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mercoledì 28 febbraio 2018

Mario Jovine: un grande poliziotto


 
Mario Jovine
IN UN’INTERVISTA A VENEZIA
DELINEO’ LA MALA DI MILANO

Napoletano, molto simpatico,
elegante, giovanile, alla mano.
Fu capo della Mobile milanese,
poi questore di Roma e della
città lagunare; da prefetto fu
a Palermo e a Firenze. Guidò le
indagini sulle più spettacolari
e clamorose rapine

 



Franco Presicci



Il questore Antonio Fariello
Quando nel maggio dell’85 Guido Gerosa, collega coltissimo, autore di libri di storia e di romanzi appassionanti (in uno, se non ricordo male, fa emergere Gianni Brera dalle acque del lago di Como), profondo conoscitore della “nera” (appena facevi un nome rispolverava il personaggio), memoria inossidabile (era capace di scrivere in meno di un’ora una pagina su Sartre o Spadolini), già vicedirettore, assunse l’incarico di capo cronista mi chiamò nel suo gabbiotto, come indicavamo scherzando la plancia di comando, e mi disse che dovevo prepararmi a fare il giro d’Italia. “Devi andare a cercare tutti i questori che hanno combattuto la malavita a Milano e farti raccontare i loro ricordi; i “boss” e i gregari che hanno affrontato; le indagini su una rapina, su un sequestro; i metodi adottati per sciogliere una matassa aggrovigliata… Insomma non c’è bisogno che io ti dica quello che devi fare”.
Mario Jovine nella sua casa di Bologna



Pensai subito a Mario Jovine, che era questore a Venezia; poi a Vito Plantone, a Catanzaro; ad Antonio Fariello a Torino, e a Mario Nardone, detto il “Gatto” per il suo fiuto formidabile. Jovine lo conoscevo da quando era capo della Mobile meneghina (’63-’65), lo avevo incontrato spesso, anche al Teatro Sant’Erasmo, dove sulla pista ottagonale calcata dagli attori si rappresentava “Il generale della Rovere” di Indro Montanelli. Avevamo tessuto ottimi rapporti. Il giorno dopo gli telefonai. “Domani sono da te, dobbiamo fare una chiacchierata”. All’arrivo in piazza San Marco trovai un motoscafo della polizia, che puntò verso la questura. Persona cordiale, ospitale, disponibile, simpaticissima, mi ricevette nel suo ufficio al primo piano di un edificio del ‘700; ci sedemmo uno di fronte all’altro; e dopo aver ricordato Milano, via Fatebenefratelli… voltammo pagina. Mario prese la rincorsa, parlando della rapina di via Osoppo, che Don Whitehead aveva incluso nel suo “Journey into crime” (Viaggio nel crimine), intitolando il capitolo “Saint Rita and the Robbers” (Santa Rita e i rapinatori), perchè il capo della Mobile di allora, Paolo Zamparelll, dopo la clamorosa impresa si era rivolto alla sua santa preferita; e, risolto il caso, grazie anche alla scoperta di una tuta nel canale Olona, aveva convocato nel suo ufficio dirigenti, funzionari e agenti che avevano collaborato all’inchiesta e detto loro: “Domani tutti a messa alle 8”.
Jovine-Plantone-Caracciolo
Nessuno mancò all’appuntamento nella chiesa dedicata alla santa alla Barona: Nardone, lo stesso Jovine, Barone, De Rose, Visconti, Oscuri, Giannattasio. Qualcuno, preceduto da Zamparelli, fece la comunione. Jovine mi elencò i nomi degli elementi del commando, le loro personalità, le loro origini criminali, la tecnica con cui avevano realizzato la “dura”, il 27 febbraio ’58, ricavando 115 milioni, che per quei tempi era una cifra rispettabile. E i “bravi ragazzi di Angera”? “Ah quelli. Formavano la banda del lunedì. Lavoravano solo il primo giorno della settimana, in modo artigianale. Erano in tre, tutti cresciuti sulle rive del lago Maggiore. Una vita noiosa. Un giorno uno della combriccola, che assunse il ruolo di capo, stimolò gli altri a darsi una mossa e il 4 dicembre del ‘61 sfoderarono le armi (due pistole e un mitra rubato in una caserma) nella Banca Popolare di Tronzano Vercellese, bottino un milione e mezzo. Improvvisatori, dilettanti; eppure i giornali li definirono assi della rapina”. Il 15 aprile del ’64 in via Montenapoleone, zona elegante, della moda, delle vetrine brillantemente addobbate, di solito un’oasi di tranquillità, si svolse una scena da Chicago anni ‘30. I “duristi” assaltarono l’oreficeria Colombo, “grisbì” 350 milioni.
Arnaldo Giuliani e il prefetto Mario Jovine
Un’azione spettacolare, un’operazione da manuale. In via Fatebenefratelli balenarono elementi che fecero cadere i sospetti sui marsigliesi. L’intuizione si rafforzò con il ritrovamento di un polsino di camicia con il disegno della Torre Eiffel. In pochi giorni scattarono le manette. “Passarono quasi tutti davanti alla mia scrivania. Uno di loro, detto ‘Bocca cucita’, rimaneva ostinatamente muto. Sapevo che mi sarebbe stato difficile tirargli fuori una frase e le inventai tutte per poter avviare il dialogo; intanto studiavo la sua psicologia. Disse soltanto che la cella non lo deprimeva né fisicamente né moralmente”. Quando aggiunse che era un tipo forte, Jovine lo sfidò a saltare a piedi uniti al di là del tavolo tenendo appoggiato una mano sullo spigolo. “Mi tolsi le scarpe e feci il salto. Lo avevo fatto altre volte, ero bravo. Accettò la sfida e ci riuscì, ma continuò a tacere”.
Il cronista de Il Giorno Giancarlo Rizza
Mario, napoletano spassoso, amava raccontare. Qualche anno dopo, già in pensione dopo essere stato questore di Roma, prefetto di Palermo e di Firenze, lo fece anche da Paolo Limiti, in una trasmissione su Rai due. Raccontando, si divertiva; e tra una vicenda e l’altra battuta sfornava una battuta. Dopo quasi tre ore d’intervista e di ricordi milanesi, mi invitò a pranzo a casa sua, ma io nel pomeriggio avevo un impegno a Milano. Rimandammo l’invito. Avevamo ancora un po’ di tempo, e Mario rievocò l’omicidio dell’affittacamere di via Anfossi. Nel novembre del ’64 una signora di 74 anni venne trovata uccisa nella sua pensione: colpita al capo con quadretti di porfido e poi strangolata con la cintura di un pigiama. Il motivo? Una rapina. “Oddio l’’hanno ammazzata!”, urlò una donna, e subito un brivido corse per la tromba delle scale. “L’urlo provocò un coro disperato. L’allarme rimbalzò in questura, oltre che alla centrale operativa dei carabinieri, e in via Anfossi piombò anche Carlo Alberto Dalla Chiesa, allora colonnello. Terrificante la scena del delitto: sangue dappertutto, quattro sassi avvolti in una copia de “Il Corriere della Sera”. “Scorremmo le inserzioni apparse sui giornali, esplorammo gli indirizzi più vicini...
Il direttore de Il Giorno Rizzi,Gerosa,Olivieri,Giuliani
In una ditta la segretaria aveva annotato su un foglietto i nomi di quelli che si erano sottoposti a un recente colloquio. Il pezzo di carta era finito appallottolato nel cestino. L’impiegata descrisse tutti candidati e ci soffermammo su uno di loro, al quale aveva già accennato la portinaia dello stabile. L’uomo aveva bussato alla guardiola alla ricerca di un posto-letto ed era stato fatto salire. Anche quello fu un lavoro di gruppo”. Sbrigato in fretta, nel timore che qualche giornalista dei più attenti, Giancarlo Rizza, de “Il Giorno” e Max Monti de “Il Corriere della Sera”, che amava definirsi il “re di Monforte”, fiutassero qualche particolare e pubblicandolo mettessero sull’avviso il colpevole. Non furono soltanto questi gli episodi che Mario Jovine, allora 56 anni, sempre giovanile, elegante, rispolverò nei dettagli. Ripercorse anche i suoi rapporti con la stampa, sempre civili.

