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mercoledì 31 ottobre 2018

Uno zoo ambulante per una trasmissione tivù

Lombardi a sinistra, Presicci a destra
CANI, PAPPAGALLI, CORVI IMPERIALI A SPASSO PER LE STRADE DI MILANO

I motivi pubblicitari non si ponevano limiti. 

Il regista voleva riempire l’ottagono della Galleria con 80 palafreni, ma gli fu negata l’autorizzazione.

Correva il marzo del 1969. 

Uno spazio era dedicato ad Angelo Lombardi, l’amico degli animali.


Franco Presicci
A suo tempo a Milano hanno montato il tendone decine di circhi equestri, dai più importanti ai più modesti. Hanno dato spettacoli i Togni, gli Orfei, i Medrano, il circo americano… E anche quello del leggendario Buffalo Bill, alias William Cody, abile cacciatore di bisonti (un contratto con la ferrovia Kansas-Pacifico gli imponeva di uccidere dodici bisonti al giorno, impegno rischioso a causa degli indiani che battevano quelle zone), che si esibì con 1300 elementi, tra pellirosse e cow-boy, all’Arena nel 1894 e nel 1906, facendo rivivere anche la battaglia di Little Bill Horn in cui morì il generale Caster.
Dov'erano le ex Varesine
Quindi la gente, quando nel marzo del ’69 vide avanzare in piazza San Babila, diretto verso corso Vittorio Emanuele e sostare in Galleria un podista con un corvo imperiale sul cappello, un grosso pappagallo su un braccio e un cane bianco al guinzaglio immaginò che una “troupe” fosse arrivata al Campo Giuriati o alle ex Varesine, dove ci andavano anche le giostre (oggi la fisionomia del quartiere è radicalmente cambiata per gli arditi grattacieli che vi hanno innalzato). Nessuno pensò alla trovata di un folle, visto che non ne mancano certo, tanto che un docente di liceo scrisse un libro intitolato “Sono fra noi”. Ma la follia era estranea alla vicenda. La scena si ripetè qualche giorno dopo, quando, messo in gabbia il volatile e nella cuccia il dalmata, il personaggio si ripresentò in sella a un destriero, con la naturale eleganza di Laurent Franconi, un grande del circo di qualche secolo fa (il padre Antonio, nato a Udine, vincitore in un duello da lui stesso provocato, dovette espatriare e trovare rifugio in Francia, scoprendo il fascino della pista).
Corso Venezia
Chi aveva avuto l’occasione d’incontrare il personaggio all’apparenza stravagante e chi invece lo vedeva per la prima volta furono presi dalla curiosità e cominciarono a rivolgergli domande. Ed ecco la spiegazione: il cavallerizzo faceva pubblicità non a giocolieri, trapezisti, funamboli, clown’s, domatori di una compagine circense, ma a una trasmissione televisiva, “Gli amici dell’uomo”, che aveva come conduttore il cantautore Pascal Serra, proprio il signore che troneggiava sui lombi dell’equino. Per il quale il pubblico improvvisato, composto anche da trecento ragazzi delle scuole elementari, manifestò una certa contrarietà per la fatica che gli veniva imposta. “Ma no – li rassicuravano le insegnanti – fatica quella? I quadrupedi sono abituati a ben altro. Osservate invece la bellezza, l’imponenza di quell’animale, che al massimo si sentirà spaesato nel contesto urbano. Non sono più i tempi in cui i suoi antenati tiravano le carrozze per trasportare le persone da un punto all’altro di Milano, dalla mattina alla sera, e facevano pranzo e cena sula strada”. Le voci arrivarono all’orecchio di Serra, che a sua volta volle rincuorare gli alunni: “Ogni settimana va in onda un film girato tempo fa sulla strada per la Fiera e questo quadrupede ha trottato soltanto una volta”. Un giorno, forse per stimolare l’interesse per la trasmissione, forse perché stanco di svolgere un ruolo di secondo piano, il corvo cambiò il canovaccio: emettendo suoni metallici, durante le riprese promozionali, abbandonò la postazione sul borsalino del protagonista e dopo una serie di evoluzioni acrobatiche planò sull’edicola di piazza San Babila, affollatissima, mandando per aria quotidiani e riviste.
Galleria Vittorio Emanuele
Tutti, spettatori e passanti, s’impegnarono nel tentativo di acciuffarlo, ma quello era deciso a portare a termine il suo “show”, sfiancando i cacciatori. Mentre un signore sembrava sul punto di fermarlo, il corvo riprendeva il volo, atterrava e subito decollavaa. Se una mano gli si avvicinava troppo puntava verso corso Europa e tornava indietro o verso via Cino del Duca e faceva il girotondo; sfiorava il pavimento puntando minacciosamente il becco, saltava, zampettava, riprendeva il volo, scendeva in picchiata. Uno spettacolo fuoriprogramma che divertiva soprattutto i bambini. Alla fine il volatile perdette la partita e rientrò nel ruolo, lasciando senza fiato chi aveva tentato di neutralizzarlo. “Se la trovata del passeriforme non fosse stata estemporanea e fosse stata invece programmata - disse qualcuno al regista Giuseppe Recchia -, non avrebbe avuto lo stesso effetto”. A proposito di Recchia, le aveva pensate tutte per fare “audience”.
Corso Vittorio Emanuele tra Duono e Galleria
Per esempio gli era venuto in mente un ingresso fastoso nell’ottagono della Galleria Vittorio Emanuele con una quarantina di palafreni, ma dovette rinunciarvi per la mancata concessione delle autorizzazioni previste. Ma quella con il conduttore tv al volante di un’auto minuscola zeppa di animali accompagnata da una cinepresa in azione su un altro veicolo era un’ottima idea, molto applaudita dagli osservatori, che pensavano a un cast di Cinecittà; ma per l’autista un’impresa poco divertente, perché del carico faceva parte un mastino napoletano, che a tratti cercava di leccarlo. Pascal Serra comunque non si tirava mai indietro e trasportò anche due San Bernardo con regolare fiaschetta appesa al collo, belli nel loro pelo bianco e biondo-rame. Lui agli animali era davvero affezionato: aveva lavorato in pista sotto lo “chapiteau” fra saltimbanchi e ruggiti di leoni e aveva avuto anche un ghepardo. Quindi con quegli esemplari ci sapeva fare. Aveva dimestichezza anche con il merlo indiano, che come il primo aveva un carattere bizzarro: una sera stravolse la scaletta mettendosi improvvisamente a volicchiare sulle teste dei presenti, su alcuni cuccioli e su due levrieri, valore 8 milioni, di Caterina Caselli; e su un San Bernardo di Bobby Solo, entrambi ospiti d’onore.
Piazza Duomo
La trasmissione piaceva. Molti facevano la fila per essere ammessi nello studio; la gente a casa aspettava con ansia l’orario segnalato da “Settimana Radio Tv” e rimaneva incollata al teleschermo, anche perchè le puntate, che tra l’altro avevano come consulente un veterinario, si avvalevano di un angolo riservato a un personaggio famosissimo a quei tempi: Angelo Lombardi, che dal ’56 al ’64 aveva condotto un suo programma di 78 puntate, tutte importantissime e seguitissime, “L’amico degli animali”, con scimmie, serpenti, leoni e altri abitanti della giungla. Lombardi era ritenuto l’antesignano della divulgazione scientifica. Era nato in una famiglia di origini rurali, si trasferì in Somalia e si appassionò al lavoro di cacciatore di belve. Nel dopoguerra ridette vita allo zoo di Napoli che le bombe avevano distrutto.
Il Duomo

