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martedì 19 dicembre 2023

La storia di un passerotto trovato sulla neve


GIBBIRICCì FU INSIDIATO DA UN GATTO

CHE DOPO VARI APPOSTAMENTI LO UCCISE


Nido in gabbia
La nonna Graziella lo aveva curato

amabilmente ospitandolo nel cestino

in cui conservava la lana per i

maglioni destinati ai nipoti. 

Lo aveva messo in gabbia per

difenderlo dal nemico, molto scaltro

e furbo.

 

 

Franco Presicci

La neve mi affascina. Soprattutto quando copre con le larghe falde tetti, terrazzi, strade, piazze, monumenti, alberi, tratturi. Un manto candido che crea un’atmosfera da favola. Fu sulla neve che tantissimi anni fa, osservando lo spettacolo magico di tutta quella bambagia (non ne avevamo mai vista tanta), scoprii un passerotto implume, infreddolito che invocava la mamma, emettendo insistenti cinguettii. Lo raccolsi e, tenendolo nel palmo di una mano, lo portai alla nonna, Graziella, che amava come me gli uccellini.

Uccellini crescono
Alla sua vista la vecchietta vuotò subito il cestino cilindrico in cui conservava i gomitoli di lana che utilizzava per fare i maglioni per i nipoti, lo imbottì di ovatta, e quella fu la nuova casa dell’orfanello. La nonna lo adottò, dedicandogli tanto amore: lo imbeccava più volte al giorno e avendo capito che era avido di briciole di pane bagnate di latte, fu quello il pasto che gli preparava. Del resto non avevamo niente di meglio: di biscotti non ce n’erano neppure per noi. Era da poco finita la guerra e continuavamo, come tutti, a razionare il cibo. L’uccellino diventava grandicello, si riempiva di piume, balzava sull’orlo del cestino di vimini, sbirciava i dintorni e rientrava. Una mattina volò sulla mia spalla, da lì sulla mia testa, strisciò il becco sul mio naso, forse in segno di affetto o di gratitudine. Quelle esibizioni divennero più frequenti, mi cercava, zampettava sul piccolo tavolo che utilizzavo per fare i compiti, giocava sui quaderni, lasciò una traccia della sua zampetta su un tema che stavo componendo proprio sui miei rapporti con lui; e consegnai lo scritto alla maestra con quell’impronta. Fui così invitato a leggere le imprese del mio piccolo volatile, la dimestichezza che si era stabilita fra noi e la paura che mi prendeva al pensiero di perderlo. “Mettiamolo in gabbia – propose la nonna - ne ho una un po’ sgangherata nello sgabuzzino del cortile, ma abbastanza grande e comoda. Tuo zio Dionigi la può raddrizzare”. “No, ti prego, la gabbia no. E’ nato libero, ormai è abituato a passeggiare, saltare, planare sul comò, sulla cassapanca, ad affacciarsi in cucina al rumore delle padelle, mi fa le moine, è gioioso, la tua proposta mi fa star male. Chiudendolo in gabbia restringiamo il suo campo d’azione. La gabbia è una prigione per i malfattori, non per le bestioline che ci ha donato il Padreterno”. La nonna lo chiamava: “Gibbiriccì”. Fu la prima idea che le era venuta in mente senza essere ispirata da niente. “Ti piace questo nome?”, gli chiese; e il piccolino mi guardò fisso, come volesse sapere il mio parere o dire: “Un nome vale l’altro”.

Casetta

Quando gli parlavo avevo sempre la sua attenzione. Veniva sul mio dito indice, lo percorreva, si spostava sull’altro, lo accarezzavo ed ero sicuro che le mie premure lo rendevano felice. Una mattina al risveglio me lo ritrovai sul cuscino come una sentinella intenta a vegliare sul mio sonno. L’idea della gabbia era superata? Lo speravo. Spesso – mi riferì una cuginetta non ancora pronta per i banchi scolastici – mentre io ero a scuola la nonna ripeteva alla mamma che non poteva passare il tempo a vigilare su quel gioiellino, al quale tra l’altro inavvertitamente avrebbe potuto fare del male. Una sua amica le aveva confessato che infilando il piede in una ciabatta aveva ucciso un passerotto del suo… allevamento, che durante la notte si rifugiava in quella calzatura, dopo aver fatto tante acrobazie come il nostro “figlioccio”.

E allora l’idea della gabbia riprese piede, complice mia zia, che, salì su una scala e conficcò un chiodo nella parete del cortile, in alto, e vi appese la gabbia con all’interno “Gibbiriccì”, al quale dovetti spiegare singhiozzando che non avevo il potere di evitare quella decisione, resa necessaria anche per la presenza dei gatti, che gironzolavano nei dintorni. Avevo detto alla nonna che avremmo potuto cercare di allontanare il pericolo, ma lei, a malincuore, mi fece notare che ai felini basta un balzo per fare un boccone.

