VITO PLANTONE, UN POLIZIOTTO GALANTUOMO
Franco Presicci
Sembrano tempi assai lontani. A Milano intere zone hanno cambiato fisionomia. A Piazza Tirana, al Lorenteggio, la famosa bisca clandestina all’aperto davanti alla stazione ferroviaria di San Cristoforo non c’è più: l’arredo urbano ha sepolto l’enorme cerchio disegnato sul selciato attorno al quale dalle 14 fino all’alba si assiepavano i giocatori più accaniti.
Irruzione della polizia nella bisca di Piazza Tirana |
Anche la bisca di via Palmanova, una roccaforte imprendibile, è un ricordo. E tale la “mala” di allora, dominata da “boss” molto determinati, incalzati da poliziotti inflessibili e infaticabili. Un esempio? Vito Plantone, che aveva lavorato con Mario Nardone, un mito. Vito allora dirigeva la sezione antirapine e si avvaleva di uomini preparati, che lo adoravano.
Poliziotto alla Maigret, rispettoso anche delle pellacce, che quando si trovavano dinnanzi a lui non alzavano mai i toni. Non per paura, ma per riguardo. All’epoca la malandra aveva un altro codice. Per descriverla, Plantone raccontava di una sera in un ristorante in pieno centro: “Entrammo accompagnati dalle nostre mogli e dopo pochi minuti un gruppo di cinque o sei “duri”, che avevamo notato subito, si alzò e imboccò la porta. Per delicatezza. Infatti poco dopo un ragazzo venne a deporre sul nostro tavolo un fascio di rose per le signore”. Era così la “malandra” di una volta. Lui la conosceva bene. Conosceva gli ambienti, le alleanze, le rivalità, le tecniche “professionali”, i personaggi. Ma quando veniva intervistato raccontava i fatti che poteva raccontare, senza mai fare i nomi delle persone. I cronisti, avidi, incontentabili, curiosi, indagatori, lo sollecitavano, ma Vito Plantone, era irremovibile.
Da sx: il questore Plantone e il prefetto Mario Jovine ai lati del generale durante una cerimonia a Palermo |
Plantone con Borsellino |
Nell ’85 andai a trovarlo a Catanzaro, dove era questore, e lo bombardai di domande per una delle pagine che mi erano state affidate dal vicedirettore Guido Gerosa, intitolate “La polizia racconta”. Rispose a tutte, dettagliando, precisando, circostanziando, ma niente nomi. E mi spiegò che quelle persone avevano pagato o stavano pagando il conto o avevano cambiato vita o avevano figli che studiavano magari all’università o addirittura erano passati a miglior vita, e non era giusto tenerle sempre sui giornali. Gli feci osservare che quei nomi li sapevo, sapevo la storia di boss e gregari, e aprii l’archivio della mia memoria. “Sì, lo so, ma i nomi io non li faccio”. Così era anche Mario Nardone. Lo intervistai nella sua casa di via Tortona, mi raccontò una valanga di fatti, ma alla richiesta dei nomi teneva chiusa la bocca. Vito Plantone, il poliziotto gentiluomo. Lo ammiravano tutti. Era leale, acuto, colto. E un vero servitore dello Stato. Perseverante. Nel ’71 un’agguerrita “gang” milanese fece una “binda” a Roma a un furgone portavalori e Plantone seguì le indagini, che lo portarono lontano. Partì dal capoluogo lombardo, fece sosta nelle città in cui, secondo gli elementi che via via emergevano, i rapinatori avevano trovato rifugio momentaneo, perquisì abitazioni, ascoltò chi aveva qualcosa da dire e alla fine arrivò a Taormina, dove, sul bordo della piscina di un hotel, sorprese i ricercati, convincendoli, senza minacce, ad arrendersi. Erano i suoi metodi. Anche con gli ossi più duri. Ha avuto a che fare con tanti di loro, tutti alla guida di “batterie” organizzate, anche nell’Hinterland: quelle dei “bravi ragazzi di Angera”, che agivano soltanto il lunedì; “della dolce vita” (donne e champagne dopo ogni colpo); dei Tir, che svuotava i “bisonti della strada”; del Mec e via dicendo. Milano fu teatro di assalti clamorosi: a un’oreficeria di via Montenapoleone, il 25 aprile del ’64; ad un’agenzia bancaria il 25 settembre ’67, che scatenò un mezzogiorno di fuoco con morti e feriti, compreso un maresciallo della polizia; la sparatoria di largo Tel Aviv, il 13 dello stesso mese e dello stesso anno, per il controllo delle bische; il conflitto a fuoco in corso Sempione, obiettivo “la bisca della contessa”, il 14 febbraio del ‘79…
