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mercoledì 10 ottobre 2018

Lo scrittore Giacinto Peluso


Giacinto Peluso
NEI SUOI PREZIOSI SCRITTI


HA RACCONTATO TARANTO




Un uomo di grande umanità.

Docente di francese, bravo
e severo, era amato dagli allievi.

Scrisse articoli e libri con una
semplicità che attraeva i lettori;
descriveva con efficacia le vie,
le figure, gli usi, le credenze di
una volta…

Ci ha lasciato anche
una dettagliata Storia di Taranto.








Franco Presicci

Tantissimi anni fa, quasi settanta, Giacinto Peluso insegnava francese all’Istituto Magistrale “Livio Andronico”, in corso Umberto, a Taranto (poi passò al liceo “Quinto Ennio), ed era, lo dicevano tutti, bravissimo e molto severo. Una mattina la classe, come si usava allora, al suo ingresso si alzò in piedi a mo’ di saluto, e un allievo, quando gli altri si rimisero a sedere, si fece coraggio e disse: “Professore, sotto il mantello del leone lei ha un cuore d’oro”. Il docente lo guardo fisso per qualche momento e poi: “Oggi parliamo del poeta La Fontaine, brillante, vispo con gli amici che gli andavano a genio, compreso Racine, che gli forniva consigli che lui non ascoltava”. Era il suo modo di suscitare subito l’attenzione. Proprio all’uscita dalla scuola Piero Mandrillo, che mi stava accompagnando, a passi lenti, al Museo Archeologico, conversando di diritto, altra materia che non gli era estranea, lo vide spuntare tra l’onda degli studenti e me lo presentò.
Antonio Mandese e Sgarbi
Consegna premio Libreria Storica a Mandese
Qualche mese dopo lo incontrai alla libreria Filippi, che era in piazza Maria Immacolata, da molti chiamata ancora Giordano Bruno. “Mandrillo come sta? Lo sai che ti stima? E ha ragione perché io leggo ciò che scrivi sul ‘Rostro’ di Franco Sossi, che a sua volta è molto considerato da Palma Bucarelli, la direttrice della Galleria di Arte Moderna di Roma”. Avevo meno di vent’anni ed ero felice dell’apprezzamento. Ma non riuscivo a ricambiare il tu con cui si rivolgeva a me. Prima di congedarmi mi raccomandò di non abbandonare il mio stile agile, vivace e di non usare mai parole difficili o straniere, ”che possono infastidire il lettore”. Una stretta di mano concluse il dialogo; poi lui s’incamminò verso il cinema Odeon, da tempo scomparso in via Di Palma; e io verso piazza della Vittoria, dove speravo d’intercettare l’amico Franco Zoppo, che insegnava al liceo “Archita”. Con il trascorrere del tempo Giacinto Peluso lo persi di vista. Piero Mandrillo, no. Frequentavo la sua casa; i luoghi che abitualmente praticava: lo studio, in via Monfalcone, di Giuseppe Barbalucca; la redazione del “Corriere del Giorno”, dove andava a trovare il direttore Giovanni Acquaviva, Franco De Gennaro e lo stesso Barbalucca, di professione pediatra. Era stato il poeta Diego Fedele (di cui ricordo i versi “d’u conzagràste”, “d’u zucàare”, “d’u caggiunìere”, “d’u pezzàre”…) a stabilire il primo contatto; e da allora a poco a poco nacque un’amicizia solida, tanto che scelsi la sorella Caterina, moglie di Pasquale Scardillo, esperto di sport che all’epoca scriveva parecchio sul “Corriere”, come madrina di battesimo di mio figlio.

Piero Mandrillo e Presicci
Piero parlava spesso di Peluso, commentando, sempre positivamente, i suoi scritti sul quotidiano tarantino. Un pomeriggio, dopo una scorpacciata di cozze pelose, ostriche, capesante, cannolicchi, “spuènze”…, in una pescheria che stava dalle parti dell’ospedale “Santissima Annunziata” (di solito io li assaporavo al banco pieno di piatti panciuti di Giuseppe Micoli, che stava sulle rive del Mar Piccolo) mi sollecitò a leggere gli articoli dell’illustre concittadino, che mi avrebbero fatto amare di più la nostra città. “Guarda che io seguo già, Giacinto. Mi arricchisce con le sue storie, mi delizia il suo stile semplice ed efficace e mi fa conoscere meglio Taranto, i palazzi, le vie e i personaggi di una volta. Sa tutto di quella Taranto e la racconta con passione”. Per esempio, io ho vissuto l’epoca del lume a petrolio. Quando ero piccolo in casa ne avevamo uno di rame un po’ ammaccato. Ma una pagina di Giacinto mi ha ricordato termini come “cazzettèlle”, “bècche”, “tùbbe”… e i vari tipi di lume, compreso quello americano. Descrizioni dettagliate e interessanti, che coinvolgevano “’u conzalume”, che girava tutti i giorni con il compito di rimettere in senso i lumi che presentavano qualche problema. Allora non avevo neanche sentito parlare “d’a Sanda Moneche”. In “Taranto da un ponte all’altro” edito da Mandese in una veste elegante e ricca di immagini d’epoca, m’imbattei nelle donne che nelle occasioni importanti, come il matrimonio di una figlia, si sedevano il giorno di San Pietro e Paolo sul balcone di casa e dopo aver recitato “Pe Ssan Pietre e ppe Ssan Paule mègne ‘na petre a cci vene mone”, e dalle reazioni del passante interpretavano la sorte.

