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mercoledì 12 dicembre 2018

A Natale fioriscono i ricordi


 
LA STORIA DEL PONY ROCKY  
GRANDE AMICO DEI BAMBINI

Li portava in groppa in giro per
i vialetti del Parco Montanelli.
In via Palestro, a Milano. Poi,
fu mandato in pensione e i
bimbi ne soffrirono. 

Franco Presicci
Anche per Rocky arrivò l’età della pensione. E per i bambini che frequentavano a Milano in via Palestro, ogni domenica e negli altri giorni festivi, i giardini dedicati a Indro Montanelli, che nel loro spazio accolgono anche il civico Museo di Scienze Naturali, e un tempo ospitarono lo zoo, fu un dolore. Un giorno non videro più il pony, e pensarono che fosse indisposto. I papà chiesero a chi poteva dare una risposta sicura e non se la sentirono di comunicarla subito ai loro figlioletti, che chissà quante volte avevano cavalcato Rocky, docile, obbediente, volenteroso. Sembrava che il quadrupede conoscesse il piacere che procurava ai marmocchi, prendendoli in groppa e andare tra i viali costeggiati da ippocastani enormi: giganti vegetali che sono lì da centinaia di anni. Poi i ragazzini tornarono a fare domande e la verità venne loro comunicata con un groppo in gola. Come Nestore, il cavallo di Alberto Sordi nel famoso film anche Rochy era arrivato all’ultima corsa, sconfitto dall’artrite. 
Antonio Marsico con Rocky
Il suo tutore, che lo aveva guidato per tanto tempo nelle sue passeggiate, che partivano dai bordi del laghetto con i cigni, era stato costretto a metterlo a riposo. Alcuni chiesero, supplicando, di potere fargli visita, immaginando che Rocky avrebbe gradito, ed entrarono nel suo rifugio: qualcuno pianse, altri fotografarono i finimenti. Un ragazzo, avendo visto il film del ’94, espresse il timore che gli avrebbero riservato lo stesso destino di Nestore, il vecchio ronzino bianco che nella finzione cinematografica era finito al macello (e il padrone all’ospizio). Ma Antonio Marsico, 56 anni, un calabrese basso e avaro di parole, al quale Rocky, razza Welsh, molto delicata, apparteneva, gli regalò sorrisi stentati poco rassicuranti. Marsico sperava che il suo cavallo nano, 19 anni, venisse assunto da un ospedale, per dare gioia ai bambini ricoverati, come ne aveva data per anni a quelli che sgambettavano nel parco. Ma lui stesso sospettava che la sua speranza non si sarebbe realizzata. Rocky del resto era stanco, debilitato anche psicologicamente. 
I giardini
Era il maggio del 2008, un lunedì, lame di sole filtravano tra gli alberi. Captata la notizia, il cronista fece un salto ai giardini. Marsico lo ricevette nella stalla, vicino al Museo, gli mostrò Rochy e la sua malinconia. Lo faceva uscire per consentirgli di prendere una boccata d’aria, “ma è lui stesso a dare segno di voler rincasare”. E quando Pluto, il pony di 20 anni, al termine del lavoro fatto tirando la carrozzella carica di bimbi, lo raggiungeva, Rocky manifestava sollievo. “Io non parlo, non mi esprimo, non mi lamento, ma è una pena per me - confessò Marsico – Vado per aprire la porta dello stallaggio per sistemare Pluto e Lady, l’altro pony, e Rocky, che avverte i miei passi viene verso di me con uno sguardo triste, quasi interrogativo. E dire che era un animale vivace, che si divertiva nel vedersi attorniato dalla gente, perché, guardi, lo amavano anche i grandi. Rocky cercava la compagnia, e si vedeva che era contento a stare con gli altri.
Pluto
Gli piaceva essere accarezzato sotto il soggolo “e io glielo facevo parlandogli: ‘Bravo, Rocky, quando ti stanchi avvertimi’. Ma lui non si stancava”. Oltre che vivace era bello, intelligente, affettuoso. Proveniva dall’Olanda (Pluto dalla Val Gardena). Sollecitato dal cronista, Antonio Marsico raccontò che una volta avevano portato Rocky, Pluto e Lady, una femmina di colore bianco, vanitosa, altera, al maneggio di Limbiate per una breve vacanza. Tra Pluto e Lady, che non andavano d’accordo, improvvisamente scoppiò una lite e Rocky si mise in mezzo per dividerli, beccandosi anche un bel po’ di calci senza reagire”. Insomma aveva un buon carattere. “Se lo lascio libero, a differenza degli altri due, che scappano e per riprenderli devo fare fatica, Rocky gironzola attorno a un albero o al laghetto e non si allontana. Ha anche fatto scuola di equitazione… Adesso è calata la tristezza”. 
