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mercoledì 11 giugno 2025

Due personaggi che hanno cantato Taranto

SAVERIO NASOLE E MIMMO CARRINO DUE NOMI DA NON DIMENTICARE

 

Mimmo Carrino

Una delle poesie più commoventi di Nasole è “A ppane mastecate u ste crescìme”. Poeta autentico, che si espresse nel nostro dialetto così armonioso. Carrino con la sua chitarra deliziò il pubblico con le sue canzoni.

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI

(foto di Antonio De Florio)

 
  

I bambini indesiderati o nati da un amore clandestino che avrebbero portato disonore ad una famiglia venivano collocati nella Sacra Ruota o Ruota degli Esposti, che si trovava prevalentemente nei conventi e aveva l’affaccio sulla strada. Provvedevano i monaci ad educarli e avviarli al sacerdozio o affidandoli a qualche coppia che li desiderava. Chi doveva disfarsi del “fagottino” si avvicinava alla Ruota di notte, quando nessuno poteva vederlo; o incaricava qualcuno di compiere il misfatto. Era una pratica che non riguardava soltanto il nostro Paese.
Saverio Nasole

Era dunque la necessità di tenere segreto quello che era considerato un peccato e a volte era la miseria a spingere tante madri a disfarsi del neonato. I monaci venivano avvertiti della nuova presenza dal suono di una campanella, uno di loro si avvicinava alla ruota e apriva la porticella che dava all’interno. Non sempre le madri abbandonavano i figli senz’alcuna sofferenza.
Saverio Nasole, poeta delicatissimo, autore di tanti bellissimi versi e anche di testi teatrali) scrisse una poesia meravigliosa e commovente, “’A ppàne mantecàte u ste crescime”. Bella, davvero bella, ricca di armonia: ogni rigo una lacrima. Scritta in dialetto tarantino, con un po’ di buona volontà la può capire anche chi non conosce la nostra parlata, che è un linguaggio dell’anima. Le pagine di Nasole sono sempre toccanti. E’ poeta vero, attento alle dinamiche della società in cui si vive.
Mille volte grazie ad Antonio De Florio, che ha ripescato i versi che propongo: “Indr’a ‘nu strittelìcchie/ e nu cambàme sule de fatje/ a sorta nostre no’ n’a jastemame/ piccè tenime spèranze e fede a Dje/ cu ne de’ sembe luce e sanetate/ pe’ quiste peccennùdde abbandunate/ a ppane mastecte u ste crescime…”. Quanta passione, quanta sensibilità e quanto amore in questa lirica, per questo dono ricevuto, che dà alla casa gioia e calore, instillando il desiderio di un abbraccio senza fine. Il bimbo è stato accolto in una casa povera, acqua e pane, ma la sua vita sarà serena. Cum’a ‘na chiande ha mmise le radici/ indra ‘stu core nuestre ‘stu piccinne/ e Gesecriste cu nu bbenedice”.
L’abbraccio è grande, la felicità della coppia pure. Il neonato ha una famiglia, non è un pacco da trasportare da una parte all’altra. E’ come fosse il frutto di un amore autentico; l’amore è un miracolo, ricrea, dà conforto e sicurezza. Il vagito di un bimbo può creare un’atmosfera di estasi, anche se dovrà vivere tra le reti, le nasse, le “zoche de le còzze”, nello spazio e nel cuore di pescatori.
Pescherecci e pescatori

E’ tanta la squisitezza di questa poesia, che fa emergere i sentimenti più veri e più profondi. In ogni verso s’annidano i palpiti del cuore del poeta, la sua riconoscenza per quel regalo divino. La poesia coinvolge, trascina, rapisce.
Via Garibaldi