Il suo programma televisivo aveva scopi scientifici, perché di ogni esemplare raccontava le abitudini, gli “habitat”, il cibo di cui si nutrivano, la famiglia a cui appartenevano, il metodo di caccia, le caratteristiche (il giaguaro nuota bene, ma non ha la capacità di arrampicarsi del leopardo, che è all’erta di giorno e di notte e dopo aver ucciso la preda se la porta sugli alberi), ma anche educativi, perché invitava chi era al di là dello schermo ad avere rispetto per il mondo animale. Era uno dei maggiori fornitori dei parchi zoologici europei e fra i sostenitori dell’abolizione delle gabbie. Come Mike Bongiorno apriva le sue serate sul piccolo schermo inneggiando all’allegria, Lombardi diceva “Amici dei miei amici buonasera”. Il figlio, mi pare Angelo anche lui, seguì le sue orme. Negli anni 80 organizzò una grande mostra di rettili, “Serpentilia”, in un salone del Museo di Scienze Naturali in via Palestro, a Milano. Andai a visitarla – era una domenica, la cronaca languiva – e gli chiesi di mostrarmi le vipere, perché stando spesso in campagna a Martina Franca, me ne poteva capitare una tra i piedi. Dopo avermi accontentato, avendogli detto che quelle bestie mi facevano paura, fece tirar fuori dalla teca un serpente enorme, se non ricordo male un boa, esortandomi ad accarezzarlo. Mi feci coraggio ed eseguii. La trasmissione di Angelo Lombardi si svolgeva tutta nello studio, a differenza di quella di Serra, che prevedeva scene nelle strade e nelle piazze per motivi, come detto, pubblicitari. Con idee spesso originali. Come quella del conduttore in sella In Galleria, solenne come i circensi Charle W. Fish o James Robinson dopo il salto in avanti, il “casse-cou, che vuol dire rompicollo, o un volteggio alla cosacca o alla “circassa”. I milanesi non erano abituati a queste improvvisate, che non facevano neppure i grandi circhi, e nonostante il loro proverbiale andare sempre di corsa si fermavano ad ammirare l’auto piena di animali come uno zoo ambulante. Mancava l’elefante e magari l’urlo di Tarzan.





mercoledì 24 ottobre 2018

Il professor Piero Mandrillo

Mandrillo in un disegno


L’AUTOREVOLE CRITICO GRAMIGNA

ESALTO’ LA  SUA IMMENSA CULTURA


Docente di lettere, saggista, pubblicista, insegnò all’università di Wellington, in Nuova Zeland; scrisse decine di volumi anche in inglese.

Era ricco di curiosità; si occupava di arte, di storia, di costume.


Era alla mano, dialogava con tutti, gli allievi gli volevano bene.


Un suo parente, Cesare Mandrillo, ha scritto una sapiente biografia,


Franco Presicci
A volte quando Piero Mandrillo decideva di venire a Milano, e ci veniva spesso, mi telefonava da Taranto per comunicarmi il giorno e l’ora dell’arrivo. Io andavo a prenderlo alla stazione Centrale e pranzavamo a casa mia. Lo aspettavo con ansia, perché era amico da tanti anni e gli volevo bene. Tra l’altro, m’informava di tutto ciò che accadeva nella bimare e delle persone che non vedevo da tempo: chi aveva conquistato una scrivania in un giornale; chi si era sposato, chi laureato.
Mandrillo in una cerimonia a Pulsano
E mi parlava del “Corriere del Giorno”, che ogni tanto suscitava ansia in chi ci lavorava. Mi venivano in mente figure, come il giornalista Livio De Luca, trasmigrato laggiù anni prima dal capoluogo lombardo per amore; Domenico Casulli, che aveva lasciato la penna per i codici nella veste di notaio; Vincenzo Petrocelli, che curando la terza pagina ebbe l’idea di creare un periodico, “Katalogo”, avviato con un concorso letterario… Io davo a Piero notizie di Mario Ligonzo, che era invece salito al Nord chiamato dal “Corriere della Sera”, che lasciò poco dopo per il quotidiano del pomeriggio di via Solferino, perché stufo di passare le notti in redazione, nel salone nobile.

Presicci e Vincenzo Petrocelli sulla Michelangelo
Andammo a trovarlo al residence di corso Garibaldi, dove viveva, e riemersero i tempi della galleria d’arte che Mario aveva avuto in via Mignogna, e dei pittori, fra i quali il bravissimo Francesco Boniello, detto Ciccio, che vi avevano esposto. Mario era un tipo concreto, allergico alle nostalgie, e dirottò il discorso su Michele Calabrese, che in quel periodo abitava nello stesso albergo. “L’ho visto uscire. Sta facendo un giornale per le aziende. Alle 19 lo vedrai spuntare”. Ricchissimo di cultura, paziente, generoso, quasi sempre di buonumore (quando non lo era non lo dava a vedere), Piero si faceva ascoltare volentieri, qualunque fosse l’argomento. Un giorno, davanti a un piatto di orecchiette con le cime di rapa, che mia moglie aveva preparato per lui, gli chiesi: “Di che cosa ti stai occupando, adesso? ’‘Tra l’altro, sto facendo ricerche su ‘u chiùdde’: una parola del nostro dialetto che vuol dire pescatore. Ma siccome anche il destino delle parole muta, oggi sta per stupido. Secondo Giacinto Peluso forse viene da ‘ciurma’, che all’origine stava per un gruppo di rematori di una galera”. E fece tutto un discorso su questo termine, coinvolgendo il Rohlfs, l’autore della “Grammatica italiana e dei suoi dialetti”.

