE PER SCRIVERE


Conosce tutti i mercatini della città

felsinea. Li ha visitati tante volte e

continua ancora oggi. E’ entusiasta

della Lettera 22, con la quale

scriveva Indro Montanelli. 

Possiede dai 250 ai 300 esemplari,

tutti ben conservati.

 

 

Franco Presicci

Bruno Zecchi nel laboratorio
Fino ai primi anni 80 al “Giorno” usavamo la macchina per scrivere. A casa avevo una Remington e una lettera 22, che fu un grande successo della Olivetti nel ’50 e riscosse riconoscimenti ovunque nel mondo, oltre che in Italia.
 
Gruppo di macchine per scrivere

La “Lettera 22” era lo strumento che usava Indro Montanelli per compilare i suoi articoli. Una foto storica lo immortala mentre batte su quei tasti. Quando arrivarono i computer, che con il loro ingombro occupavano tutti i nostri tavoli in redazione, ci invase la nostalgia come per l’odore del petrolio in tipografia. Personalmente feci molta fatica a star dietro al nuovo mezzo tecnologico, e fatico ancora oggi pur avendo frequentato un corso all’IBM. Appartengo a un’altra generazione, a quella in cui, facendo scorrere le dita su altre tastiere, si immaginava di generare musica. Poi, a poco a poco, i miei gioielli sono rimasti inscatolati nel box a testimoniare un’epoca. Purtroppo un giorno la Lettera 22 mi scappò di mano, cadde a terra e si ammaccò; e io, pur di non vederla in quello stato, la regalai. Adesso la rimpiango. Una sera, vedendo uno sceneggiato televisivo su Adriano Olivetti, in cui la Lettera 22 era regina, lo confesso, non riuscii a trattenere le lacrime.

Una Mignon
Avevo imparato a scrivere a macchina nello studio di un anziano commercialista a Taranto (vivevo i miei diciotto anni); poi mi “arruolarono” in un ufficio del Cral Arsenale, dove quando era libera una macchina me la mettevano a disposizione. Collaboravo con un giornale romano, “Il Timone”, dove tra gli altri pubblicai un articolo sul pescecane a due teste conservato in un vaso di aldeide formica all’Istituto talassografico, allora diretto dal professor Parenzan, da cui seppi che quello era un raro fenomeno di teratogenesi marina.
 
Continental

La commozione ha serpeggiato dentro di me quando ho intervistato un collezionista di macchine per scrivere di Bologna, Bruno Zecchi, 71 anni, che di modelli Lettera 22 ne ha una decina, protette come le altre da fogli di cellophan su varie mensole di un suo magazzino vicino a casa. Bruno Zecchi l’ho scovato mentre ero in campagna a Martina Franca: osservavo la gigantesca quercia secolare che svetta a due passi dal nostro trullo, quando mio cognato Eugenio, tarantino trasformatosi in bolognese nei modi e nell’accento, senza dimenticare i due mari, vedendomi assorto, mi ha chiesto, celiando: “Stai pregando?”. “No. Sto pensando al prossimo articolo da preparare per ‘Minerva new”. “Io a Bologna conosco un collezionista di macchine per scrivere. Ne avrà 300, compresa una per tradurre simultaneamente i discorsi stenografici”. Faceva al caso mio. Eugenio mi ha scodellato nome, cognome e numero di telefono: e nel pomeriggio il mio cellulare si è affollato di foto di Olivetti, Remington e ogni altro pezzo d’arte dalle forme a me sconosciute. E fra tutte campeggiava il protagonista, faccia paffuta, bonaria, gioviale, paciosa. Ho telefonato e mi ha risposto una bella voce calda, rassicurante, amichevole.

Sammond
E abbiamo fissato l’intervista per il giorno dopo il mio ritorno dalla villeggiatura, inebriato com’ero dai colori, dai profumi, dai sapori della campagna, disseminata di ulivi, fichi, ciliegi, spate di fichidindia con “pomi” policromi, vigne gravide di grappoli prossime al parto… Adorabile Martina. Dove non stavo mai con le mani in mano: impegnavo ore a scrivere, a leggere, a spogliare gli alberi di nocciole e amarene. Per indagare sulla collezione di Bruno volevo trovare il momento giusto, che è arrivato la settimana scorsa. Bruno mi ha risposto subito e subito si è aperto: “Ho cominciato a riparare macchine per scrivere; ma se si voleva diventare bravi bisognava seguire dei corsi, organizzati allora soltanto dall’Olivetti a Ivrea, che garantiva l’assistenza soprattutto tecnica per le sue macchine. Non potendo parteciparvi anche perché la ditta da cui dipendevo vendeva macchine di tutte le marche e i titolari, prima Lazzari, poi Bortolotti, mi comunicarono che non avevano questa possibilità. Allora mi licenziai e scelsi di guidare la corriera, sulle tratte Bologna-Viviciatico; Bologna-Monghidoro; Bologna-Zocca; Bologna-Castiglione; Bologna-San Benedetto-Val di Sambro … A 50 anni sono andato in pensione e mi è venuto il desiderio di curiosare fra i mercatini, dove, quando trovavo macchine per scrivere “a prezzo quasi da regalo”, mettevo mani al portafoglio.
 
