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mercoledì 19 maggio 2021

Una sera a cena con Ottavia Piccolo

BRAVISSIMA COME SEMPRE

NELLA “BIONDINA” TELEVISIVA


Ottavia Piccolo e Enzo Catania
Lo sceneggiato girato nel 1981

In vicolo dei Lavandai e dintorni.

L’attrice ne fece cenno davanti

a un piatto di orecchiette a casa

mia e la notizia venne subito

captata da quel vulcano di idee

Enzo Catania, capocronista de

Il Giorno”.


Franco Presicci

La biondina è una ragazza che dalla vita riceve soltanto delusioni. Allevata da una zia, aspira a una vita indipendente, ma devia: si sposa senza amore, accumula debiti e finisce nelle alcove clandestine. La forza della sua personalità non riesce a sconfiggere le avversità. E’ la sintesi di un romanzo di Marco Praga, commediografo consacrato non ancora ventenne. 

Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele

Suo capolavoro per la critica “La moglie ideale” (1890), portata sulle scene con enorme successo da Eleonora Duse, accompagnato da un trionfo nel 1889 con la commedia “Le Vergini”, interpretata da Virginia Marini. Fondò e diresse la compagnia stabile del Teatro Manzoni di Milano, fu critico teatrale per “L’Illustrazione Italiana”, si occupò della Società autori e editori, di cui fu presidente. Del 1893 è il romanzo “La biondina”, dal quale nel 1981 la tivù trasse l’omonimo sceneggiato, affidando il ruolo di protagonista alla bravissima, deliziosa colta e intelligente attrice Ottavia Piccolo. Registi, i fratelli Antonio e Andrea Fazzi.

La macchina da presa piazzata in vicolo dei Lavandai, sul Naviglio Grande, e dintorni, non era una novità: erano state già girate scene del commissario Maigret interpretato da Gino Cervi; di “Cinque Giornate”, di “Bubu di Montparnasse”… E ogni volta con folle di curiosi anche sui ponti, ma ben lontani dal luogo di operazione.

Ad accennare all’avvenimento fu la stessa attrice qualche sera prima del “ciak”. Era a cena a casa mia, con Enzo Catania, capocronista de “Il Giorno” di via Fava, altri colleghi e il vicequestore Tornatora, che allora aveva l’ufficio al commissariato Ticinese in via Tabacchi, e lo disse per caso a mia moglie Irene, senza pensare che era attorniata da cronisti con le orecchie lunghe e ficcanaso: Enzo agguantò subito la notizia ed esplose, com’era suo costume quando si trovava di fronte a un’esclusiva. “Faccio una pagina intera sul giornale, Il pezzo lo scrive lui”, indicando me, “e chiamo il fotografo Uliano Lucas, che è un maestro”. Domani va bene?”.

Presicci con Enzo Catania

Ottavia, forse un tantino stupita, acconsentì e il giorno dopo eravamo sul “pont de preja”, uno dei tanti che stanno a cavallo del “Ticinello”, che scorre placido e silenzioso tra Ripa Ticinese e l’alzaia, due sponde animate da passanti, esercenti, artisti, pellegrini, turisti attratti da questa meraviglia. Una Milano pittoresca, che negli anni Cinquanta – come ricorda Gigi Pedroli, grandissimo acquafortista con Studio dell’Incisione all’inizio dell’alzaia venendo dalla stazione di Porta Genova – era abitata da molti meridionali.

  La tettoia di vicolo dei Lavandai

Un luogo dove tanti vorrebbero tenere casa e dove molti artisti avevano lo studio, specialmente in vicolo dei Lavandai: Formenti, Aldo Cortina, Bertuzzi, che tempo prima mi aveva presentato una signora di 92 anni che aveva venduto la lisciva alle donne che si sfiancavano sotto la tettoia, diventata monumento nazionale e accoglie scolaresche e turisti desiderosi anche di ascoltarne la storia, in cui echeggiano personaggi, le cui voci si sono spente da tempo: l’omino che curava le lampade ad olio sparse per le strade, per esempio. Negli anni Settanta c’era ancora chi poteva parlare, per averlo sentito dire, dei carri che entravano nei cortili (sui fianchi degli ingressi ci cono ancora gli incavi scavati per far passare i mozzi delle carrozze) o della sfangatrice del Comune, specie di traino tirato da un cavallo; dell’ambulanza dei pompieri o del barchett de Boffalora, un natante malridotto – gli dedicò pagine crude Paolo Valera nel suo volume “Milano sconosciuta” - che trasportava soprattutto venditori ambulanti ed ebbe maggiore notorietà ai primi del 900; o del “Gamba de legn”, il trenino in servizio tra Milano e Magenta con la stazione in un cortile di corso Vercelli.

                Il Naviglio Grande

Tutto questo e tanto altro veniva in mente conversando con Ottavia, donna sempre affascinante e attrice di grandissimo talento, che mi ascoltava osservando lo scorrere del Naviglio Grande, che fino al 1178 giungeva solo ad Abbiategrasso. Poi Beno da Gozzadini, podestà di Milano nel 1257 decise di allungarlo. Ma il clero e la nobiltà, appesantiti dalle tasse emesse per realizzare quei lavori, lo fecero ammazzare, gettando il corpo nel Naviglio, che allora si chiamava Tesinello. L’impresa di Beno da Gozzadini fu ripresa dal Torriani, che lo aveva sostituto nella carica.