Mandrillo a sinistra, Baroni e Presicci
A me il nostro vernacolo è sempre piaciuto, anzi ne ero innamorato. A Milano avevo pochissime occasioni per usarlo, se non in famiglia, ogni tanto, e perciò seguivo Piero con interesse. Scrivevo filastrocche, ma non lo dicevo a nessuno, perché pensavo ai poeti veri, Diego Marturano, Alfredo Nunziato Majorano…, e temevo che, venendolo a sapere, da lassù mi avrebbero accusato di presunzione. Ma per Piero non avevo remore. Volle leggerne una, “Tarandìne furastìere”, e lo pregai di non essere severo. “Te la ricordi ‘‘a vìeremìenze’, Piero? Chissà quante volte l’hai percorsa anche per sentire i suoni della parlata di quella gente che dice “’mbòte” per tasca e “schife” per barca”; e pensavo ai versi di Majorano: “Lèrva sarvàgge e ddò’ pummedòre appìse hònne destrùtte sècule de storie”. Lui, nato a Pulsano, culla che non dimenticava, non solo conosceva la via di Mezzo, uno dei luoghi più antichi della città vecchia, ma anche vicoli e vicoletti, chiese e piazze. Parlasse di filosofia, di letteratura o di altro (quasi nessuna materia gli era estranea), erano ammirevoli la semplicità del linguaggio e la dovizia di dettagli. Non annoiava mai. Una sera, accompagnandomi a casa assieme ad un amico appassionato di storia, per tutto il tragitto parlarono di Denis Mac Smith e della sua “Storia d’Italia”. Un duello impari, ma elegante e con rispetto reciproco.
Michele Annese
Pur non abituato alle ore piccole, rischiai di fare notte; e quando mi salutarono continuarono a discutere. Piero parlava con tutti: era alla mano; non assumeva mai l’atteggiamento del professore. Il giorno dopo sorpresi l’amico davanti alla Sem. “Quel Mandrillo è un pozzo di scienza”, dichiarò. “Quando parla semina cultura, senza mettersi in cattedra”. Forse non ci saliva neppure a scuola. Insegnava dialogando con gli alunni. Ed era amato. Mi confidò che il genero, ingegnere, in macchina, lo aveva pregato di parlargli dell’anarchia; e non se lo fece dire due volte. Una mattina chiacchieravo con il poeta Diego Fedele, quando Piero spuntò da via Temenide all’altezza del Palazzo Latanza. “Sono pochi quelli che scrivono come lui. La lettura di un suo libro è come una passeggiata salutare lungo le rive del nostro mare mentre lecca la sabbia”, commentò l’autore “d’u rafanìdde”, “d’u conzagràste” e di tanti altri versi che erano galoppate in sella all’ironia. Piero si fermò pochi minuti e ci salutò scusandosi: aveva un appuntamento in piazza della Vittoria con un ex alunno, e riprese il passo con il ritmo del maratoneta. Quando non lo trovavo a casa sua, in via Di Palma, lo sorprendevo nel laboratorio di Giuseppe Barbalucca, medico pediatra e pubblicista, per un breve periodo capo della cronaca del “Corriere”, solitamente frequentata da Vincenzo Petrocelli, responsabile delle pagine letterarie dello stesso giornale, che allora era in via Mazzini, vicino al cinema Paisiello, da tempo scomparso.
Piero Mandrillo con Presicci
Spesso con Piero si discorreva degli artisti, degli intellettuali, degli imprenditori, che riuniva nei dibattiti su Tv Taranto. Nel ’79 fece una sapiente presentazione di Luigi Protopapa, autore di quadri stupendi eseguiti con gli scampoli delle pelli per le scarpe con un impeto artistico con cui “si staccava sempre più dall’olio e dal pastello…”. I suoi “collages” erano meravigliosi: “Quei ritratti di uomini (“Contadino il giorno di festa”), di donne (“La grande vecchia”)… raccolti in un elegante catalogo edito da Schena celebravano un colore che si modulava nella luce. Piero amava i frutti di mare e spesso andava a mangiare cozze pelose, ostriche, “spuènze”, capesante, ricci, noci in una pescheria aperta sotto le scale dell’ex ospedale “San Giovanni di Dio”, dove lo accoglievano con profonda simpatia. Lo accompagnavo, ma il mercoledì mi deliziavo al banco pieno di piatti copputi di un certo Miccoli lungo il Mar Piccolo. Avevo 25 o 26 anni. Nel ’64 ero a Milano, al “Giorno”. Piero saliva per andare a trovare la figlia Maria Teresa, a Monza, e giocare con il nipotino.
Raffaele Carrieri, di Mimmo Dabbrescia
E ne approfittava per intervistare grandi personalità: Il Premio Nobel Eugenio Montale nella sua casa di via Bigli; il poeta e critico d’arte tarantino Raffaele Carrieri (scriveva su “Epoca” e sul “Corriere della Sera”), che abitava in via Borgonuovo; Domenico Porzio, giornalista e scrittore, tra i fondatori di “Oggi”, nato anch’egli nel profumo dei nostri due mari. Mandrillo venne al “Giorno” per intervistare Giuliano Gramigna, grande, autorevole critico letterario passato da via Solferino in via Fava grazie a Gaetano Afeltra, direttore del quotidiano dell’Eni.
E qui accadde un episodio curioso: quando Gramigna sentì Piero esprimersi benissimo in inglese e citare Foster, Shelley e versi di Blake (“Sono andato al Giardino dell’Amore,/ e ho visto quello che non avevo visto mai:/ una Cappella era costruita lì in mezzo/ dove io giocavo sul prato…”), da intervistato si trasformò in intervistatore. Nell’articolo apparso su “Il Corriere del Giorno” da semplice accompagnatore risultai promosso a psicopompo.
Biblioteca di Pulsano
Era un uomo pieno di curiosità. Al “Giorno” volle visitare ogni angolo, dalle rotative alla tipografia, alla ribalta da cui le copie iniziavano il viaggio per le diverse parti d’Italia, alle redazioni, all’archivio, alla mensa. S’intrattenne con il proto, Stucchi, e con il suo vice, Ariberti; con l’impaginatore della prima, Strada, con il capo dei correttori, Corradi. Amante del teatro, andava a Firenze o altrove per vedere una commedia. Insegnò lingua italiana all’università di Wellington in Nuova Zelanda. Scrisse tante opere: “An english journalist in Italy”; “Carducci tra amore e poesia”; “Goldoni fuori della storia”, “Cesare Giulio Viola scrittore”; “Dieci anni di critica forsteriana”; “The noble Antipodean in Eclipse and hother essays”, edito da Schena… Amava i poeti tarantini compresi quelli di una volta. Mi recitò interi versi di “Galeso” di Armando Perotti della fine del XIX secolo: “E ancor tu guidi le sonanti e fresche/ acque, per dolce clivo, alla tranquilla/ spera del mar, tra floridi giunchetti/ fiume Galeso…”, caro a Orazio, a Virgilio, a Tommaso Niccolò D’Aquino, padre delle “Deliciae Tarentinae”… Piero Mandrillo amava l’Isola e lo sciabordìo dell’acqua contro le lampàre. E gli piaceva la poesia di Nerio Tebano, un tarantino che viveva a Roma (“Ho raccolto un po’ di sole/ lo terrò stretto tra le mani/ dono d’amore/ andrò nei vicoli/ di Taranto vecchia, schiuderò/ le mani, darò ad essi la luce…”. A Pulsano, dov’era nato il 7 ottobre del ’17, gli hanno intestato la bella, elegante, molto dotata biblioteca. E’ morto a Taranto il 7 settembre del 1989. Un suo parente, il professor Cesare Mandrillo, ha scritto una sua esauriente biografia.