Conobbi Nasole una vita fa, nella città vecchia, una sera in cui si recitava all’aperto, tra le facciate screpolate delle case, le finestre scricchiolanti; i negozi chiusi, i bassi semiaperti con le donne sedute fuori a fare da spettatrici; palcoscenico la via, breve e stretta, da cui si vedeva Mar Piccolo. Saverio Nasole era tra gli spettatori, riservato, come al Dopolavoro Ferroviario quando recitarono “’A stutate”, esaltata anche da “La Voce del Popolo” dei fratelli Rizzo (si stampava in una tipografia in piazza Bettolo). La gente si alzò in piedi applaudendo, mentre Nasole mostrava la sua soddisfazione con un sorriso leggero. Poi chiese un giudizio a Rizzo e il critico gli rispose che avrebbe preferito un altro finale. Solo quello. Il resto era un capolavoro.
Il ricordo di Saverio Nasole è sempre vivo, nonostante siano passati anni dalla sua scomparsa. Tempo fa un artigiano che realizzava “perdune” di terracotta con la calamita di fronte al “museo” di Nicola Giudetti, nella città vecchia, mi parlò dell’esistenza di un sodalizio degli amici del poeta.
Conversando con Antonio De Florio, collezionista di migliaia di foto e documenti sulla nostra Taranto, studioso della storia della città dei due mari, dei costumi antichi, ricercatore di vecchissime storie, è riemerso un altro personaggio, deceduto pochi giorni fa a 77 anni: Mimmo Carrino, che interpretando con la sua voce e la sua chitarra, soprattutto con la sua maestria indiscutibile, la lirica “A ppane mastecate u ste cerescime” ne esalta le virtù che hanno reso Nasole “immortale” . La voce di Carrino e le corde del suo strumento accrescono la commozione.
Mimmo Carrino
Carrino è anche lui un personaggio notevolissimo. Soprattutto negli Settanta si esibì da autentico padrone della scena anche nelle antenne private. La canzone che lo aveva imposto a un vasto pubblico s’intitola. “’A frusckelona mèje”. Una vera folla assisteva alle interpretazioni di Carrino. Lui e Nasole erano legati al dialetto come l’edera che si attorciglia ai tronchi degli alberi, alle facciate dei palazzi, ai pali della luce, ai muri a secco, senza mai abbandonare la presa. Carrino ha dato l’anima a Taranto, questa città regina, abbracciata dal mare e baciata dal sole, amata e decantata sin dai tempi più remoti, da scrittori venuti da lontano, compreso Guido Piovene, che di Taranto scrisse che “vive tra i riflessi, in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce”. Il noto autore di “Viaggio in Italia” descrisse i tramonti come “un’isola di fuoco”. Taranto è inondata di poesia. La sua bellezza straordinaria, esaltante riempie l’anima. Purtroppo a volte si è costretti a lasciarla con l’ansia di farvi ritorno. E Carrino se ne andò per ragioni di studio. Si insediò ad Urbino dal 1973 al 1981, dove si laureò. Insegnò disegno, ma sognava la sua città. Sentiva bisogno del profumi di Mar Piccolo, della parlata della gente della città vecchia; sognava le case, le vie, i rumori del borgo nuovo e di tutte le delizie sparse dappertutto.
Barche e  cozze

E ritornò alla culla. Una carriera entusiasmante, la sua. Incise dischi, tra le solite difficoltà, trovò il successo, la stima dei cittadini della sua città. Il valore non può essere trascurato, ignorato, umiliato. Mimmo Carrino emerse come un delfino dal mare. Il suo nome era sulla bocca di tutti, s’imparavano le sue composizioni, lo si applaudiva febbrilmente.
Il cantautore aveva una grande competenza musicale. Entrò nel gruppo locale dei Giom, frequentava personaggi che adoravano il dialetto, a cominciare da Bino Gargano, che io ricordo come persona garbata, fine, rispettosa (se non ricordo male era parrucchiere) e aveva una inesauribile passione per il teatro). I suoi testi si ricordano ancora. I tarantini veraci come le vongole, innamorati del vernacolo, che è l’espressione della nostra anima, non dimenticano. Le nostre radici sono in quella lingua. In una poesia di Saverio Nasole trovai la parola “allecrie”; e se ne prova tantissima nelle passeggiate nel borgo antico, sulla sponda “d’u mare peccennùdde”. Quelle passeggiate inebriano, come tanti versi di Nasole e la voce di Mimmo Carrino, due colonne, due pilastri. Mi emoziono quando sento i titoli di testi come “Arrevò Pirre e spicciò ‘a pacchie” e “’U cuggione d’a regine”.
Tarantini in via Cava