Rofa

Un giorno sfogliai un giornale, “L’Occasione”, e lessi un articolo che diceva: “Vendo macchine per scrivere “Rofa”, “Smith-Premier, “Underwood”. Io conoscevo soltanto l’Olivetti, la Remington, la Facit… Ho telefonato e ho chiesto: “Ma che macchine vende lei? Io ho fatto il venditore e il riparatore e non le conosco”. Decidemmo di incontraci e andai a vederle. Questo signore si chiama Bruno come me e sta a Novi di Modena. Quando sono arrivato, le macchine erano tutte allineate su un bancone: la più giovane era del 1914. Troppo vecchia, non potevo averla sentita nominare. Ci accordammo e acquistai tutto: 20 pezzi. Da lì è nata la mia collezione, che oggi ne ha dai 250 ai 300”. Bruno continua ad andare per mercatini, a Crespellano di Bologna; a San Lazzaro; a Mercatopoli, “dove si vende di tutto, e ovunque ci sia una macchina la faccio mia. Ne trovo anche a 50 euro; una l’ho avuta addirittura in dono. Capita che qualche amico, al corrente della mia passione, scorga una preziosità su una bancarella da qualche parte, mi avverta e io corro”.

Alcune macchine di Zecchi
E, avendo un’officina a Casalecchio, nei pressi di casa, se c’è da mettere a posto qualcosa, da riordinare un meccanismo provvede. Comunque tutte le macchine che possiede a una a una le ha smontate, pulite e rimontate. Ha molta dimestichezza con quelle prodotte nel dopoguerra, un’esperienza tecnica elevata, ma non disdegna di consultarsi, se occorre, con qualcuno più abile di lui. “La Lettera 22 è una grossa macchina – riprende - Meccanicamente parlando. E’ molto robusta. Presente al Museo di New York e in altri. Io ne ho trovata una nel bidone della spazzatura e l’ho rimessa a nuovo. Un giorno fui invitato a una trasmissione televisiva su Raiuno condotta da Amadeus e mi chiesero di portare dieci macchine. Una era stata costruita per invalidi e mutilati e mi fecero presente che non era adatta per i bambini. La lasciai fuori”. Bruno Zecchi è nato in una frazione di Bologna, Monte San Pietro, che ha 3 mila abitanti; Casalecchio, dove risiede, ne ha 30 mila. E’ una persona socievole, amante delle batture di spirito e non si dà arie.
 
“Quando conducevo le corriere, scherzavo con i passeggeri, li tenevo allegri, rendevo loro piacevole il tragitto. Amo scherzare. Lo scherzo fa bene alla salute. Al circolo sportivo Barca, che frequento, mi trovo a mio agio, sono sempre di buon umore, gioco a carte, converso. Se mi coinvolgono in una discussione politica e l’interlocutore pretende di avere ragione a tutt’i costi, lascio perdere, anche se sono tentato di affrontare l’argomento in modo più acceso, dicendo pane al pane e vino al vino”. Gli domando qualche altro particolare della sua vita e non si sottrae: “Ho passato dieci anni in collegio, da quando avevo un anno e mezzo. Papà era ammalato, in casa mia, oltre alla mamma, c’erano 3 figli…”. E’ sposato e ha un figlio, Nicola, 38 anni, direttore tecnico della squadra di calcio giovanile “Zola Predosa”.
Bruno Zecchi al lavoro

Ritorniamo al binario originario, sul quale Bruno non va come un treno, perché io gli richiedo diverse fermate. Parla chiaro, voce bassa dicendo cose interessanti. Dopo tanti anni di collezionismo, migliaia di passi compiuti da un mercatino all’altro, ricerche, consultazione di documenti, può rendere ricca una discussione. Colpiscono le sue doti di riparatore. Se gli si affida una “tastiera” vecchia, arrugginita, sgangherata, lui è il mago adatto a farla rinascere.

Bennett
E’ l’uomo che sarebbe piaciuto ad Adriano Olivetti, che era un genio, nato nel 1868. Arrivò Balle macchine per scrivere dopo tante esperienze e dopo un viaggio negli Stati Uniti nel ‘25. Con una pattuglia di tecnici e di artisti dette una nuova immagine all’azienda, mirando sempre alla perfezione stilistica del manufatto. Ebbe molti interessi, fondò una casa editrice… Un personaggio rispettato, riverito, ammirato. Per Zecchi, un mito. Almeno così mi è sembrato. Se posso aggiungere una piccola vicenda personale, appena arrivai a Milano nel ’62, pur sospirando il mestiere di giornalista, feci varie domande di assunzione, in attesa di poter entrare in una redazione. Lessi un articolo su Adriano Olivetti pubblicato dalla “Domenica del Corriere” e decisi di scrivergli una lettera. Dopo qualche giorno mi rispose che era pronto ad assumermi come venditore. “Tutti i nostri dipendenti cominciano da lì”. Avevo avuto già due delusioni in quel mestiere e mi scusai confessando che non me la sentivo perché quella del venditore è un’arte e io non ero neppure un garzone. Mi sentii però orgoglioso e mostrai la lettera a mio cognato Dino, che mi aveva anticipato i soldi per acquistare la gloriosa “Lettera 22”.







mercoledì 21 settembre 2022

Nella dolce, solare, incantevole Martina

 

BENVENUTO MESSIA, FOTOGRAFO E POETA

S’INEBRIA SULL’ADORATA BICICLETTA

 

Benvenuto Messia
Attore simpatico in film con Lino Banfi,

Luisa Ranieri e altri grandi dello schermo,

Ben è molto stimato e amato nella sua

seducente città e dintorni. 