Cozze e frutti di mare 40 anni fa alla Dogana
Anche oggi ho in bella vista nel mio studio il patrimonio di Giacinto Peluso, tra cui il volume “Taranto: dall’Isola al Borgo”, pubblicato dal Comune di Taranto e dalla Regione Puglia. Lo cercai forse una ventina di anni or sono, ma era introvabile. Lo pescai nella Biblioteca “Carlo Natale” di Crispiano, che Michele Annese aveva infoltito e ordinato con una premura e una pazienza da frate certosino. Un’opera da consigliare non solo per le figure come “meste Sabine e cumma’ Sufije”, “Mazzòcchele”, il copialettere di don Luigi, “Necòle ‘u cecàte”… alcuni conosciuti personalmente dall’autore, mentre altri riferiti da persone più anziane e degne di fede. Come per esempio il suo bisnonno paterno, meste Rafaèle, deceduto a Milano nel 1912, un anno dopo la sua nascita. Aveva tenuto una barbieria nella Strada Maggiore, nella città vecchia, dove Giacinto era nato e vissuto, in via Le Fogge, oggi Paisiello, per moltissimi anni, quando era in voga “Tripoli bel suol d’amore”, brano scritto nel 1911 da Giovanni Corvetto e musicato da Colombino Arona. Nelle mie rimpatriate non potevo fare a meno di andare a fare quattro passi al di là del Ponte Girevole, imboccando la discesa che porta a via Garibaldi; mi soffermavo ad osservare “le paranze” e poi, giunto all’altezza di piazza Fontana, risalivo verso San Domenico, m’inoltravo nei vicoli, “indr’a vieremìenze”, cercando d’individuare gli ambienti dei primi del ‘900 di questo scrittore sensibile, delicato, capace di un’ironia garbata, rispettosa, soprattutto quando riferisce episodi di persone dai comportamenti stravaganti o obiettivo di scherzi da parte di birbanti inveterati.
La Settimana Santa a Taranto
Taranto da un ponte all'altro

Uno di questi venne escogitato una ora durante la Settimana Santa: con cinque o sei “spinghele francise”, approfittando anche della scarsa illuminazione, un burlone legò le gonne di due signore che sedute una accanto all’altra erano incantante dal predicatore che tuonava dal pulpito. Un vizio antico, quello dei tarantini, il cosiddetto “spottò” (vé sputtènne ‘a màzze de San Gesèppe”). Da bambino sentivo parlare dell’aùre”, un folletto che poteva assumere varie forme, anche paurose, ed essere benevolo, promettendo ricchezze per la famiglia, che improvvisamente trovava monete o altri oggetti di valore; ma anche aggressivo, facendo sparire le cose, tanto che c’è il detto “se l’ha pigghiàte l’aure”. Mia madre sosteneva di averlo visto occhieggiare da un lato dell’armadio, ma non si soffermava mai sull’esperienza, avendone ancora paura. Già nelle prime pagine del prezioso volume “Taranto da un punto all’altro” Peluso fa la storia di questa credenza popolare, partendo dagli antichi romani. Una mattina – forse il ’95 - ero sul pullman, affollatissimo, che porta alle dieci palazzine, a Solito, quando mi sentii chiamare a voce alta. Mi girai, scrutai, notai una testa calva che cercava di emergere e con molta difficoltà raggiunsi la postazione: un signore dalla faccia tonda e sorridente mi chiese come stessi, come mai mi trovassi a Taranto, aggiungendo che mi leggeva con interesse sul “Giorno”.
La città vecchia
Io non riuscivo a capire chi fosse, e non me la sentivo di chiedere a lui. Mi venne involontariamente in aiuto: “E tu mi leggi sul “Corriere del Giorno?”. Immediatamente cominciarono a scorrere i ricordi: “Certo che la leggo. Lei sa che ci collaboro anch’io. Il presidente Nino Bixio Lomartire, condividendo la richiesta del capo redattore Vincenzo Petrocelli, mi manda il giornale a Milano e non posso non leggere le sue storie che arricchiscono chi ama Taranto e i suoi contributi attenti, scrupolosi, interessanti, anche sul vocabolario di Gigante, all’interpretazione e alla storia di molti vocaboli del nostro dialetto, così ricco di suoni”. Scendemmo alla stessa fermata, e gli chiesi dove avrei potuto trovare il libro in cui parlava del gioco del lotto a Taranto agli albori del ‘900. “Mi resta una sola copia di un’edizione pubblicata nel ’32, te la presto, quando avrai finito di consultarla me la restituisci. Ma sta per uscire da Mandese una nuova edizione, che io mi affretterò a spedirti con tanto di dedica”. Divorai “Tutte le ruooote!” e poi andai a casa sua per compiere il mio dovere. Dopo qualche tempo ricevetti il volume accompagnato da un biglietto, che conteneva un “ex libris” eseguito dal fotografo-pittore Salinati, con studio in via Di Palma, davanti all’edicola Passiatore. Glielo avevo regalato come segno di affetto. Nel biglietto era scritto: “L’ho conservato per 50 anni, adesso è meglio che lo tenga tu”. Passò qualche mese e una telefonata di Nicola Mandese mi annunciò che Giacinto Peluso non c’era più. Si era spenta una delle più significative voci della città bimare. Un cantore di Taranto. Un uomo di grande umanità. Un autore delicato e prolifico, che ci ha lasciato anche una Storia di Taranto.

"Dialogo" 9 luglio 1993







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