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mercoledì 14 febbraio 2018

La stirpe dei ladri non si estingue


CHI INVOCA I TEMPI DI UNA VOLTA

FORSE NON LI RICORDA ABBASTANZA



Vito Plantone


Anche allora i ladri impazzavano,

erano intrepidi, veri specialisti e usavano

sistemi in parte in voga
ancora ai giorni nostri,

almeno nelle grandi città.








Franco Presicci

Una volta – dice la gente – potevamo lasciare le porte aperte senza avere sorprese al ritorno; oggi non possiamo stare sicuri neppure se ci blindiamo: I furti in appartamento e nei negozi sono all’ordine del giorno; i ladri sempre più spericolati, ostinati e aggressivi. Non se ne può più. Ci sentiamo insicuri, indifesi.
Giornalisti di nera degli anni '50 in Questura

Enzo Caracciolo in un disegno di Piero Lotito
Ma neanche in tempi più lontani c’era tanto da stare allegri. Il gergo della malavita elenca le categorie di queste pellacce: l’aporridore era l’esperto del furto di bestiame; il cubista dello svaligiamento delle case; il ladro acrobatico una sorta di trapezista che non conosceva ostacoli; il balaustrista agiva a qualunque altezza saltando su un balcone da una finestra sulle scale: un ladro-scimmia emulo di Tarzan.                          Questo il soprannome di cui si gloriava un “professionista” che li superava tutti. C’era anche il “gatto”, così detto per il suo fiuto nell’individuare l’obiettivo giusto e nel passare, per raggiungerlo, anche in un buco. Erano così arroganti che nell’abitazione di uno di loro venne trovato un documento che esortava la categoria a formare una specie di sindacato per la difesa dei loro diritti. E sembra non fosse uno scherzo. Le consorterie dei ladri erano bene organizzate.
 
Individuavano l’appartamento da depredare, studiavano le abitudini dei proprietari, telefonavano ripetutamente per verificare se ci fosse qualcuno e operavano lasciando nei pressi un “palo” incaricato di dare immediatamente l’allarme nel caso di pericolo. Un noto musicista, credendo di poterli ingannare, prima di una “tournèe”, registrò sul nastro più volte la parola “pronto” con toni gradatamente elevati per simulare il fastidio per non ricevere risposta. Ma sottovalutava l’intelligenza dei “mastri”, che, se dovevano entrare dalla porta e non volevano prendersi il fastidio di fare il calco della serratura e fabbricare le chiavi da sé, ricorrevano ai noleggiatori di “bambole”: le chiavi false appunto, che non potevano essere usate per più di tre volte. Uno di questi accrebbe la sua fama compiendo personalmente un furto per dimostrare l’efficacia della propria
merce.

Achille Serra,oggi prefetto in pensione
Negli anni ’50 gli uomini del commissariato di viale Papiniano fecero irruzione in un laboratorio di Porta Genova, dove tra pialle, seghe, saracco, menaruola, banco, mola a smeriglio trovò oltre 2500 “bimbe”, altro nome in gergo di queste apriporte. Il commercio era gestito addirittura da una vecchietta, che aveva sulla testiera del letto una preziosa opera d’arte trafugata in una villa gentilizia. Chi forniva le chiavi false era troppo esigente nella spartizione del bottino, e così un “cubista”, avendo deciso di rimanere autonomo, non dovendo spartire il “grisbì con alcuno, divenne ricco con tanti di quei colpi da suscitare nell’ambiente l’ammirazione e l’invidia. Lavorava sempre nel pomeriggio e ad ore fisse, come la banda di rapinatori detta del lunedì, che colpiva soltanto in quel giorno e i vicini di casa li consideravano normali impiegati. La polizia lo fece seguire da due agenti centauri che gli stavano dietro da quando usciva da casa e metteva in moto la sua potentissima moto. Lo catturarono nel pieno esercizio delle sue funzioni. Da moltissimo tempo non era più in servizio il Dondina, il signor Mazza, capo della squadra volante temutissimo dalla “ligera”, che si limitava a piccoli reati, e ai delinquenti di spessore più grosso.