mercoledì 17 ottobre 2018

Nunzio Schena, editore illuminato


Nunzio e Angela Schena
SPADOLINI SI DISSE ONORATO DI


AVERLO INCONTRATO A FASANO


Il Dalai Lama gli donò la sciarpa di
Lino;

Papa Woityla lo ricevette in
Vaticano, abbracciandolo. 
Sfornò oltre duemila volumi.

Lo scrittore Raffaele Nigro lo definì
un uomo antico. 

Nunzio era straordinario.

La sua generosità inimitabile. 

Più che al denaro guardava al prodotto.


  


Franco Presicci
Per Raffaele Nigro, giornalista Rai e autore di tanti libri (“Ombre sull’Ofanto”, “Adriatico”, “Dio Levante”…) Nunzio Schena era un uomo antico, di grande intuito. Per Angelo Di Summa “stampatore, editore, artiere, operaio, un immenso senso del lavoro”. Era anche un uomo generoso, affabile, disponibile. Nato in tipografia. Iniziò a produrre libri verso gli anni 50, quando sindaco di Milano era Virginio Ferrari; alla Scala era in cartellone il “Falstaff”; il “piccolo Teatro si ripresentò con un volto completamente nuovo; nelle sale cinematografiche si proiettava davanti a platee affollate “I vitelloni” di Federico Fellini, con Alberto Sordi, Franco Interlenghi… e e mieteva grande successo anche “Cronache di poveri amanti” di Carlo Lizzani, tratto dal romanzo di Vasco Pratolini.
Schena a sinistra con Paolo Grassi
Nelle stanze ariose della casa editrice Schena a Fasano, nei pressi della stazione ferroviaria, erano esposti oltre duemila volumi, tutti ben allineati sugli scaffali. Notai subito “Valle d’Itria, Cicerone di me stesso”, di Pietro Massimo Fumarola, prefazione di Paolo Grassi, che si diceva felice di aver letto questo testo “per quanto di tecnico ci ha detto sotto ogni punto di vista, sulla struttura e sulle ragioni dei trulli…”. Oltre che sulla storia, l’architettura, i valori “misteriosi e sacrali, l’immagine viva dei trulli nella bellissima Valle d’Itria…”. Un libro che presentammo, credo nel ’76, al Cida (Centro Informazioni d’arte), in via Brera a Milano, in una manifestazione per la Puglia, voluta ad Antonio Baroni, direttore del settimanale “Il Milanese”. L’occasione fu la comparsa sull”’Europeo” dell’inchiesta sui trulli di Salvatore Giannella. Il libro fu apprezzato da tutti, soprattutto da Domenico Porzio e da Vincenzo Buonassisi e dal famoso gallerista Guido Le Noci, presenti alla serata.
Nunzio Schena con Giovanni Spadolini
Di Nunzio Schena avevo sentito parlare con accenti entusiastici. Tutti dicevano che era una persona riservata, di notevole solerzia, capacità professionali e umanità. Il giorno del sessantesimo compleanno dell’azienda decisi di fargli visita e gli telefonai. Mi fissò un appuntamento alla Grafischena e fui come sempre puntuale. Mi trovai di fronte a un signore dai capelli bianchi e dai modi signorili. Ebbi l’impressione che non parlasse volentieri di sé; e che bisognasse insistere, ricordargli l’esigenza dei giornali di raccontare la biografia di un grande editore del Sud, un formicone di Puglia, come avrebbe detto Tommaso Fiore. Non stava molto bene, s’intuiva; e io non volevo trattenerlo a lungo. Era il 2003. Lui stava seduto alla scrivania, tenendo una penna in mano, e la figlia Angela, che oggi continua la sua opera, in piedi dietro di lui. “Sono pronto!”.
Schena con De Marsico
Ma arrivarono Vinicio Aquaro, presidente del Premio Nazionale “Valle dei Trulli”, e l’ex assessore del Comune di Milano Siro Brondoni, che con la moglie amava passare le vacanze a Ostuni. Aquaro, che conoscevo da anni, al saluto aggiunse: “Eccolo qua, il grande Nunzio”; e rivolto a me: “Lo sai che ha curato con attenzione, sensibilità e competenza ‘Lo Scudo’, il primo periodico pugliese, da lui stesso fondato?". E le opere di Alfredo De Marsico, principe del foro (odiava che nei salotti si commentassero le sue arringhe), docente universitario, ministro della Giustizia nel governo Mussolini)… Più che ai soldi, Nunzio ha sempre guardato al prodotto. Brondoni rimase in silenzio sino alla fine della conversazione, che seguì con attenzione e interesse. L’editore mi disse di darci del tu, mostrandomi simpatia, che ovviamente, era ricambiata. Era ricco di amici importanti e di estimatori: Aldo Moro, Giovanni Spadolini…
Nunzio Schena con Papa Wojtyla