“Hai bisogno di qualcosa? Ci pensa il

Messìa”, ama dire, scherzando.


Franco Presicci 

“Ma dove vai, bellezza in biciletta, così di fretta, pedalando con ardor? Le gambe snelle tornite e belle/ m’hanno già messo la passione dentro il cuor…”, cantavano gli italiani nel ’51 con Silvana Pampanini. E le bellezze pedalavano allegre, sorridenti, le chiome scompigliate dal vento, le mani sul manubrio, una dietro l’altra o di fianco, ovunque si potesse senza trovare intoppi. Sui tandem si scambiavano, lui e lei, parole d’amore, ad alta voce e gioivano. Li si vedono sulle cartoline d’epoca, sui calendarietti castigati dei barbieri, sulle vecchie pagine de “La Domenica del Corriere”, lui i baffi con le punte all’insù... Immagini che fanno sognare chi le guarda o appartiene a quei tempi. Oggi quella canzone, protagonista la bici, non la canta più nessuno, anche perché molti l’hanno dimenticata e altri non l’hanno mai sentita interpretare, neppure in “techetechetè alla Tv. Ma ne sono state scritte altre: la bici non tramonta mai. Anche se hanno inventato i monopattini elettrici, che filano silenziosi sulle strade, e a volte pericolosamente, è sempre lei, la bici, la principessa.

Ben con la figlia verso l'altare

Molti la curano con trasporto, come fosse un oggetto prezioso. Ci va ogni giorno un mio caro amico mantovano, a Milano da una vita, anche per fare tratti brevi: all’edicola, due passi da casa, o alla Bicocca, a un tiro di schioppo, dove una collina alberata, costruita artificialmente, fa fare bella figura al quartiere, già bello di suo. Dove abito io sono in tanti a sgambare in bicicletta, bellezze e non. La bici è facile da prendere, occupa poco spazio, non ha bisogno di parcheggi, per sicurezza la incateni ad un palo e vai a bere un caffè; e quando pedali t’inebri. E’ veloce, leggera, ha una linea elegante. Sulle sponde del Naviglio Grande, un’antichissima via d’acqua, dove un tempo pescavano e facevano il bagno, il sabato e la domenica, singoli e gruppi, qualcuno con il marmocchio sul telaio, vanno a ruota libera tranquilli, spensierati, spesso con un’occhiata alle cascine, alle torri, agli orti, alle chiese, alle case con i tetti a capannone, ai comignoli. Quando a malincuore lascio quel paradiso in terra, che è la Valle d’Itria, dopo aver goduto appieno il sole, l’aria incontaminata, la pace, il silenzio della campagna, con passeggiate a piedi nel tratturo, bevendo il venticello che fa dondolare le chiome degli ulivi, dei fichi, dei ciliegi, per rientrare a Milano, vengo bombardato di domande dal virgiliano che mi dà appuntamento e dopo mezz’ora è già a casa mia, per salutarmi e portarmi un “souvenir” del luogo in cui ha trascorso la vacanza. Ma anche per ascoltare i miei racconti sulla seducente Martina, sul Festival, sulle casette incappucciate con la palla sulla cuspide. Quando, anni fa, venne a trovarmi in campagna, diretto a Lecce (è un viaggiatore curioso e mai stanco) si disse pentito di non aver portato la bici, con la quale avrebbe potuto esplorare i tratturi, tutti quelli della zona, e osservare gli asini e i cavalli a passeggio sulle distese verdi, i boschi sulla via Papa Domenico, che sfiora la chiesa della Madonna della Consolata e va a Noci. Li visitò ugualmente, ma in auto. “Quando torni mi parlerai anche di questa graziosa famiglia Argese, i cui nonni Angela e Vito t’impegnano in spassose partite a scopone in serate calde, illuminate sul piazzale del trullo, mentre cantano i grilli. E soprattutto mi parlerai di Benvenuto Messia, che chiami affettuosamente Ben”.

Ben con Sabrina Ferilli
Lo farò. Benvenuto è più bravo di lui a stare in sella. Benvenuto va sulla bici da corsa non si sa più da quanti anni. Sulla bici ha ideato le sue poesie che recita da attore consumato, brillante, tutto cuore e anima. Quando impugna il microfono ridi a crepapelle. Sa misurare i gesti e le parole, sa armonizzarli con la voce, chiara, limpida, cadenzata. Domina il palcoscenico o il cortile di una masseria o il podio di una piazza. Non per niente ha partecipato a tanti film, con Lino Banfi, Luisa Ranieri, Sabrina Ferilli e altri interpreti di successo. E molte volte, cavalcando la bici, scatta fotografie bellissime. Ritrae le strade della sua Martina, le “‘nchiostre”, i vicoli, gli archi, i balconi spanciati, le antiche porte, le figure caratteristiche. Un maestro, un artista, doti ereditate dal padre Eugenio, che fu il primo a Martina a puntare l’obiettivo.
I calendari di Messia