Carrino amava la città vecchia, dove andava spesso per suonare la sera nei locali in cui si vedeva con gli amici. Ascoltava i consigli che gli dava Enzo Falcone, ammirava soprattutto Bino Gargano, per i quali scrisse le canzoni. Familiarizzò, oltre che con Nasole e Gargano, anche con Edmondo D’Auria, uno degli attori, tutti bravissimi, della compagnia dello stesso Falcone, regista e attore stimato. Lo vedevo spesso, al circolo Arsenale, dove confluivano tanti tarantini anche per vedere i film che si proiettavano nelle sale al chiuso e all’aperto. Ah, oltre che con i Giom Carrino suonò anche con il gruppo denominato Showmen, che negli 60 era molto seguito.
Di attori illustri ne ho conosciuti anch’io, in questa mia deliziosa città. Anna Casavola, per esempio. E anche Enzo Valli, al secolo Murgolo, figlio di un graduato vigile urbano, attore a sua volta; il comico Mirabile e la figlia Lina, Murianni, un gentiluomo che lavorava all’arsenale, lo stesso D’Auria e altri.
Un saluto a Saverio Nasole, che tra l’altro fondò il sodalizio “Armonia dei due mari”, e a Mimmo Carrino, ai quali dovrebbe essere dedicata una via, come riconoscimento di tarantini veri che qualcosa a Taranto hanno dato

mercoledì 4 giugno 2025

La vita esaltante di un carabiniere

IL GENERALE LA FORGIA E LE GRANDI OPERAZIONI

 

Il generale La Forgia
L’ho ritrovato dopo tanti anni e abbiamo rivissuto
momenti molto movimentati; e le notti passate in strada sulle auto del radiomobile.

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Non lo sentivo da tanto tempo. Quando ha preso casa a Roma e io sono andato in pensione, lui è stato promosso generale, ha lasciato a malincuore il servizio e ogni mese torna a Molfetta, la sua città natale, e rimane una settimana e a volte anche di più.
I cronisti  Berticelli, Lovati, Presicci. il generale Vitagliano e il cronista Laccabò

Nella città immersa nel verde della campagna, con il profumo del mare sempre gremito di barche, che scaricano pesce in vendita al dettaglio e all’ingrosso, s’incontra con gli amici dell’adolescenza riuniti a una tavola imbandita alla pugliese. Lo ritrovo, il generale dei carabinieri Paolo La Forgia, oggi settantunenne, dopo almeno 40 anni. Sempre gentile e disponibile, i sentimenti duraturi, i ricordi limpidi e scorrevoli, aperto al racconto. Lo risento grazie al maresciallo Pino Lato, che sta ad Assisi e ha nel taccuino della memoria appuntati, brigadieri, tenenti, capitani, colonnelli, generali della Legione dei Cc di via Moscova, a Milano, che a suo tempo ebbe come pilota anche il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vittima della mafia.
Ripescare un vecchio amico è sempre un regalo del destino, o della forza di volontà che fa immediatamente resuscitare ore, giorni, mesi, anni volati via come il vento. Con Paolo La Forgia ci vedevamo quasi ogni giorno, negli anni passati. Quando i carabinieri ci invitavano per una conferenza-stampa, lui, allora capitano, al termine mi precedeva nel suo ufficio con la scusa di farmi vedere qualcosa e invece tirava fuori dal cassetto una scatola di sigari toscani e ne sfilava due, trasformando l’ambiente in una fumea.
Auto dei carabinieri