Nel ’90 fu accolto in Vaticano da Papa Wojtyla, che elogiandolo lo abbracciò; e aveva avuto la sciarpa di lino, segno di eterna amicizia, dal Dalai Lama, all’uscita del libro “Tibet in fiamme”, di Bruno Zaratto. “Allora, Nunzio, sfogliamo questa tua splendida biografia?”. “Cominciai con le Arti Grafiche Schena, verso gli anni 50 nella centrale via Egnazia. Nel ‘68 istituii il Premio Nazionale di narrativa ‘Valerio Gentile’” per giovani scrittori. Nel ’72 mi trasferii nella strada (oggi intestata a lui: n.d.a.), che sfocia nel piazzale della stazione”. Si fermò un attimo; riprese, accennando a una temerarietà giovanile, che, divertito, apprezzai: per andare da Fasano a Putignano per impaginare il suo giornale, “per guadagnare tempo, cavalcando una vecchia bicicletta malandata, mi tenevo aggrappato a una sporgenza della parte posteriore della corriera fino a Laureto, dove, mollando la presa, la sorpassavo, anticipandola a Locorotondo”. Qui, corridore provetto e solitario, prendeva la strada per Alberobello, la sfiorava e imboccava quella per Putignano. “Nell’83 stampai a tempo di record (25 giorni anziché un mese, termine previsto dal committente, l’università di Pavia) un volume importante...”. Non seguiva un ordine cronologico nel riferire i ricordi. Il nome della Grafischena già superava i confini della Puglia.
L'editore Schena con Spadolini
Giovanni Spadolini, docente universitario, a 30 anni direttore del “Resto del Carlino” di Bologna, quindi al volante del “Corriere della Sera”, autore di tanti libri tra cui “Il Tevere più largo”, andò a trovarlo e poi si espresse così: “Essere qui a Fasano da un editore del Mezzogiorno che ha il coraggio di alimentare la pianta della cultura al di là della convenienza economica; che è impegnato in tante imprese anche appoggiato dagli atenei della Puglia e della vicina Basilicata è per me motivo di orgoglio”. Ma Nunzio non si vantava di questo e di tanti altri giudizi esaltanti. Come non si vantava delle tante onorificenze che riceveva.
Schena con il Dalai Lama
Oltre alla sciarpa di lino del Dalai Lama, il titolo di “Chevalier dans l’ordre des artres et des lettres” conferitogli dal governo francese; e quello di Grand’Ufficiale al merito della Repubblica, nell’88, del nostro presidente della Repubblica; la laurea “ad honorem” in lettere concessagli dall’Università pavese…“Fai onore alla Puglia , e non solo, Nunzio. Hai costruito un edificio solido e prestigioso. Sei un esempio”. Non colse. “Mossi i primi passi rilegando libri, quando questa attività non era molto frequentata; e maneggiavo compositoio, vantaggio e piombo nella tipografia di Callisto De Robertis, a Putignano, dove confezionavo anche “il giornale Il Seggio”, titolo ispirato da un’antica piazza di Fasano. Nell’immediato dopoguerra frequentai a Milano la tipografia dell’Opera di don Guanella. Dovevo crescere, se volevo mettere in piedi una mia fabbrica”. Che non poteva non essere accasata a Fasano, la sua culla. “M’improvvisai anche rappresentante di cartiere per poter spiare il lavoro delle tipografie”. A poco a poco Nunzio Schena diventò grande, ottenendo la stima di tante personalità.
Premio assegnato alla Biblioteca di Crispiano
Nunzio Schena
Nell’87 la casa editrice prese parte alla “Buchmesse di Francoforte e al Salone del Libro di Torino. Suoi volumi vennero presentati alla Terrazza Martini di Milano. Fu lui a suggerire, d’accordo con Spadolini, il nome di “Ignazio Ciaia”, poeta e patriota francese, presidente della Repubblica napoletana nel 1799, morto sul patibolo, per il Premio in libri istituito dalla Fondazione Nuove Proposte, presieduto da Elio Greco, di Martina Franca. Al nome di Ciaia fu aggiunto quello di Schena dopo che il riconoscimento era stato conferito a lui, che per cementare il suo opificio lavorava in media 12 ore al giorno. Ad un certo punto, fingendo: “La mia memoria fa cilecca”, forse nell’intento di smettere di narrare la trama del suo lungo cammino. Ma nello stesso tempo non voleva dispiacerci. “Sono del ’25, ma non posso morire, perché mi hanno riferito che l’inferno ha fatto il pieno, non c’è più nemmeno un posto”. Angela, sempre in piedi dietro di lui, sorrise. “L’inferno? Tu sei destinato altrove, quando il Signore vorrà, caro Nunzio”. Un anno dopo Nunzio Schena se ne andò in punta di piedi, com’era vissuto. Michele Annese, direttore della biblioteca di Crispiano e segretario generale della Comunità montana della Murgia, mi dette la notizia commuovendosi. “E’ stato un editore illuminato, un uomo con notevoli virtù, intelligente, buono, affabile, ospitale, schivo di lodi. Ha pubblicato migliaia di testi anche scientifici curati da illustri esperti; e riviste importanti di filosofia, di letteratura... Ha dato davvero tanto alla nostra regione, e non solo”. Il Comune di Fasano lo ricordò in una cerimonia, alla quale parteciparono cattedratici, scrittori, tanti ammiratori di quest’uomo superlativo. Sono tornato, un paio di anni fa, come in pellegrinaggio, davanti alla vecchia sede della Grafischena. Pochi metri prima, sulla destra, ho notato un ulivo saraceno piegato come in preghiera; un altro sostenuto da blocchi in cemento come un vecchio da una stampella; un terzo poco più lontano da qui adagiato sull’erba, ma non per stanchezza. Gli ulivi, piante di pace (ne portava un ramo nel becco la colomba che annunciò a Noè la fine del diluvio) a volte assumono forme scultoree. Quasi monumenti.







mercoledì 10 ottobre 2018

Lo scrittore Giacinto Peluso


Giacinto Peluso
NEI SUOI PREZIOSI SCRITTI


HA RACCONTATO TARANTO




Un uomo di grande umanità.

Docente di francese, bravo
e severo, era amato dagli allievi.

Scrisse articoli e libri con una
semplicità che attraeva i lettori;
descriveva con efficacia le vie,
le figure, gli usi, le credenze di
una volta…

Ci ha lasciato anche
una dettagliata Storia di Taranto.