Ben
Conservo gelosamente un “Calendario” di Ben, piccolo libro con una ventina di immagini a colori: un forno a legna in cui palpitano le fiamme; un vecchietto intento a fare un cestino di vimini nel vicolo; un calzolaio con il deschetto (uno riparava i tacchi e le suole in un locale vicino a casa mia, in via Alfieri)... Quelle pagine vennero presentate in un salone di Palazzo Ducale gremito di estimatori e di personalità. Gli chiesi, celiando: “Ben, sei venuto in bici o a piedi?”. “Quali che siano le distanze, io vado sempre in sella, non tradisco mai la mia due ruote. Da ragazzino avevo il triciclo, poi sono passato alla bici”. E alla sua età, folta capigliatura bianca sempre ben pettinata, basso, ben vestito, cordiale, spassoso, corre ancora. La bici è libertà, salute, allegria, sport”; ispiratrice di vecchie canzoni, di tele di pittori eminenti, di sculture e di disegni anche caricaturali. Non so se dalle nostre parti le hanno fatto un monumento, come lo hanno fatto alla locomotiva a vapore, “’a ciucculatère”, che trionfa su un rondò di un paese del Nord. La bici lo merita per le sue glorie sportive, per l’età, per la sua partecipazione a eventi internazionali… Ugo Ronfani, uno dei più colti, poliedrici, vicedirettori del quotidiano “Il Giorno” (si occupava anche di teatro e di arte), circa mezzo secolo fa aderì a un concorso indetto dai fabbricanti di bici e nel suo articolo, con cui arrivò secondo, mi pare dopo Gianni Granzotto, scrisse che la rivoluzione cinese era stata fatta in sella alle biciclette. La bici di Benvenuto naturalmente non è stata presente in eventi di quella portata, ma è stata resa famosa da chi l’ha cavalcata: uno dei personaggi più simpatici e amati di Martina e non solo. Un portento.

Ben con la mascherina

In via Ceglie c’è ancora il suo studio, che considero un sacrario. Ci va ancora, vi si ferma per un po’ e poi via sull’amata sella. Ha un archivio immenso, con paesaggi meravigliosi della città e dintorni di una volta: Martina vestita di bianco; contadini al lavoro; donne che conversano nei tratturi o sulle soglie delle loro case, bianche come il latte, nei vicoli del centro storico, riposante, silenzioso, affascinante. Ha fotografato di tutto, Ben, che spesso gioca con il cognome (“Non preoccupatevi, provvede il Messia”, oppure: “E il Messia che cosa ci sta a fare?”). E’ spiritoso, diverte con battute pronte e sapide. Benvenuto è geniale.

Messia e Lino Banfi

Lo ricordo vestito da prete in un film, credibile con quella tonaca addosso ai piedi di una scalinata che portava chissà dove. “Hai confessato qualcuno, nel film?”. “Ebbè, sono il Messia”). Mi disse sorridendo che quando il Giro d’Italia passa per Martina lui si accoda, naturalmente non per sentirsi parte della cordata. Ben è gioviale, disponibile, intelligente, aperto al dialogo sereno e costruttivo. Quando si esibisce rende il suo dialetto più sonoro, più piacevole, marcando i termini onomatopeici, che sono tanti. “Ben, è vero che portasti tua figlia all’altare in bici?”. “Certo che è vero”. Non lo fece per pavoneggiarsi, ma per il piacere di farlo. Neppure quel giorno festoso dunque lasciò a casa il suo mezzo di locomozione. Questo fu l’episodio che colpì il mio amico milanese una mattina che fioccava la neve e si gonfiava come panna sulle strade, nei giardini, sul davanzale della finestra. Con l’amico guardavo le falde che cadevano e parlavo di Martina, dolce, generosa, stupenda, ricca di viti nane, dove respiri l’aria pulita e ti senti rinvigorito, rinato. Martina inondata di musica, Martina che ti abbraccia, ti sorride, ti dà il benvenuto (ahi!). La rivedo con la gente imbavagliata per il vento, con lo stradone deserto o affollato nei pomeriggi di sole. L’amico ricordava il percorso da Fasano alla stazione ferroviaria, dove andai ad aspettarlo. Aspetto sempre con il fischio del treno o il suono della campanella che annuncia gli arrivi e le partenze, gli amici che vengono a trovarmi e non conoscono la strada.

Ben in un film
Prese dimestichezza con il mio tratturo, allora animato da persone come Peppino, Giovanni, Carluccio, Maria e Rosa e la loro truppa che si riuniva il sabato e la domenica davanti al forno da cui uscivano panzerotti e pizze, seguiti da fegatini e da mozzarelle di Fragnelli. Le ho viste fare, dallo stesso Fragnelli, a una grande serata martinese al Rotary Club di Merate, dove Nico Blasi, direttore di “Umanesimo della Pietra”, è socio onorario. Fatte e servite subito in tavola a centinaia di ospiti, compreso il compianto Dino Abbascià, imprenditore ortofrutticolo di grandissima levatura, vicepresidente dell’Unione del Commercio e membro di consigli di amministrazione, nato a Bisceglie e arrivato a Milano all’età di quindici anni. Anche lui venne a Ostuni, in occasione di una festa in campagna allestita da uno chef di autentico prestigio, Antonio Marangi, che ha cucinato alla Borsa di Milano, al Gran Premio di Monza, dove comandava 80 cuochi, alla Terrazza Martini e per “leader“ internazionali, tra i quali Kissinger. Tornando a Benvenuto, l’ho intercettato anche in piazza del Duomo a Milano, in una foto scattata tra i colombi di fianco al professor Francesco Lenoci, martinese doc anche lui. Questi martinesi li trovi dappertutto. A Milano, nei giornali, nelle case editrici, negli studi d’avvocato…E ovunque danno prova di bravura. A Milano Ben sarebbe diventato il principe dei fotografi. Ma lui preferisce la corte della sua Martina, dove gode la Bellezza.




mercoledì 14 settembre 2022

“Un’Arma nel cuore” di Angelo Jannone

UN LIBRO DAVVERO AVVINCENTE

DA LEGGERE PIU’ DI UNA VOLTA

Intervento di Francesco Lenoci

Fatti, personaggi, situazioni, arresti

dopo indagini lunghe, complicate

condotte magistralmente da un

capitano sotto copertura. L’autore

racconta anche amarezze, solitudine

nonostante i vari risultanti brillanti.