Museo scienze naturali
Erano stati i vigili urbani a dirgli di mandare il cavallino in pensione anticipata. E lui aveva obbedito senza fiatare. “Evidentemente i ‘ghisa’ sono stati avvertiti da qualcuno – dice pacato con un sorriso amaro Antonio, portandosi una mano all’orecchio mimando una conversazione telefonica - Forse lui non si era neppure accorto degli acciacchi del cavallino, che non aveva certo l’aspetto della “rozza del naviglio”, gli equini che, brutti e denutriti, sino a buona parte del Novecento tirarono controcorrente i barconi in navigazione sul Naviglio Grande per portare carni, verdure, frutta, sabbia e lastre e blocchi di marmo per la Fabbrica del Duomo. “E’ magro, ma non inappetente. Mangia più degli altri due – interloquì un assiduo frequentatore dei giardini molto legato a Rocky – Potrebbero farlo visitare da un veterinario, farlo curare e restituirlo, una volta guarito, ai bambini. I miei non vogliono più venire ai Giardini, perchè non c’è’ Rocky. Li ho portati quattro o cinque volte, si sono messi a correre verso il laghetto con i cigni, dove, aiutati, s’arrampicavano sul dorso dell’’amico’ e andavano”. Gli volevano bene, anche quelli che avevano paura di cavalcarlo e indietreggiavano all’invito di accarezzarlo. Chi invece lo faceva, sapendo che Rocky era mite, compagnone, riceveva in cambio baci sulle mani, aggiunse Antonio, mentre spazzava i resti di paglia sparsi sul terreno, osservando il suo Rocky, che se ne stava solitario al suo posto. ”Mi dispiace anche per Pluto. Quando arriverà il giorno della partenza del suo compagno, che a quanto pare è imminente, sicuramente soffrirà”. “Comunque, se e quando quel giorno verrà – commentò una mamma – al centro della sua nidiata, con Rocky se ne andrà un pezzo importante dei Giardini di via Palestro”. E Antonio: “Sono 13 anni che lavoro qui. Prima ero operaio e avevo Rocky in affidamento. 
Il trenino
Da quattro anni è mio”. Ne parlava come se fosse un figlio. E come un figlio dev’essere un animale, se gli si vuole davvero bene e non gli si danno da mangiare soltanto gli avanzi della tavola o lo si tiene chiuso in un recinto. Passò il trenino guidato da un omaccione accosciato sulla locomotiva. Ma non riuscì a sciogliere il grumo di mestizia. Il cronista fu assalito dai ricordi: circa cinquant’anni fa su altri binari circolava un altro trenino, più grande, con sulla “caffettiera” e sui vagoni la scritta “Il Giorno-Ragazzi”, pubblicità per l’omonimo inserto del quotidiano fondato da Enrico Mattei. Anche quello faceva viaggiare i bambini, ed era sempre affollato, come il “il treno della speranza” che provenendo dal Mezzogiorno scaricava gli emigranti nel pancione della stazione Centrale.
Il laghetto
Passarono gli anni e anche quel piccolo convoglio scomparve. E scomparve anche il settimanale impreziosito dai disegni di Jacovitti. Rocky al parco non è tornato più. Di lui non si sono avute più notizie. Nessuno ha osato chiederne ad Antonio, anche perché non lo si vede quasi più. Oggi quei bambini hanno dieci anni in più; e Rocky lo ricordano ancora. Il cronista è tornato ai Giardini Indro Montanelli, per assecondare la sua curiosità. E’ una giornata di novembre. Nel laghetto scivolano sempre i cigni, sulla riva tubano i colombi; gli ippocastani sono spogli, ma sempre superbi. Giovani signore portano a spasso i cani, gli spazi sono silenziosi… E Rocky, il pony mansueto che portava a spasso i gioielli di famiglia? “Dopo di lui ne sono venuti altri – ci informa l’uomo del trenino, colto a fare un po’ di pulizia attorno alla ‘strada ferrata’. Dall’agosto dell’anno scorso il servizio è stato chiuso”. “Bella roba, proprio una bella roba – commenta un signore alto, magro, elegante, che sta attraversando i Giardini per andare in corso Buenos Ayres – Rocky e gli altri cavalli venuti dopo di lui qui erano un’istituzione”. Montanelli è indifferente. Dalla sua postazione di fronte all’ingresso di piazza Cavour angolo via Manin scrive il suo pezzo con la lettera 22, che in vita non ha mai abbandonato.








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