Franco Presicci

Tantissimi anni fa, quasi settanta, Giacinto Peluso insegnava francese all’Istituto Magistrale “Livio Andronico”, in corso Umberto, a Taranto (poi passò al liceo “Quinto Ennio), ed era, lo dicevano tutti, bravissimo e molto severo. Una mattina la classe, come si usava allora, al suo ingresso si alzò in piedi a mo’ di saluto, e un allievo, quando gli altri si rimisero a sedere, si fece coraggio e disse: “Professore, sotto il mantello del leone lei ha un cuore d’oro”. Il docente lo guardo fisso per qualche momento e poi: “Oggi parliamo del poeta La Fontaine, brillante, vispo con gli amici che gli andavano a genio, compreso Racine, che gli forniva consigli che lui non ascoltava”. Era il suo modo di suscitare subito l’attenzione. Proprio all’uscita dalla scuola Piero Mandrillo, che mi stava accompagnando, a passi lenti, al Museo Archeologico, conversando di diritto, altra materia che non gli era estranea, lo vide spuntare tra l’onda degli studenti e me lo presentò.
Antonio Mandese e Sgarbi
Consegna premio Libreria Storica a Mandese
Qualche mese dopo lo incontrai alla libreria Filippi, che era in piazza Maria Immacolata, da molti chiamata ancora Giordano Bruno. “Mandrillo come sta? Lo sai che ti stima? E ha ragione perché io leggo ciò che scrivi sul ‘Rostro’ di Franco Sossi, che a sua volta è molto considerato da Palma Bucarelli, la direttrice della Galleria di Arte Moderna di Roma”. Avevo meno di vent’anni ed ero felice dell’apprezzamento. Ma non riuscivo a ricambiare il tu con cui si rivolgeva a me. Prima di congedarmi mi raccomandò di non abbandonare il mio stile agile, vivace e di non usare mai parole difficili o straniere, ”che possono infastidire il lettore”. Una stretta di mano concluse il dialogo; poi lui s’incamminò verso il cinema Odeon, da tempo scomparso in via Di Palma; e io verso piazza della Vittoria, dove speravo d’intercettare l’amico Franco Zoppo, che insegnava al liceo “Archita”. Con il trascorrere del tempo Giacinto Peluso lo persi di vista. Piero Mandrillo, no. Frequentavo la sua casa; i luoghi che abitualmente praticava: lo studio, in via Monfalcone, di Giuseppe Barbalucca; la redazione del “Corriere del Giorno”, dove andava a trovare il direttore Giovanni Acquaviva, Franco De Gennaro e lo stesso Barbalucca, di professione pediatra. Era stato il poeta Diego Fedele (di cui ricordo i versi “d’u conzagràste”, “d’u zucàare”, “d’u caggiunìere”, “d’u pezzàre”…) a stabilire il primo contatto; e da allora a poco a poco nacque un’amicizia solida, tanto che scelsi la sorella Caterina, moglie di Pasquale Scardillo, esperto di sport che all’epoca scriveva parecchio sul “Corriere”, come madrina di battesimo di mio figlio.

Piero Mandrillo e Presicci
Piero parlava spesso di Peluso, commentando, sempre positivamente, i suoi scritti sul quotidiano tarantino. Un pomeriggio, dopo una scorpacciata di cozze pelose, ostriche, capesante, cannolicchi, “spuènze”…, in una pescheria che stava dalle parti dell’ospedale “Santissima Annunziata” (di solito io li assaporavo al banco pieno di piatti panciuti di Giuseppe Micoli, che stava sulle rive del Mar Piccolo) mi sollecitò a leggere gli articoli dell’illustre concittadino, che mi avrebbero fatto amare di più la nostra città. “Guarda che io seguo già, Giacinto. Mi arricchisce con le sue storie, mi delizia il suo stile semplice ed efficace e mi fa conoscere meglio Taranto, i palazzi, le vie e i personaggi di una volta. Sa tutto di quella Taranto e la racconta con passione”. Per esempio, io ho vissuto l’epoca del lume a petrolio. Quando ero piccolo in casa ne avevamo uno di rame un po’ ammaccato. Ma una pagina di Giacinto mi ha ricordato termini come “cazzettèlle”, “bècche”, “tùbbe”… e i vari tipi di lume, compreso quello americano. Descrizioni dettagliate e interessanti, che coinvolgevano “’u conzalume”, che girava tutti i giorni con il compito di rimettere in senso i lumi che presentavano qualche problema. Allora non avevo neanche sentito parlare “d’a Sanda Moneche”. In “Taranto da un ponte all’altro” edito da Mandese in una veste elegante e ricca di immagini d’epoca, m’imbattei nelle donne che nelle occasioni importanti, come il matrimonio di una figlia, si sedevano il giorno di San Pietro e Paolo sul balcone di casa e dopo aver recitato “Pe Ssan Pietre e ppe Ssan Paule mègne ‘na petre a cci vene mone”, e dalle reazioni del passante interpretavano la sorte.

Cozze e frutti di mare 40 anni fa alla Dogana
Anche oggi ho in bella vista nel mio studio il patrimonio di Giacinto Peluso, tra cui il volume “Taranto: dall’Isola al Borgo”, pubblicato dal Comune di Taranto e dalla Regione Puglia. Lo cercai forse una ventina di anni or sono, ma era introvabile. Lo pescai nella Biblioteca “Carlo Natale” di Crispiano, che Michele Annese aveva infoltito e ordinato con una premura e una pazienza da frate certosino. Un’opera da consigliare non solo per le figure come “meste Sabine e cumma’ Sufije”, “Mazzòcchele”, il copialettere di don Luigi, “Necòle ‘u cecàte”… alcuni conosciuti personalmente dall’autore, mentre altri riferiti da persone più anziane e degne di fede. Come per esempio il suo bisnonno paterno, meste Rafaèle, deceduto a Milano nel 1912, un anno dopo la sua nascita. Aveva tenuto una barbieria nella Strada Maggiore, nella città vecchia, dove Giacinto era nato e vissuto, in via Le Fogge, oggi Paisiello, per moltissimi anni, quando era in voga “Tripoli bel suol d’amore”, brano scritto nel 1911 da Giovanni Corvetto e musicato da Colombino Arona. Nelle mie rimpatriate non potevo fare a meno di andare a fare quattro passi al di là del Ponte Girevole, imboccando la discesa che porta a via Garibaldi; mi soffermavo ad osservare “le paranze” e poi, giunto all’altezza di piazza Fontana, risalivo verso San Domenico, m’inoltravo nei vicoli, “indr’a vieremìenze”, cercando d’individuare gli ambienti dei primi del ‘900 di questo scrittore sensibile, delicato, capace di un’ironia garbata, rispettosa, soprattutto quando riferisce episodi di persone dai comportamenti stravaganti o obiettivo di scherzi da parte di birbanti inveterati.
La Settimana Santa a Taranto
Taranto da un ponte all'altro