Mario Nardone e Enzo Caracciolo
Glieli aveva affidati Nardone, all’epoca dirigente della Mobile. “Ed ero io che subivo l’ira di Rizza e dei suoi colleghi quando una notizia non era stata data o non era stata data in tempo utile. Comunque fra noi c’era molta stima, anche affetto, tanto che il giorno in cui lasciai via Fatebenefratelli proprio Rizza mi abbracciò piangendo, trasmettendomi la sua emozione”. E i rapporti con la malavita? “Tutti rispettavano il gioco delle parti. Eravamo avversari ma non nemici. Io davo del lei ai cittadini che arrestavo; e cercavo di farli parlare usando l’intelligenza”. Quale personaggio della “mala” lo aveva colpito maggiormente? Joe Adonis, soprannome derivante dal fatto che una donna gli aveva detto “Joe, sei un Adone”; e da quel momento Giuseppe Doto fu ribattezzato con il nome del bellissimo pastorello che, allevato dalle Naiadi, da giovanotto affascinò Afrodite, che per vivere con lui abbandonò l’Olimpo. Una mattina, convocato da Jovine, Adonis s’inchinò più volte ma non si sedette. E si rifiutò di rivelare la sua data di nascita, perché negli Stati Uniti aveva fatto la galera per aver sbagliato quei numeri. Non era soltanto Adonis ad avere riguardo per le forze dell’ordine. “La ‘malanda’ sapeva che chi stava dall’altra parte faceva solo il suo dovere. Negli anni ‘70 questa mentalità cominciò ad incrinarsi. “Hobby, Mario, oltre alla chitarra?”. “Quella la strimpello”. Non era vero, suonava bene anche il pianoforte. “Giocavo al pallone nel ruolo di portiere. Poi a Bologna in una partita con i carabinieri m’infilarono quattro gol e smisi. Vado in bicicletta, mi piace molto…”. Sposato con la signora Pia, due figli medici, aveva ancora un’aria da ragazzo e una gran nostalgia di Milano.












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