Con Ottavia – nata a Bolzano e interprete di tanti film, come il “Gattopardo“, “Metello”, “Il lungo silenzio”, “Zorro”, “Il prezzo della vita”, “Nel giardino delle rose”, “Marciando nel buio” e tanti altri - ci soffermammo a lungo sul tema del Naviglio, anche perché sullo sceneggiato non poteva spingersi troppo. Parlammo delle chiatte, che portavano il marmo per la Fabbrica del Duomo da Candoglia in via Laghetto, vicino all’Università Statale; sabbia, carne e altra roba; della “rozza dei navigli”, cavalli stanchi e macilenti che dall’alzaia tiravano i barconi che navigavano controcorrente... Poi Ottavia tornò a visitare il vicolo e il giorno successivo andò a Roma per provare i costumi. Anche lei amava questa Milano. Peccato che avesse poco tempo per poterla godere.

            Enzo Catania

Il Giorno” uscì con il titolo “Scopriremo in Tv la Milano dell’Ottocento”. Catania, nella cui testa baluginavano idee interessanti, affidò a Luisella Seveso l’incarico di scrivere una serie di articoli sulle vie della città, sulle loro curiosità, su quello che c’era una volta e quello che c’era più. E Luisella assunse il compito con il suo solito entusiasmo.

Si è scritto tanto sull’argomento. Nel libro “Il Naviglio Grande a Porta Ticinese” di Sergio Benedetti, pubblicato in copie limitate dalle Edizioni “Pont de Preja”, si leggono poesie in dialetto meneghino di Armando Brocchieri, che fra l’altro conosceva a menadito la storia della zona. Quel libro fu presentato nella galleria d’arte di Angelo Cottino una sera del Settanta non da un milanese ma da un terrone arrivato a Milano da quattro o cinque anni e già interessato alle vicende vecchie e nuove della città del Porta: il sottoscritto.

Al vicolo, che Brocchieri definiva “chiesa di pittori”, sono tornato tante volte. Non è più quello di una volta. Non ci sono più Guido Bertuzzi, Aldo Cortina, Sarik, al secolo Riccardo Saladin, il Carletto, simpaticamente autonominatosi custode de “el rizzulin”, un rivolo d’acqua alimentato dal naviglio (guai se scopriva un pezzo di carta galleggiare); non c’è più da tempo Elvira Radice, amica di una fotomodella che proprio accanto alla sua porta seppellì il suo cane morto di cancro, dopo essere stato portato perfino a New York (almeno così mi disse Bertuzzi al corrente dell’amore che la ragazza aveva dato al suo Fido nel tentativo di salvarlo.

Ingresso del Piccolo Teatro

            Ponte sul Naviglio

 

 

 

Mi piaceva andare in quel pezzo di Milano, romantico, tranquillo, popolare. Mi piaceva entrare nello studio di Aldo Cortina, fra l’altro titolare di una famosa libreria universitaria di fronte alla Statale. Una sera nel suo “atelier” incontrai Bettino Craxi, che era suo amico ed estimatore. Aldo era generoso, disponibile, ospitale. Quando si andava da lui la domenica mattina, prima di stringerti la mano ti consegnava un bicchiere di vino buono. Era stato allievo di De Pisis e dipingeva anche sistemando il cavalletto sulla sponda del Ticinello. Come Guido Bertuzzi, che amava raccontare vecchie storie sul vicolo e sul naviglio. Mi disse che il suo studio era stato un’osteria, dove una volta era stato visto il feldmaresciallo Radetzki, aggiungendo che gli era stato riferito da altri. Quando Guido seppe che sarebbe arrivata Ottavia Piccolo per girare “La biondina” gli brillarono gli occhi e mi pregò di accompagnarla nel suo studio. Era uno dei suoi “fans”. Lo ero anch’io. Da anni vedevo i suoi film: mi piaceva il suo bellissimo volto da bambina. Mi piaceva il suo modo di recitare. Catania mi esortava ad allestire un’altra serata, invitando Ottavia, la quale ricordava le orecchiette che aveva gustato da noi e avrebbe voluto ripetere. 

Rimandavamo sempre, anche a causa del mio lavoro, che non mi consentiva soste e qualche volta mi capitava di presentarmi in ritardo. Successe anche quando avevamo a cena il questore Enzo Caracciolo, che aveva una figura da divo dello schermo. E un cruccio: non aver potuto risolvere l’assassinio della Ferrari alla Cattolica. Da pensionato, quando m’invitava a casa in viale Piave e il discorso cadeva sui delitti di Milano, quel cruccio riemergeva.         Anche lui era innamorato dei navigli e non mancava di dire che era un peccato che li avessero coperti. Quanti poeti, pittori, maestri della penna… hanno amato i navigli. Alfonso Gatto, Gaetano Afeltra, Indro Montanelli, Alberto Vigevani… li amavano. Vigevani intitolò un capitolo del suo “Milano ancora ieri”, “Padre Navigilo”, “che scorrendo tra ponti, chiuse, mulini e passerelle, si diramavano in minori canali che portavano acqua ai campi e alle risaie”. 

E Maurizio Cucchi, ne “La traversata di Milano: “… E’ giorno, e infatti è proprio di giorno è consigliabile andare sui Navigli, quando questi dolci luoghi conservano anche nei primi tratti disseminati di ritrovi e ristoranti una buona parte della loro naturalezza antica”. Poi Cucchi scende dal tram “in via Rovello. Via Rovello significa Piccolo Teatro e Piccolo Teatro significa storia della nostra cultura”. Nel teatro fondato da Giorgio Strehler e Paolo Grassi in una via che è un budello applaudii Ottavia Piccolo dal volto di bambina in “Calamity Jean”, invitato con mia moglie da lei stessa. E “La biondina”? Inutile dire che mi piacque. Ottavia fu di una bravura altissima. Ma non toccò a me recensire lo sceneggiato. Io ero e resto un cronista.







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