Uno di questi venne escogitato una ora durante la Settimana Santa: con cinque o sei “spinghele francise”, approfittando anche della scarsa illuminazione, un burlone legò le gonne di due signore che sedute una accanto all’altra erano incantante dal predicatore che tuonava dal pulpito. Un vizio antico, quello dei tarantini, il cosiddetto “spottò” (vé sputtènne ‘a màzze de San Gesèppe”). Da bambino sentivo parlare dell’aùre”, un folletto che poteva assumere varie forme, anche paurose, ed essere benevolo, promettendo ricchezze per la famiglia, che improvvisamente trovava monete o altri oggetti di valore; ma anche aggressivo, facendo sparire le cose, tanto che c’è il detto “se l’ha pigghiàte l’aure”. Mia madre sosteneva di averlo visto occhieggiare da un lato dell’armadio, ma non si soffermava mai sull’esperienza, avendone ancora paura. Già nelle prime pagine del prezioso volume “Taranto da un punto all’altro” Peluso fa la storia di questa credenza popolare, partendo dagli antichi romani. Una mattina – forse il ’95 - ero sul pullman, affollatissimo, che porta alle dieci palazzine, a Solito, quando mi sentii chiamare a voce alta. Mi girai, scrutai, notai una testa calva che cercava di emergere e con molta difficoltà raggiunsi la postazione: un signore dalla faccia tonda e sorridente mi chiese come stessi, come mai mi trovassi a Taranto, aggiungendo che mi leggeva con interesse sul “Giorno”.
La città vecchia
Io non riuscivo a capire chi fosse, e non me la sentivo di chiedere a lui. Mi venne involontariamente in aiuto: “E tu mi leggi sul “Corriere del Giorno?”. Immediatamente cominciarono a scorrere i ricordi: “Certo che la leggo. Lei sa che ci collaboro anch’io. Il presidente Nino Bixio Lomartire, condividendo la richiesta del capo redattore Vincenzo Petrocelli, mi manda il giornale a Milano e non posso non leggere le sue storie che arricchiscono chi ama Taranto e i suoi contributi attenti, scrupolosi, interessanti, anche sul vocabolario di Gigante, all’interpretazione e alla storia di molti vocaboli del nostro dialetto, così ricco di suoni”. Scendemmo alla stessa fermata, e gli chiesi dove avrei potuto trovare il libro in cui parlava del gioco del lotto a Taranto agli albori del ‘900. “Mi resta una sola copia di un’edizione pubblicata nel ’32, te la presto, quando avrai finito di consultarla me la restituisci. Ma sta per uscire da Mandese una nuova edizione, che io mi affretterò a spedirti con tanto di dedica”. Divorai “Tutte le ruooote!” e poi andai a casa sua per compiere il mio dovere. Dopo qualche tempo ricevetti il volume accompagnato da un biglietto, che conteneva un “ex libris” eseguito dal fotografo-pittore Salinati, con studio in via Di Palma, davanti all’edicola Passiatore. Glielo avevo regalato come segno di affetto. Nel biglietto era scritto: “L’ho conservato per 50 anni, adesso è meglio che lo tenga tu”. Passò qualche mese e una telefonata di Nicola Mandese mi annunciò che Giacinto Peluso non c’era più. Si era spenta una delle più significative voci della città bimare. Un cantore di Taranto. Un uomo di grande umanità. Un autore delicato e prolifico, che ci ha lasciato anche una Storia di Taranto.

"Dialogo" 9 luglio 1993







mercoledì 3 ottobre 2018

Aveva una gran mole di esperienze


 
Tanino Gadda

IL GIORNALISTA TANINO GADDA

IL GENTILUOMO DELLA PENNA



Aveva scritto libri, vinto un premio,
sapeva tutto della nera. Se un collega
giovane gli chiedeva aiuto, rispondeva
con frasi brevi ed essenziali. Era dolce,
affabile, generoso, attento, scrupoloso.
Un mito.



Franco Presicci
Il giornale era per me casa e bottega. In occasione di avvenimenti straordinari come la strage di via Palestro, la sera del 27 luglio ’93, passai la notte tra la strada e la scrivania per raccogliere il maggior numero di particolari. La redazione di Cronaca degli anni ’70-80 era galvanizzata. 

Lotito, Gadda, Basso, Presicci
I colleghi, bravissimi, volenterosi, erano sempre pronti all’appello e al sacrificio. Cinque eravamo alla nera: Piero Lotito, Giancarlo Rizza, Giorgio Guaiti, Giovanni Basso. Poi tre presero ognuno un’altra strada: la scuola, la cultura, la confezione delle pagine. Gaetano Gadda, Tanino per gli amici, aveva lasciato da un po’ il giornalismo attivo: dopo aver accumulato una gran mole di esperienze stendeva le notizie che un altro grande, Giancarlo Rizza, trombettiere dalla questura, gli telefonava ogni giorno, e curava una rubrica, “Cani e Gatti”, assegnatagli per il suo amore autentico, senza leziosaggini per gli animali. Aveva fatto parte del gruppo che nel ’56 accompagnò la nascita del “Giorno” in via Settala, dopo una breve parentesi al quotidiano “Stasera”, se non sbaglio diretto da Angelo Rozzoni, mitico vice-direttore del “Giorno” e nemico delle raccomandazioni da qualunque parte provenissero.

Il vecchio palazzo del Giorno in via Fava
Per lui contava il merito. Lo rivedo, Tanino, seduto alla sua scrivania a “L”, di fronte alla mia, dove batteva con velocità i tasti di una vecchia Olivetti (le innovazioni tecnologiche erano alle porte), fermandosi solo per rispondere a qualche domanda di un collega o per fumare una delle sue Kim, tenendo gli occhi dietro gli occhiali a mezzaluna. Ogni tanto si alzava, le mani nelle tasche dei pantaloni, faceva un piccolo giro fra i tavoli guardando oltre la finestra, che si spalancava su un quadro quasi agreste, attraversato dai binari diretti alla stazione Centrale. E stava attento alla radio, che seguiva le pulsazioni della città. L’aggeggio ci segnalava immediatamente un omicidio, una rapina, un sequestro di persona, mobilitandoci: uscivano di corsa con autista e fotografo e giunti a destinazione chiamavamo Tanino per informare il giornale della rilevanza del fatto. Al rientro, dopo aver spigolato a dovere, componevamo l’articolo; e il fotografo, chiuso nel laboratorio al decimo piano, stampava le immagini. Mentre le dita di Tanino, sottili come quelle di un pianista, saltellavano sui tasti, gli altri colleghi mietevano notizie nei territori di loro competenza, le orecchie attaccate al telefono. Ogni tanto irrompeva il capocronista Enzo Catania, capelli, barba, baffi neri che gli nascondevano le labbra, per dare un annuncio, ma Tanino non si lasciava distrarre, neppure per un attimo.