Giannattasio e Oscuri
In questura, tra il ’42 e il ‘70, erano arrivati il Poirot Ferdinando Oscuri, il maresciallo Giannattasio, il mitico Mario Nardone, i giovani commissari Vito Plantone Achille Serra, Francesco Colucci, Enzo Caracciolo, Oscuri conosceva molto bene la frenetica attività di questi personaggi: dal “lader de pan de mej” o “rati di giornata”, che rubavano, e lo fanno ancora oggi, per esigenze elementari; al ladro “del pidocchietto” o “stoffaro”, “trapanante”, che ricavano anche loro un bottino magro, al “violinista, l’asso in furti con destrezza. Ne aveva spediti a San Vittore chissà quanti. Per la cronaca, un passante (non ricordo il luogo), notò un giovane scalare uno stabile, avvertì la polizia e si scopri che si trattava di una signora che a una certa ora si chiudeva in camera da letto e riceveva l’amante mentre il marito guardava la tivù. I segugi s’impegnavano per stroncare il fenomeno dei furti di ogni genere, ma quelli sono come la coda della lucertola. Dopo la leggendaria rapina di via Osoppo, 27 febbraio ’58, e l’arresto di tutta la banda (uno acciuffato da Nardone e Oscuri in Argentina), i “duristi”, autori dell’assalto a mano armata, pensarono che bisognasse mutare comportamento: abbandonare i “cannoni”, in gergo pistole e mitra, e di dedicarsi alle imprese senza violenza eccessiva, per far sì che, se “bevuti” (arrestati), rispondessero di solo furto aggravato.

Nardone e Oscuri
Ma nelle aule di giustizia spesso le cose non andavano secondo i loro piani. I ladri, che di solito studiavano i piani in una” diocesi” (un’osteria o un caffè in cui erano di casa), non si lasciavano scoraggiare e le inventavano tutte. Con una scaletta-rampino si trasformavano in alpinisti o scendevano dall’ultimo piano; forzavano addirittura le porte corazzate, dopo essersi naturalmente accertati se ne valesse la pena. Ma dalle dimore patrizie non si poteva uscire a mani vuote. Nel maggio dell’84 una banda si nascose il venerdì sera in un istituto di credito del centro con un’attrezzatura sofisticata, e lavorando sabato e domenica conquistarono il “caveau”. La combriccola venne acciuffata pochi giorni dopo in Spagna a bordo di un panfilo. Calarono le “dure” e le “spaccate” (furto eseguito mandando in frantumi una vetrina con un mezzo pesante), e s’incrementarono le “mani di velluto” o “giocolieri”: i borseggiatori che a Milano hanno sperimentato tutte le tecniche delle diverse scuole: siciliana; della “monta”... Si registravano un centinaio di borseggi al giorno, compiuti nei luoghi affollati e sui mezzi pubblici, campi d’azione preferiti dai “professionisti”, per la possibilità di fare le pressioni necessarie per sfilare la “fisarmonica” ( il portafoglio). I più esperti nel “caschè” o “forbice” o “impettata”, come il dizionario della malandra definisce le varie azioni, una volta erano i cileni, che avevano sempre le tasche piene di biglietti del tram, come dimostrò un noto e dinamico maresciallo della polizia negli anni ‘80 durante un’irruzione in un bar adibito, dopo la mezzanotte, a bisca. Le vittime, quando si scoprivano senza più il “tesoretto”, andavano a denunciare lo smarrimento senza pensare di essere stati “denudati” da un manolesta.

Francesco Colucci,oggi prefetto in pensione
I borseggiatori, detti anche “scarpari” (“scarperia” la tipologia) ritengono di avere sangue blu e guardano dall’alto in basso le altre razze, anche se per motivi d’interesse a volte sono costretti a bazzicarle. La categoria è stata raccontata in un film, protagonista James Coburn. Nei mezzanini della metropolitana ogni tanto sono appesi cartelli che segnalano ai viaggiatori la presenza dei “topi”. Questi i tempi di una volta, non certo da rimpiangere. Oggi si è aggiunta la malavita d’importazione, molto più agguerrita, i colpi si sono moltiplicati e la gente è disperata, esce di casa temendo non sapendo se al rientro avrà una sorpresa amara; è costretta quasi a barricarsi, a mettere inferriate sui balconi, porte blindate; installare sistemi di allarme, telecamere, che qualche volta vengono neutralizzati, perché l’audacia e l’abilità del ladro specializzato è al di là di ogni immaginazione. Polizia e carabinieri ce la mettono tutta, ma non si possono pattugliare tutti gli edifici e tutti i negozi di una città come Milano. Gli svaligiatori sono metodici, osservano gli orari in cui passano i metronotte e quelli dei nottambuli che abitano nei pressi, non lasciano niente al caso. Anni fa venne istituito il Cct, piano coordinato del territorio (le due forze vigilavano a turno gli obiettivi detti sensibili: oreficerie, banche, abitazioni appetibili…), ma a quanto pare il risultato fu deludente. La banda del buco non si arrese: attaccava le casseforti prendendole alle spalle da un locale attiguo; mentre quella della “gomma a terra” azzoppava l’auto di un signore che aveva appena prelevato in banca una grossa somma, osservato da uno della “batteria”, e mentre la vittima era piegata per riparare la ruota, la borsa con il denaro spariva. Fu imballata da Mario Nardone. Il furto è una violenza non soltanto alle cose; il “Vincenzo”, la vittima, subisce, oltre al danno, una lesione psicologica, non è più sicura, ritiene vulnerabile il luogo in cui vive. Ma il verme cattivo – recita un detto – non muore mai.











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