Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 26 maggio 2021

Quando frequentavo la chiesa di San Domenico

 

 Intervista di Franco Presicci a Ernesto Calindri

UNA CAPPELLA ADATTATA A TEATRO

PER UNA DECINA DI BRAVI RAGAZZI

 

Tutto cominciò il giorno in cui don

Stefano Ragusa, il parroco, mi

chiese di realizzare il presepe

vicino all’altare.

Dipingevo sulle pareti

dell’”oratorio” i personaggi

di Topolino e recitavo.

 

 

Franco Presicci

Dei miei anni tarantini a volte ho tanta nostalgia. Confesso che spesso ripenso agli amici, alcuni dei quali non ci sono più: Vincenzo Petrocelli, caporedattore al “Corriere del Giorno”; Piero Mandrillo, grande intellettuale; Gino Gattinari, che faceva il medico e aveva una solida cultura umanistica; Giacinto Peluso, scrittore che ha fatto conoscere Taranto e le sue tradizioni e i personaggi dei primi del ‘900 in tanti libri preziosi; Mario Ligonzo, che dal quotidiano della Bimare passò a “Il Corriere della Sera”… Ho ricordo anche dei luoghi che frequentavo di solito: la Chiesa di San Domenico, da dove il Giovedì Santo esce la processione della Madonna, i vicoli, “le strìttele”, le chiàzze, “’a renghière”, le “paranze”, gli urli dei pescatori all’arrivo del pesce, Vincenzo Micoli, che vendeva i frutti di mare “abbascie ‘a marine”… 

Chiesa di San Domenico - foto Antonio De Florio
Il parroco di “Sanemìnghe”, cioè San Domenico, don Stefano Ragusa, che andava e veniva da Martina Franca, la sua città natale, ed era amico di don Martino Calianno, canonico penitenziere molto noto e apprezzato nella città dei trulli. Una ventina di giorni prima di Natale di una vita fa don Stefano mi pregò di cercare una persona capace di fare il presepe tra il suo ufficio e il presbiterio; e gli dissi che, avendo visto tante volte mio padre farlo a casa mia, io stesso potevo subito mettermi all’opera. Accettò, dopo avermi chiesto quanto potesse costare il materiale necessario. Se aveva già le statuine, poco: la creta da sciogliere nell’acqua potevo procurarla senza spendere una lira; i rami di pino si potevano prendere a San Vito e così anche il muschio. Ci pensò su un po’, perché reticente ad alleggerire il portafoglio, e dopo qualche calcolo mentale si decise. Nel preventivo non c’erano un paio di lampadine, ma la provvidenza risolse il problema. 

Il risultato non fu deludente: la struttura aveva montagne innevate con la farina, sentieri sinuosi, discese, scalinate, anfratti, casette realizzate con il cartone, un ponte, una fontana, un recinto con animali, la grotta bene illuminata, i pastori disposti con criterio... Del resto avevo 16 anni e non si poteva pretendere di più. Don Stefano fu contento e mi mise a capo di un gruppo di giovani assidui alla parrocchia, che non disponeva di un oratorio. Ci riunivamo in un paio di locali vuoti, dove conversavamo, facevamo piccoli giochi e io mi divertivo a decorare le pareti con Topolino e altri protagonisti disneyani: facevo i modelli su carta da pacco, bucavo i contorni, ci spargevo la terra d’ombra, appoggiavo la carta al muro e strofinandola trasferivo sul bianco Gamba di legno, zio Paperone, Pippo, quindi passavo al colore. Naturalmente roba da dilettante. 

Poi, visto che ci sapevo fare e che alla parrocchia del Sacro Cuore, alla Tre Carrare, che non avevo abbandonato, mi cimentavo nel teatro, il prete adattò allo scopo un’ex cappella utilizzata come deposito, facendovi costruire il palco da un fedele, che tra l’altro dotò un piccolo locale attiguo di scalini che consentivano l’accesso al tavolato. Una volta stavamo per portare in scena una commedia in cui aveva una sua parte il diavolo interpretato da me e don Stefano, notato che avevo addosso un abito di carta crespa, fattomi da mia madre, mi si avvicinò preoccupato: “Sotto cos’hai? Se l’abito si strappa…”. “Non si strapperà, non è carta normale e io dovrò stare quasi immobile”. 