Plantone con l'attrice Annamaria Rizzoli fra questori e vicequestori |
La criminalità si era fatta aggressiva, spietata. Milano non dormiva sonni tranquilli. Sequestri di persona, omicidi (nell’80 a volte tre in una sera).anche per colpa della droga. E il terrorismo. Vito Plantone, il 15 dicembre del ’76, visse ore tremende a Sesto San Giovanni davanti ai corpi di due poliziotti crivellati dai proiettili di un brigatista, rimasto a sua volta ucciso mentre tentava la fuga calandosi da una finestra. Dell’episodio preferiva non parlare. Per i giornalisti, che passavano notti insonni, divorando pane salame davanti al portone della questura in attesa di poter captare una notizia al termine di un interrogatorio, aveva molta considerazione. Era spesso assediato da quei cani da tartufo. Flemmatico, voce bassissima, sorriso discreto, riservato, li informava con il contagocce. “Accontentatevi di quello che vi riferisco. Quello che non dico è protetto dal segreto istruttorio”. E poi, se lo stomaco era inquieto, andavano a mangiare un piatto caldo insieme. Gli interlocutori, soprattutto quelli della vecchia guardia (Arnaldo Giuliani, Max Monti, Giancarlo Rizza, Fabio Mantica, Patrizio Fusarr, Gaetano Gadda, Salvatore Conoscente, Mario Mercuri, Falletta…), lo veneravano. Un cronista novello privo di tatto e un tantino arrogante, un giorno, in tempi più recenti, chiamò Plantone al telefono, e non avendo dimestichezza con la sua voce pacata, sottile, gli disse bruscamente di alzarla perché lui non riusciva a sentirlo. Risposta, con tono garbato: “Sarà che il filo è difettoso, si attacchi bene alla cornetta”. Figura esemplare. Aveva un’“èquipe” di ferro, in cui spiccava il maresciallo Ferdinando Oscuri, pugliese doc e investigatore dal fiuto finissimo. E tanti amici. Fra questi, Enzo Caracciolo, Mario Jovine, Antonio Pagnozzi, Francesco Colucci, diventato prefetto dopo essere stato questore a Bergamo, a Lecce, a Genova, lo stesso Oscuri. E altri, anche tra artisti, giornalisti, liberi professionisti, magistrati. Lo esaltavano per le sue capacità professionali e per le sue straordinarie doti umane, per la sua rettitudine. Trattava i subalterni con i guanti gialli; e chiedeva loro di essere cortesi con i cittadini che si rivolgevano ai loro uffici, “ perchè la polizia è al servizio della gente”.
Era nato a Noci, e parlava spesso del centro storico, delle masserie fortificate, della Madonna della Scala, abbazia benedettina, della bella villa comunale del suo paese. Ed esortava gli amici ad andarlo a visitare. Aveva un grande senso dell’ospitalità; amava la compagnia.
Una sera, a cena nella casa milanese del pittore barese Filippo Alto (di lui e della sua arte hanno parlato i critici più consacrati), spruzzò del peperoncino sulla pasta con i ceci e ne ingerì uno intero. Io lo imitai e invocai l’intervento dei vigili del fuoco. Mentre lui rideva.
Vito non c’è più. Se n’è andato il 2 aprile ’98. Lo avevo conosciuto. nel ’70. Ricordo la mia chiacchierata nel suo ufficio, interrotta da una segnalazione da Roma: tre rapinatori erano appena partiti dalla capitale per Milano. Vito convocò immediatamente la sua squadra, la informò, impartì gli ordini. I banditi vennero intercettati al loro arrivo, seguiti, il giorno dopo acciuffati, in un’azione molto movimentata, sulla soglia di una banca di via Palmanova, dove, armi in pugno, stavano facendo irruzione.
Milano, 30 dicembre 2015
Milano, 30 dicembre 2015
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