Un libro bellissimo, interessante.

 

 

Franco Presicci

Decisi, anni fa, di archiviare la nera e di occuparmi d’altro.    E sono stato coerente.

Copertina del libro

 

Fino a quando non mi è stato consegnato questo libro, che mi ha catturato sin dalle prime pagine senza lasciarmi all’ultima, perché, arrivato lì, ho ripreso a leggerlo qua e là, proponendomi di riaprirlo prossimamente: “Un’Arma nel cuore”, di Angelo Jannone, editore O’ Gambini, coinvolge, affascina, appassiona. Ricco di fatti, di situazioni, di personaggi buoni e cattivi, criminali e cacciatori, latitanti, flussi di denaro che scorrono sotto traccia, trafficanti di droga ad altissimo livello e trappole tese da uomini coraggiosi decisi a disintegrare le organizzazioni mafiose e le loro ramificazioni. Un libro, che fra l’altro testimonia il coraggio, l’acume, la prontezza di spirito, la genialità, la determinatezza di fedeli servitori dello Stato. L’autore, all’epoca in cu scrive capitano dei carabinieri (poi promosso colonnello), si infiltra in un pianeta pericoloso che allunga i tentacoli in ogni parte del mondo. E per conquistare la fiducia, con sapienza conversa con gregari diffidenti decisi a tutto, propone progetti, suggerisce strategie, ascolta le confidenze, gli sfoghi… Lo scopo è quello di arrivare ai boss e al capo dei capi. L’investigatore punta dunque in alto. E a poco a poco intercetta, finge amicizia, fa credere di essere uno di loro, e così facendo individua ruoli, capacità, sentimenti. Sempre vigile, attento a non compiere un errore, sapendo che basta una parola sbagliata, persino uno sguardo non calcolato per tradirsi. Insomma, il protagonista con l’Arma nel cuore si sente un’altra persona, calata nel personaggio. Dietro di lui, o con lui, collaboratori preparati, tenaci, pronti a camuffarsi, dribblare gli eventuali sospetti, le diffidenze per infrangere le barriere frapposte a difesa dei pezzi da novanta.

Angelo Jannone

Il libro di Jannone, faccia da divo dello schermo, avvince, trasportando chi legge in un mondo che non riesce ad immaginare, rendendolo quasi spettatore degli avvenimenti, spesso carichi di “suspence”: operazioni movimentate, ad alto rischio, inseguimenti sui tetti, irruzioni nei covi, nei depositi di armi, gli uni e gli altri fortificati, mimetizzati, intercettazioni da trascrivere e spesso da interpretare; piogge di ordinanze di custodie cautelari, arresti, sequestri di tonnellate di droga. Un lavoro di grandissimo impegno, intelligenza, intuito, esperienza. Jannone viene paracadutato in Sicilia, dopo essere stato in altri luoghi del Paese e all’estero, per esempio in Brasile; e comincia studiando l’ambiente, ascoltando vecchi marescialli dell’Arma che hanno navigato in quel mare e sono quindi ricchi di ricordi, conoscenze, esperienze, saggezza. L’ufficiale annota ogni particolare, nomi, livello, biografie, attività, rapporti, parentele. Una grossa mano gliela danno i suoi fedelissimi, tra i quali Roberto Perillo, “vero esperto di pedinamenti, cresciuto con il gruppo del capitano Ultimo a Palermo” (già noto per la sua brillante bravura quando era alla Legione Carabinieri di via Moscova a Milano)”. Al racconto, denso, sempre interessante, avvincente, emozionante, si aggiunge uno stile scorrevole, accurato, che nelle pagine più esaltanti assume un ritmo galoppante. 

Pagine del libro

 

Un libro bellissimo, tutto da leggere; un libro in cui Jannone sfoga anche le sue amarezze, le sue delusioni, la sua solitudine anche familiare (il lavoro e il focolare sovente non vanno d’accordo); descrive con particolari i suoi viaggi in Germania, in Colombia, in Olanda, in Brasile, i dialoghi con un “narcos”, che citava Proust, Dickens… “e quando me ne parlava io dovevo solo fingere di essere il contrabbandiere ignorante e cafone, ma mi sentivo davvero tale… gli algerini li incontrai in un ristorante nei pressi della Bocconi, il celebre ateneo milanese… in Italia giocavano in casa… Era un vero boss, il loro capo. Alto e distinto. Fuori dal ristorante, un paio di loro guardaspalle controllavano la zona. Alcuni dei miei uomini controllavano i guardaspalle che controllavano la zona, mentre altri imbottivano l’auto con targa francese, degli algerini, di microspie”. All’improvviso si materializza un fotografo, che si mette a scattare, puntando l’obiettivo su un angolo e su un altro: lui, l’infiltrato, scatena il quarantotto; il proprietario interviene per chiarire l’equivoco: il fotografo è di casa, deve solo compilare un depliant. Una sceneggiata, una “fiction” improvvisata e ben riuscita.