ll telefono si è scaldato per il tempo in cui l’abbiamo adoperato. “Ricordi questo?”. “E tu, hai memoria di quest’altro?”. Una gara improvvisata vinta da tutt’e due. Lui comincia da Rho, o adagiato a pochi chilometri dal capoluogo lombardo. Gliene ha dati di problemi, questo centro, dove allora alloggiavano tante aggregazioni di rapinatori, trafficanti, ladri di ogni tipo, come a Milano e altrove; e i carabinieri sempre all’erta, sempre pronti a intervenire per mandarli al gabbio. Qualche operazione si è conclusa con furibonde sparatorie. Le “binde”, assalti a mano armata, a banche e ad altri luoghi appetiti, erano all’ordine del giorno, e non facevano soltanto rumore. “Ti ricordi l’operazione che si concluse in zona Niguarda, con i carabinieri in elicottero, altri scaglionati sulle scale di uno stabile in cui, in un appartamento, si erano rifugiati i “duristi” di grosso calibro? Bastava poco per scatenare l’inferno; “e invece noi li prendemmo mentre uscivano e sequestrammo l’arsenale, tra cui le mitragliette che avevano sottratto in una Gazzella dei carabinieri nel corso dell’operazione. Ricordi?”. “Io c’ero dall’alba. Ricordo il colonnello Tommaso Vitagliano (poi promosso generale) sotto l’ombrello per difendersi dalla pioggia furiosa” . La Forgia continua: “La Compagnia di Rho faceva mille arresti all’anno. Era una vita frenetica, notti insonni passate in strada. In auto ero con la testa fuori del finestrino per evitare che l’autista deviasse per la nebbia fitta”. Entusiasma quando racconta. “Avevo collaboratori eccezionali che davano l’anima al servizio, da Giuliano Meloni all’appuntato Carta, ai marescialli Gallone e Lucchelli. Nel ‘95 ci fu un sequestro-lampo di persona e nell’operazione per la liberazione della vittima intervenne anche il Gis (le teste di cuoio). Dopo aver localizzato il covo, mi trovai nel turbinio dei film il ragazzo fra le braccia. Piangeva, per l’emozione e per la paura. Che momenti! “Arrestammo tre uomini e una donna.
I generali Battista e La Forgia
La Compagnia – dice - gli ha dato molte soddisfazioni. La Forgia e i suoi uomini hanno fatto imprese memorabili, fra cui quelle per arginare gli scontri fra i tifosi che mettevano a ferro e fuoco la città. Ricorda piazza Duomo e dintorni arroventate, con gruppi di facinorosi appostati sul monumento a Vittorio Emanuele. Durante i suoi 40 anni di carriera ha sempre comandato reparti investigativi, con tutti i rischi che quel comando, come gli altri, comporta. Nel ‘94 sequestrarono 5 mila chili e 500 grammi di cocaina proveniente dalla Colombia. Individuarono i “container” parcheggiati nel porto di Genova, li aprirono, ma trovavano soltanto scarpe e tomaie. “Guardate meglio, approfondite”, diceva La Forgia.
Era notte e i segugi si liberarono delle scatole di scarpe e sotto scoprirono i panetti di droga. La Forgia chiamò il Comando generale a Roma, e poi ricevette per telefono gli elogi del presidente della Repubblica Scalfaro. E non fu la sola volta che un’autorità così in alto chiamasse per congratularsi. La fatica, il coraggio, la bravura, la scaltrezza di quegli uomini era nota. E noi giornalisti davamo spazio non soltanto in cronaca.
Quando i carabinieri ci chiamavano e noi ci presentavamo puntuali in sala-stampa non smettevamo di fare domande. Io del “Giorno”; Piero Colaprico o Lorenza Pleuteri di “Repubblica”; Paolo Longanesi del “Giornale”, Elio Spada o Giovanni Calabrò dell’”Unità”; e avevamo l’occasione di salutare i colonnelli Tommaso Vitagliano, Emanuele Garelli.
I generali La Forgia e Garelli