La cattedrale da un vicolo di Taranto vecchia
La commedia l’avevo scritta io prendendo un po’ di qua e un po’ di là; ma non lo sapeva nessuno. L’avevo confidato solo al sacrestano, soprannominato “’a caggiàne”, perché più che camminare volava. Ma lui non faceva caso a quel nomignolo, anche perché sapeva che l’accostamento con il gabbiano conteneva affetto e simpatia. Sapeva anche di non essere obiettivo: tutto ciò che accadeva lo addebitava a uno dei ragazzi, che si chiamava Sferra, e non al vero responsabile; così l’impertinente che la sera, quando, durante la funzione, lo vedeva afferrare la corda della campana, nel buio del vano, credendo d’impaurirlo, faceva un leggero sibilo con un fischietto o emetteva una voce cavernosa, come fosse un fantasma, la passava sempre liscia.
 
Quando andavo a “Saneminghe”, cioè due o tre volte la settimana, mi fermavo a guardare la porta del seminario (pensando alle vocazioni che si erano sparse nelle chiese); la donna seduta davanti alla sua botteguccia con accendisigari, madonne con la neve in una palla di vetro su un banchetto e pacchi di sigarette in una scatola di cartone della Birra Raffo, le vecchie case, il vicolo in discesa che portava alla bottega di “Cicce ‘u gnùre”, che vendeva le cozze e i frutti di mare, allora abbondanti anche sotto la vicina tettoia della dogana su banchi a scalini di legno con grossi piatti concavi in terracotta, dove “vònghele”, “nùce”, ”còzze pelòse” e “gnore”, cozzagnàchele, “iavatùne”… “ogne tànde sputàvene”. “’Nu tresòre”, di cui era ghiotto anche Piero Mandrillo, che frequentava una volta la settimana la pescheria di via Acclavio, a un passo da via D’Aquino. Poi cominciai a diradare i miei pellegrinaggi nella città vecchia, perchè avevo anche l’impegno della scuola e non potevo distrarmi troppo. 
 
Il ponte girevole aperto

Al borgo conoscevo tante persone. Per esempio il pugile Armando Vernaglione, che sul ring faceva faville, tanto che diventò campione nazionale (ricordo il suo incontro nel gennaio del ’57 con Giancarlo Garbelli). Abitava in via Giusti, di fronte allo stabile della signora Ida, che mi dava lezioni di matematica e un giorno si scandalizzò vedendomi con i pantaloni strappati e non credette che ero stato vittima di un cane irrequieto. In quei pressi allora c’erano “’u fùrne de mèst Petrìne”, l’ufficio dei vigili urbani, fiancheggiato da un giardino con un cancello. Le guardie e “tutt’u quartìere” salutavano con rispetto Vernaglione, come facevo io quando lo vedevo stagliato sulla soglia della sua abitazione, al pianterreno. Diversi anni fa, in una mia rimpatriata mi sentii chiamare, mi voltai e vidi lui, che non era più il gigante di una volta, ma sempre elegante e schivo. 

La dogana vista dal mare
Mi facevano tristezza gli amici e i conoscenti che per l’età erano diventati irriconoscibili. Mi capitò d’intercettare un mio cugino mentre parlava con un signore un tantino agitato. Quando si lasciaro
no gli chiesi chi fosse, e lui: “Com’è, non’nge t’u recuèrde? Angele P., c’avenèv’a scòle cu mmè’ e ère pùte amìche tuve”. Angelo P, già, studente del liceo scientifico, bravissimo specie in scienze; e qualche volta nel pomeriggio vendeva crema per scarpe, calzatoi e “ciucculatère”, andando per strada con un carrettino. Poi si laureò e vinse il concorso per l’abilitazione all’insegnamento. Era un’ottima persona anche da ragazzo. Lo prendevamo in giro perché era un po’ strano. Una sera un gruppo di amici stavano chiacchierando sul lungomare; uno di loro mise un bracco attorno ai fianchi della fidanzata e si accorse che erano già occupati da quello di Angelo. La ragazza stava subendo l’invasione per non accendere il fuoco. 