Jannone in un'intervista
 

Il capitano con l’Arma nel cuore è un attore collaudato. Ormai sembra uno di loro. Ottocento chili di cocaina sono pronti per essere spediti dal Venezuela in Italia, destinataria la “Re Sole”, ditta inventata dall’ufficiale e compagni. Il carico è in un container a doppio fondo fra quintali di pesce surgelato. Il “detective” sta per portare a termine il suo compito. Mesi e mesi sono passati a “condividere” i piani dei “narcos”, aspettando che tutti finiscano nella rete che lui ha predisposto. L’infiltrato – dice - è più simile a una spia e la spia tradisce. Il carabiniere è un avversario leale, orgoglioso del corpo a cui appartiene. “Sono un colonnello dell’Arma”, esclama mentre porta al baratro i pesci e i pescicani. L’operazione sulle prime viene tenuta segreta, mentre uno ad uno cadono come birilli i trafficanti colombiani, gli intermediari venezuelani, gli algerini di Amsterdam, i camorristi, potenti, della camorra e di Cosa Nostra. Poi, la solitudine, la malinconia, la frustrazione, la sopportazione dei colleghi ostili, inspiegabile se non con l’invidia, e non certo quelli che hanno fatto grande l’Arma dei carabinieri; le serate vuote, le notti in bianco trascorse nelle vie della Capitale, l’incontro con un barbone vicino alla sede della Corte di Cassazione: ”Se questo palazzo avesse avuto un’anima, non mi avrebbe distrutto la vita”, parole del “clochard”. Poi una birra in un bar che sta sparecchiando e l’ufficiale torna indietro i 10 anni: in una di quelle sue notti in bianco fluiscono i ricordi. Allora aveva solo 24 anni, aveva fatto il rodaggio a Torino, avendo tra gli allievi il giovane Giovanni Agnelli, “che pochi anni dopo avrebbe lasciato questo mondo prematuramente, infrangendo il sogno di tanti di vederlo alla guida del più importante gruppo industriale italiano”. Poi Roma, il quartiere dell’Eur, ma anche le borgate meno appetibili; e il cinodromo per le corse dei cani, che impolpano le casse di criminali legati alla banda della Magliana. Bisognava fare piazza pulita anche in quell’ambiente. E poi la notizia di un delitto… ”Non avevo ancora visto un uomo ammazzato”. “Corsi subito”. “’Aquila 31’ chiama centrale”. “Ordini, Aquila?”. “Sì, fatemi arrivare sul posto il maresciallo Meloni”. Il colonnello Jannone è un uomo colto: cita Lombroso e la sua criminologia deterministica; e crea immagini sapienti. E’ uno scrittore efficace. I suoi ricordi spaziano dalla III D, con una scazzottata con un compagno di scuola arrogante e prepotente, una sorta di guappo che nell’intervallo comincia a infastidire uno dei ragazzi più buoni. Il senso della giustizia che cominciava ad emergere, lo spirito del carabiniere anche. Erano i tempi delle indagini su rapinatori, su ambienti della prostituzione, sulla droga assassina che circola in un grosso clan mafioso. 

Locandina presentazione
Si trova a suo agio, l’ufficiale non ancora colonnello, nell’elaborare giri di parole, tecniche investigative, insidie sotto i piedi degli indagati, risolvere il problema di un pezzo da 90 della banda della Magliana evaso da una clinica, eludendo la sorveglianza di due poliziotti; lo smercio di eroina, gli intrecci tra mafia e destra eversiva, il terrorismo, eredi delle brigate rosse, corruzione… malavitosi sospetti che per salvare se stessi o un parente stretto slacciano la notizia grossa. La stampa va informata: il nome esploso è quello di un grosso calibro con le mani in tonnellate di eroina e nelle armi, già noto agli investigatori dell’Arma. Salta fuori anche il nome della collaboratrice di un’altissima personalità. Jannone parla schietto, rivela le tensioni durante i dialoghi con gente che ha un piede nel “gabbio”. Pagina dopo pagina si profila un’altra storia: quella che parte dalla strage di Portella della Ginestra e arriva a Riina, ai Brusca, a Bernardo Provenzano… all’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela Setti Carraro, in via Carini, a Palermo. L’investigatore non si ferma mai, sapere tutto di certi personaggi, capire le loro mosse, il loro linguaggio, il significato di certi gesti ermetici. In alcune pagine, l’incontro più bello, più interessante, più edificante, più emozionante: quello con Giovanni Falcone. Jannone racconta dettagliatamente la caccia ai mafiosi, le ispezioni, le “cimici” nascoste nei punti più sensibili, per captare informazioni, complicità tra famiglie, le posizioni delle singole persone nella gerarchia della piovra, gli appalti, sai in contatto con Cosa Nostra. Il colonnello, allora capitano, non demorde… E gli passano davanti agli occhi protagonisti della lotta alla mafia ammazzati: Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Rosario Livatino, Rocco Chinnici… : una lista lunga e dolorosa. Nel libro di Angelo Jannone c’è tanto altro, e tutto contribuisce a capire meglio ambienti, tecniche, strategie, protagonisti dell’una e della parte… Il colonnello rivive ciò che ha visto e vissuto con un gruppo di collaboratori validissimi, coraggiosi, tenaci, preparati, sempre pronti, con l’Arma nel cuore. E lo fa senza enfasi. Solo con il vanto di appartenere all’Arma dei Carabinieri. Il volume è stato presentato recentemente al Nautilus della Bimare nell’ambito delle attività dell’Associazione “La voce di Taranto” (sorta nel 2021), per il rilancio del territorio locale. Gianni Sebastio, direttore di Antenna Sud, e Giulia Tripaldi hanno intervistato l’autore, seguiti da interventi del magistrato Roberto Pennisi, dell’avvocato Egidio Albanese, del professor Francesco Lenoci, di Gianluca Pellitta, di Vito Clemente.