Elio Toscano, Morini, Martorana, Gebbia. Umberto Massolo e altri. E dopo al bar interno aperto sulla piazza d’armi a bere una bibita o un caffè, con l’ordine di non fare nomi, mai: l’ordine era che gli uomini dovessero operare nel silenzio. Quando nell’85 scrissi una serie di articoli sui racconti della polizia e dei carabinieri fui regato a non fare cenno alle generalità degli intervistati. Non potetti neppure dire che il colonnello Vitagliano realizzava ottimi quadri con protagonisti i carabinieri a cavallo su sfondo azzurro.
Per anni ho frequentato via Moscova, dove conoscevo tutti. Una volta mi fu consentito di trascorrere una notte in giro per la città su un’auto del radiomobile. La notte Milano ha un suo fascino particolare. Il buio interrotto dalle luci dei lampioni e dai lampeggianti di “volanti” e “gazzelle” e spesso il silenzio dalle sirene. Ricordo anche le voci, gli schiamazzi delle bische clandestine all’aperto, con qualche giocatore che riceveva denaro dalle mani di una falena, che aveva appena finito di sgambettare sulla strada. Di notte Milano ha le sue insidie. Una volta con un trattore sradicarono la macchina del bancomat di un istituto di credito. Le bande erano sempre in agguato, come quella del buco e quella che con la carotatrice in un “weeK end” sfondò un muro per arrivare al caveau” di una banca in piazza Diaz. “Ricordi, Paolo?”.
La Forgia. Garelli, Presicci. i questori D'Amato e Ninni


Paolo La Forgia ha la memoria inossidabile. Non gli ho chiesto se durante i pranzi con gli amici a Molfetta parla soltanto della gente che viene anche dai paesi vicini per acquistare orate, sarde, gamberetti, triglie… e magari anche qualche ostrica o cozza pelosa. Riappaiono, oltre ai ricordi delle giornate e delle nottate vissute nelle vie di Milano, quelli delle sparatorie e dei morti, a volte tre al giorno. Quando si ritorna alla “culla” si recuperano gli amici e si ha anche voglia di ammirare le bellezze, i panorami, le chiese, ovunque soffino aliti di vita.
La Forgia Molfetta ce l’ha nel cuore. La lasciò nel ‘77 per il corso allievi ufficiali a Roma. Entrò nell’Arma e fu destinato a Palermo, “dove mi trovai benissimo”; poi a Messina; poi ancora a Brindisi, alla tenenza dell’aeroporto; quindi alla Compagnia di Rho.
I generali Elio Toscano e Sergio Gebbia
Dopo tutti questi giri arrivò alla Compagnia Duomo di Milano, dove rimase dall’87 al ‘91; dal ‘92 al ‘96 al Nucleo investigativo; dal ‘96 al 2000 al Nucleo investigativo di Roma. Sempre come comandante. Non è finita. E’ stato capocentro della Dia della Capitale; poi alla guida del Comando nazionale dei carabinieri ispettori del lavoro per poi passare come referente dell’Arma alla Commissione parlamentare antimafia per la XVII legislatura. Nel 2018 viene promosso generale. “Milano – dice – è stato per me un periodo bellissimo, nonostante le continue telefonate dalla centrale operativa e le incalzanti operazioni contro una malavita sempre più agguerrita, decisa a colpire senza esitazione per farla franca o per realizzare un colpo. E a Milano le bande sono state numerose, da quella della dolce vita a quella dei rapinatori del lunedì (gli altri giorni fingevano di essere impiegati, uscendo dalla tana nell’ora in cui escono chi va davvero a lavorare); la banda del cinese, dei Tir e via dicendo. Senza trascurare i grossi nomi della mala, che si sentivano i padroni della città. Per l’impegno nell’Arma dei carabinieri il Comune di Molfetta a suo tempo ha invitato il generale La Forgia a tenere una conferenza nell’aula consiliare e gli ha consegnato una targa di cittadino che ha onorato la sua città. Una soddisfazione in più.