Elena Golino, Gorio, Lotito, Presicci
Consegnato il lavoro, scambiava qualche parola con me o con Lotito, ma mai una chiacchiera. Una volta, letto un articolo sulle bische firmato da un noto e apprezzato segugio del “Corriere”, depose il giornale sul tavolo e commentò: “Niente di nuovo. Da lui mi aspetto ben altro”. Il pezzo era un impasto di ingredienti risaputi. Lesse l’attacco di una cronaca (“Fermi tutti è una rapina!”), e chiese, stupefatto: “Di chi è”? Era stato un giovane praticante, che provò imbarazzo ma ricevette subito l’indulgenza: “Tranquillo, anch’io ho compiuto a suo tempo degli errori”. Tanino aveva scritto anche romanzi gialli, pubblicati da case editrici prestigiose. Ma non ne parlava mai con nessuno. Non era uno che mettesse in piazza le sue glorie. E non si irritava mai, era gentile, disponibile, mite, dolce, affabile. Non accendeva polemiche; se una discussione prendeva una piega sgradita svicolava con eleganza. Era un esempio. Una mattina dell’85, dopo 29 anni al “Giorno”, ci comunicò la sua decisione di andare in pensione; e nel salone “open space” della Cronaca piombò il silenzio, in attesa di una spiegazione. “Avrò più tempo per dedicarmi alla lettura”. Già leggeva molto. In casa non teneva la televisione, per avere più tempo per seguire i suoi autori preferiti.

Il cronista Giancarlo Rizza
Il suo posto rimase vuoto a lungo. Rizza, poi diventato caposervizio, con il suo stile brillante, prese a scriversi le notizie che scovava in via Fatebenefratelli e dal giornale scomparve la figura dell’estensore. A 71 anni Tanino fu colto da un infarto alla fine di una partita a San Siro. Ai funerali, a Lentate sul Seveso, s’incolonnarono i colleghi della sua Cronaca e delle altre redazioni. Nessuno fece l’elogio funebre, in ossequio alla sua riservatezza. Dopo qualche giorno Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei Giornalisti lombardi, mi telefonò per chiedermi un ricordo del collega scomparso e di ciò che era successo a Milano durante la sua vita al “Giorno”, da pubblicare su “Tabloid”, il periodico della nostra Associazione. “A Piero Lotito – aggiunse - ho affidato un secondo pezzo. Scrivete a volontà, non vi do un limite”. Io ero a Martina e scrissi sul filo della memoria, rispolverando le stragi, come quella di Moncucco, il 2 novembre del ’79, otto morti, fra cui sette perchè testimoni; quella del Lorenteggio, nel novembre ’81, quattro vittime che avevano osato compiere una rapina in una bisca; i sequestri di persona, tra cui quelli di Nasisi, Zamberletti, Lavezzari; i più clamorosi assalti agli istituti di credito, con sparatorie sanguinose; il furto miliardario alla banca nazionale lombarda di piazza Diaz nel maggio dell’84; la rapina al banco di Napoli di largo Zandonai, il 25 settembre ’67, organizzata dalla banda guidata da Pietro Cavallero, che scatenò un mezzogiorno di fuoco con morti e feriti; gli spietati boss di Milano e le loro imprese; le irruzioni nelle sale del gioco d’azzardo per la conquista del monopolio; i massacri delle brigate rosse, come quello del gennaio ’80 in via Schievano, caduti tre poliziotti del commissariato Ticinese: l’appuntato Antonio, Cestari, il vice-brigadiere Rocco Santoro, l’agente Michele Tatulli, che guidava l’auto; l’uccisione dell’orefice Torreggiani , dei giudici Alessandrini, e Galli, docente e studioso di criminologia. E naturalmente raccontai la personalità di Tanino, il suo valore professionale, il lavoro che aveva svolto a suo tempo anche nella sala-stampa di via Fatebenefratelli con colleghi eminenti, come Mario Berticelli, Salvatore Conoscente, Arnaldo Giuliani, Gabriele Benzan, Alfredo Falletta, Mercuri, Max Monti… giovani e già apprezzati quanto lui. In quegli anni aveva conosciuto Mario Nardone, il “Gatto”, allora commissario, noto per le sue imprese ardite e solitarie, tra cui l’arresto di un rapinatore di origini contadine, ma scaltro e veloce come una lepre. Tempi duri, per i cronisti. Per catturare una notizia bisognava sudare le famose sette camicie. Non c’erano ancora le conferenze-stampa e il pane occorreva procurarselo anche tampinando un poliziotto disponibile. 

Mario Jovine nella sua casa di Bologna
Tanino Gadda e Luisella Seveso















Nei corridoi della questura s’incontravano bocche cucite. Oltre a Nardone, Mario Jovine, Vito Plantone, Ferdinando Oscuri, il maresciallo di ferro, che difendevano le indagini con ostinazione. Plantone aveva stima e rispetto del lavoro dei cronisti, ma se scuciva un dettaglio, una nota di colore era per tutti. Niente favoritismi, neppure per gli amici. I cani da tartufo lo aspettavano fuori del portone della questura, lui offriva loro da bere o un panino e parlava dopo essersi accertato che ci fossero tutti. Max Monti, del “Corriere”, fingendo di fare la pipì contro la parete, si appostò sotto la finestra della stanza in cui Mario Nardone stava interrogando Rina Fort, la giovane donna accusata di aver ucciso la moglie del proprio amante e i suoi tre figli. Nel suo splendido articolo Piero Lotito accennò al carattere di Tanino, ai suoi giudizi sul giornalismo (“… è il più bel mestiere se lo fai da cronista semplice senza gradi…”), ai suoi libri… Del ’73, “Il complice del suicidio” che, fatto uscire da Raffaele Crovi con Fabbri, vinse il Premio Gran Giallo di Cattolica. Nel ’72 era apparso in libreria con Pan editrice “Uno dei tanti”. In pensione Tanino aveva resuscitato antichi amori: la poesia, il teatro e minimi appunti storici per “Il Giorno”. ”Aveva anche lavorato, limando e ripensando, a un romanzo su uno dei momenti più neri della storia milanese: l’assassinio del commissario Luigi Calabresi”. Tanino Gadda aveva incontrato tante persone importanti, tra cui Alberto Tedeschi, conoscitore di gialli e di giallisti come pochi. Nel ’74 aveva partecipato a un dibattito sul giallo per “Tuttilibri”, presenti gli stessi Crovi e Tedeschi, Attilio Veraldi, Oreste Del Buono, Carlo Casalegno. In quell’occasione affermò che le sue esperienze di cronista gli avevano insegnato che il delitto perfetto esiste, eccome, e che solamente qualche volta il colpevole viene scoperto magari per caso. Passigli stava per licenziare il suo “Le maschere del mistero”, in cui a Tantino Gadda era dedicato un capitolo intero. Lotito era legato più di tutti a Tanino, con il quale spesso andava in una trattoria vicina alla sede del “Giorno”, un fungo superbo eretto in via Fava. E lì, abusando della tolleranza della sua ulcera, il grande Gadda sceglieva cibi forti per fare onore all’ospite, che vedeva delinearsi la personalità e la storia di questo collega che ha lasciato tracce nel nostro cuore.