mercoledì 7 settembre 2022

Il ricordo di una giornata con Gorbaciov

IL “LEADER” DEL DIALOGO E DELLA PACE

HA RAGGIUNTO LA MOGLIE RAISSA

 

Il giornalista Giovanni Morandi e Gorbaciov

 

Fu a Milano nell’89, attirando un

fiume di gente, che urlava la sua

simpatia e la sua ammirazione per

l’uomo politico che si batteva per

un mondo migliore.

Papa Karol Wojtila lo ricevette in

Vaticano, Spadolini lo nominò

bocconiano d’onore. Gorbaciov

tenne una lezione a Scienze 

Politiche e gli studenti rimasero

sbalorditi.

 

Franco Presicci

Ricordo quel pomeriggio dell’89, anche se qualche dettaglio è in fuga da tempo. Sono passati oltre trent’anni. La folla in piazza Duomo debordava nelle vie vicine, Margherita, Torino, piazza Diaz, piazza Mercanti, corso Vittorio Emanuele, via Manzoni e inneggiava a Michail Gorbaciov, uno dei “leader” più importanti del secolo scorso.

Ingresso della Galleria
Quando l’auto che lo aveva a bordo riuscì ad aprire un corridoio umano e a fermarsi proprio davanti all’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele gli urli di simpatia e di ammirazione esplosero. Lui uscì dall’abitacolo, attorniato dagli uomini della sicurezza, dotati di grossi telefoni, soffocati dall’entusiasmo della gente sempre più incalzante. Improvvisamente e con gesti rapidi e sicuri, come un primate che salta da un ramo all’altro, un tale s’inerpicò sul ponteggio montato per l’esecuzione di lavori di restauro alla Galleria e cercava di far sentire la sua voce di protesta indicando i vigili urbani che gli sparavano una multa dietro l’altra per occupazione del suolo pubblico. Furono attimi di paura: poteva essere in terrorista o un folle. Ma subito venne riconosciuto: era un artista di strada, che proprio in piazza Duomo esibiva le sue doti di sputafuoco. Gorbaciov non si scompose.
 
Ottagono della Galleria
Il sindaco Paolo Pillitteri fremeva, sperando che il personaggio, soddisfatto della “performance” si decidesse ad atterrare. Era molto noto a Milano, “Sputafuoco”, per la sua attività. Divertiva gli spettatori anche per il suo linguaggio… criptico, che era poi il dialetto del suo paese che lui contaminava con espressioni infuocate. Per un momento dunque l’attenzione confluì su di lui, il cui spettacolo fuori programma venne seguito dallo stesso ospite, sorpreso come tutti. Dopo un po’ di tempo, incalzato da polizia e carabinieri e dagli stessi “ghisa”, l’uomo fece marcia indietro, continuando a protestare, perché quello, secondo lui, era il momento giusto per pubblicizzare il suo disagio. Il corteo si avviò verso Palazzo Marino, sede del Comune, attraversando lentamente la Galleria Vittorio Emanuele. Con la mano destra Gorbaciov rispondeva ai saluti, alle braccia sventolate da migliaia di persone. 
 
Biffi in Galleria
Passò davanti al Campari, al Biffi e al Savini, alla Libreria Rizzoli, alla Feltrinelli, ma non potè vedere nulla perché navigava in un fiume fluttuante di persone vocianti, con molti che sgomitavano per piazzarsi il più vicino possibile a lui, mentre gli addetti all’ordine pubblico facevano ogni sforzo per impedire ai più decisi di sfondare. Molti agenti erano venuti da altre città, e uno di loro spiazzò un giornalista spintonandolo, costringendo alcuni loro colleghi, che conoscevano bene quel cane da tartufi, a intervenire. Che giornata! Memorabile. Esaltante. In piazza della Scala le prime file del corteo palpitante alle spalle e ai lati del Presidente vennero tranciate, separate dal resto, ma quelle si ricomposero presto. Si riuscì comunque a creare un passaggio e l’illustre ospite, padre della “perestroika” (ristrutturazione) e della “glasnov” (trasparenza) potè procedere tranquillamente e scomparire oltre il grande portone del Municipio, accompagnato dal sindaco e da altre autorità.
 
Piazza della Scala
I cronisti, scalpitavano per entrare, ma erano stati “rinchiusi”, come leoni in gabbia, dentro uno sbarramento di divise e a nulla servirono i tesserini dell’Ordine per far aprire un varco. Chi cercò di sgattaiolare venne supplicato di stare a cuccia. Una giornata bellissima. Quell’enorme siepe umana non si vedeva neppure alla Stramilano dei cinquantamila (numero che si incrementava se si aggiungevano gli spettatori contenuti oltre le transenne e lungo i marciapiedi da piazza Duomo all’Arena). Passava il tempo e la calca non si sfoltiva, anzi si moltiplicava. Grappoli di persone sul monumento a Leonardo da Vinci, altri sulla piattaforma dei tram fermi. Molti scrutavano attraverso i binocoli per guardare meglio il Presidente venuto dal freddo.
 