Di altri nessuno sapeva dirmi nulla. Uno, di nome Brescia, si era laureato in Giurisprudenza e insegnava; un altro ancora si era trasferito a Desio, dove era preside in una scuola media. Gli anni passano, gli alberi si seccano, le vie della memoria cambiano fisionomia, i palazzi che furono belli, prestigiosi, con le facciate ben tinteggiate, si screpolano, qualcuno ha le finestre tappate e gli uomini perdono le forze, assumono un altro volto o lasciano questo mondo. In via Nettuno, dove sono nato e ho abitato per tanti anni, ci vado ancora, senza conoscere più nessuno. 

Cozze e frutti di mare 40 anni fa alla Dogana
Quando ci tornavo per le ferie mi fermavo sulla soglia dell’androne del palazzo, osservavo attentamente la gente che passava, nella speranza di identificare un viso, ma rimanevo quasi sempre deluso. Fui felice il giorno in cui, fermo di fronte a piazza Fadini, grande mercato di frutta e verdura, sentii una mano sulla spalla. Era il titolare del panificio La Sorsa, che emanava profumi proprio lì, all’angolo con via Leonida. Mi invitò a entrare nel negozio, mi presentò festosamente sua moglie, fra tante facce curiose che sicuramente mi presero per una persona importante. Il fornaio mi sollecitava a ricordare questo e quello, i tempi del vicino Savoia, 50 lire il biglietto… Potevo mai aver dimenticato quel cinema, dove andai con mia madre e mia nonna a vedere una volta “La Traviata” e un’altra volta “Rigoletto” e poi da solo tanti altri film, soprattutto “western”?
 
Com’è cambiata la mia città. Scomparse l’edicola di Zappatore in via Di Palma, quella di fronte all’Arsenale e quella tra via Mazzini e via Leonida, il cui proprietario aveva un pastore tedesco che a volte la domenica mi pregava di portare a spasso (mi davo le arie perché indossavo i pantaloni alla zuava, confezionati dalla mia mamma). Sparite le arene (Artiglieria, Corallo, Monacelli, Italia, Arsenale). La Sem è rimasta sulle cartoline d’epoca. Come i tram, che avevano la fermata all’angolo tra via Leonida e via Mazzini prima di girare a sinistra, attraversare piazza Ramellini e proseguire verso Solito. Sparite dalla circolazione anche le carrozze. Quando avevo 12 o 13 anni con gli zii Nina e Dionigi e i miei tre cugini prenotavamo quella di “zì Mechèle” per andare alla stazione a prendere il treno per Martina. Il vetturino dava forti colpi di frusta quando una voce gridava: “Alè, alè, alè, ‘u uagnòne stè’ rète”. Anch’io mi accomodavo sull’assale e viaggiavo gratis fino a quando quel grido non mi segnalava al conducente. 
 
Di ritorno dal Collegio Manzoni, che aveva la sede in corso Umberto, di fianco dell’agenzia viaggi Ausiello, mi mettevo sul predellino del tram. Se arrivava il controllore abbandonavo la postazione del mezzo in corsa. Tutto questo è ben conservato nel mio archivio mentale. Come gli anni del Teatro Orfeo, dove per il settimanale “Sette Giorni“, di Bari, direttore Papandrea, intervistai in tempi diversi Eduardo De Filippo, Emma Gramatica, Elsa Merlini, Ernesto Calindri, Paolo Carlini, Paolo Poli… Oltre a Milva, purtroppo deceduta a 80 anni poco tempo fa, che andai poi a vedere negli anni ‘60 al Lirico di Milano per il quotidiano “L’Italia”: in prima fila Pietro Nenni, che alla fine di “Bella ciao” le lanciò il basco. La incontrai con il marito Maurizio Corgnati alla Ricordi. Quando la grandissima cantante si esibì all’Orfeo aveva vent’anni e appena vinto con Alighiero Noschese il Premio “Voci nuove”, indetto dalla Rai.. 
 
Insomma su “Tàrde nuèstre” e “sus’a tùtte le besciù ca tène” non ho scritto un libro, ma ce l’ho in bozze nella testa.

Nessun commento:

Posta un commento