Savini in Galleria
Via Manzoni

 

 

 

 

 

Tanti papà ingoiati dalla siepe avevano a cavalcioni i ragazzini, tutti ansiosi di cogliere quel “leader” nel momento dell’uscita dal Palazzo; i cronisti aggruppati di fianco all’edificio cercavano di catturare qualche notizia dall’amico o dal conoscente che sbucava, consigliere o assessore, vigile disponibile o chicchessia in grado di mettergli qualcosa nel paniere, pezzi di colloqui o altro: i poliziotti facevano fatiche di Ercole per mantenere inviolabili gli sbarramenti, in Galleria, nella piazza, in via Verdi, in via Manzoni. Intanto s’intrecciavano i giudizi sull’ospite, che per alcuni era un grande, per altri un uomo di Stato con la faccia e il portamento da vicino di casa, Premio Nobel per la pace. Era dicembre. Gorbaciov era accompagnato dalla moglie Raissa. Tenne una conferenza stampa insieme a Giulio Andreotti, in cui affermò che la Nato e il Patto di Varsavia dovevano diventare organismi sempre più politici e sempre meno militari. Disse anche che la primavera di Praga nel ’68 aveva delle giuste rivendicazioni di libertà. Ebbe poi una serie di incontri con eminenti rappresentanti del mondo imprenditoriale e culturale. Il primo appuntamento con Silvio Berlusconi, il quale lo invitò a colazione nella sua dimora di Arcore assieme alla moglie Raissa. Dopo, fu ricevuto nella sede della Regione Lombardia. Successivamente s’incontrò con altri personalità, fra cui Mario Monti, rettore dell’Università Bocconi; Paolo Mieli, direttore del “Corsera”… sul problema della sicurezza internazionale.

Piazza Duomo
Dal presidente Giovanni Spadolini gli venne il titolo di Bocconiano d’onore; e gli fu consegnata una scultura di Arnaldo Pomodoro. Giornata piena d’impegni: visitò il Castello Sforzesco, mentre la moglie deponeva una corona di fiori davanti alla casa di Nicola Benois, lo scenografo italo-russo che per trent’anni curò gli allestimenti alla Scala. Quindi si recò nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, nella piazza in sui si allarga corso Magenta, per visitare il “Cenacolo” e trovò il tempo per visitare qualcuno dei negozi più eleganti della città. I milanesi non hanno dimenticato quella visita del dicembre dell’89 del presidente dell’Unione Sovietica, che si batteva per la fine della guerra fredda, per la riduzione degli armamenti nucleari, per migliorare i rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa.
 
Feltrinelli in Galleria

Un uomo molto amato nel mondo, che oggi piange la sua scomparsa, avvenuta al Central Clinical Hospital di Mosca, dove era ricoverato per una lunga malattia. Un uomo simpatico, dal sorriso dolce, dai modi gentili, coraggioso. Un uomo di pace. Grande il dolore dunque nel nostro Paese, anche di singoli cittadini e di organizzazioni espressi sui social. “Asino di Martina Franca e Cavallo delle Murge: Original Chianconian Mares, sempre attento anche agli eventi internazionali, scrive: “Molti allevatori di Martina Franca piangono la dipartita di Michail Gorbaciov, e riporta una pagina di giornale con un intervento di Angelo D’Onghia: “Nel secolo scorso il direttivo e la presidenza illuminata Anamf ne apprezzarono scelte, risoluzioni e svolte politiche…”. Un leader che ha fatto la storia, per tantissimi. Si incontrò fra l’altro con i maggiori capi di Stato, tra cui il presidente americano Reagan, e con Papa Wojtjla in Vaticano.

Piazza del Duomo
L’ex direttore del quotidiano “Il Giorno”, Giovanni Morandi, ha pubblicato su Facebook una foto scattata durante una sua intervista all’uomo politico sovietico. all’epoca in cui il giornalista era corrispondente da Mosca. Morandi fu l’unico corrispondente a trovarsi, assieme ad un collega russo, nella piazza Rossa il 25 dicembre del ’91, quando Gorbaciov si dimise trasferendo tutti i poteri a Boris Eltsin. “Vidi la bandiera venir giù sul Cremlino per essere sostituita da un’altra”, informa senza alcuna enfasi Morandi. Sono in molti a rispolverare i meriti umani e politici di Michail Gorbaciov, nato il 2 marzo nel ’31, nel villaggio di Privol’noe, territorio di Stravopol, nel Sud della Repubblica russa, da una famiglia di contadini. “Uno statista che voleva la pace nel mondo”. Un mondo oggi sconvolto, tormentato, impaurito soprattutto per il conflitto contro il popolo ucraino, che combatte per non perdere la libertà. Una guerra che rischia di diventare globale. Gorbaciov ha raggiunto la moglie Raissa, scomparsa nel’99. E verrà tumulato accanto a lei. Messaggi di cordoglio ai familiari sono arrivati da ogni parte del pianeta. Quasi tutti i “leader” lo hanno ricordato: Macron, la Merkel, la Fonderlain, il capo del Governo italiano Mario Draghi, Gentiloni, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella... Silvio Berlusconi lo ha indicato come l’uomo che ha salvato la democrazia. La Rai ha trasmesso un’intervista di Vincenzo Mollica, che tra l’altro gli chiese quale fosse la sua canzone napoletana preferita.