Uccellini

Nido su un albero
A uno in particolare, colore bianconero, lo sguardo poco rassicurante, sempre appostato, pronto a cogliere l’occasione per compiere l’ammazzamento. Mio zio Dionigi, che era falegname, figlio di falegname, fratello di falegnami e zio di falegnami, ma capo in un hangar dell’Aeroporto militare, che stava oltre lo stadio “Corvisea” (lo raggiungeva con la bicicletta) un bel giorno presentò alla nonna una gabbia che lui aveva architettato con cura anche dei dettagli. Era bellissima, spaziosa: una dimora quasi elegante e fornitissima. “Fidati – dissi a Gibbiriccì, accarezzandolo per fargli coraggio – Loro vogliono soltanto proteggerti. E poi non starai sempre lì dentro. Quando torno dalla scuola ti tengo con me”. Cinguettò, immagino a mo’ di consenso, saltellò su una delle assicelle, poi sul beccatoio, sulla vaschetta dell’acqua. Mi rivolsi al gatto voraci e lo sfidai: “Se tocchi Gibbiriccì, devi vedertela con me”. Che felicità avere quell’ essere così piccolo come amico. Ero figlio unico e lo consideravo un fratellino. Avevo nove anni. Un giorno lo liberai dicendogli: “Vola, ma torna quando te lo dico io”; e lui volò verso il nespolo che stava nel cortile di fronte. Sibilò qualche verso, passeggiò gongolando su un ramo, poi su un altro. Mi accorsi che il “nemico” bianconero era arroccato sulla tettoia dello sgabuzzino e fingeva di dormire. Ordinai a “Gibbiriccì” di tornare e obbedì. Lo rassicurai, gli detti un bacino sul becco e lo portai in casa, chiudendo la porta.

Casetta

Poi affrontai il gatto agitando una canna lunga quanto l’asta di una bandiera, ma quello, arrogante, menefreghista, rimaneva lì immobile come una statuetta di terracotta. Allora io, all’insaputa di mia madre, presi una scala un po’ scricchiolante e misi un chiodo più in alto, illudendomi di poter rendere irraggiungibile la “prigione”, ignorando l’agilità da trapezista dei gatti. Il dramma. Una mattina al rientro dalla scuola trovai la gabbia a terra, con Gibbiriccì dentro, esanime. Il nemico aveva mostrato abilità circensi, fatto cadere la gabbia e per la paura il mio uccellino ebbe forse un infarto. Piansi, disperato. Per giorni e giorni. Ero inconsolabile. Mia madre mi promise che mi avrebbe comperato un altro passerotto al mercato di piazza Marconi, ma io mi ribellai: un altro uccellino non avrebbe mitigato la sofferenza per la morte del mio Gibbiriccì. Era mio amico, mio confidente. E poi? Non ho più voluto vedere quella gabbia: doveva tenere Gibbiriccì al sicuro e invece era stata prima la sua prigione e poi la sua tomba.

Casetta sul capasone
Zio Dionigi
Dichiarai guerra a quel gatto, accusato da un ragazzino che abitava al pianterreno, in un‘abitazione che si affacciava nel cortile, ma appena mi vedeva quello scompariva. Temeva la mia vendetta, ma, amando gli animali, non avrei mosso un dito contro di lui. Lo avrei rimproverato a muso duro, gli avrei urlato il mio dolore, e lui avrebbe forse capito, anche se era pronto a rinnovare il misfatto. Oggi ho molti anni sulle spalle, sono vecchio, ho raggiunto i novanta; eppure ricordo ancora il mio passerotto che accompagnò tanti miei giorni adolescenziali. Gibbiriccì li ha segnati. Non ho mai smesso di pensare a lui, neppure adesso: spesso mi è capitato di raccontare la storia a qualche bambino che viene a trovarmi (figlio di amici, di nipoti, di dirimpettai). Con Cibbiriccì ho coltivato l’amore per gli uccelli. Ne ho avuti tanti: diamantini, canarini, in gabbie grandi quanto voliere. Li ho viziati, facendoli pasteggiare anche con i biscottini. Ogni tanto qualcuno usciva dalla gabbia e volava verso i cipressi del Libano che abbiamo di fronte a casa, qui a Milano. E tornava, tornava sempre.
 Hanno fatto i nidi. I piccoli sono cresciuti anche giocando fuori dalle gabbie, venendo sulle mie braccia, pranzando a volte con noi a tavola. Non ho dato il nome a nessuno, non ho avuto preferenze con alcuno di loro. Li ho tenuti nel giardino della casa di montagna. Non ne ho più, ma costruisco casette in cui vengono a nidificare. Non tutti gli uccellini d’inverno hanno un tetto in cui ripararsi di notte. Io ho un condominio, di volatili. Provvedo al loro sostentamento, anche se li vedo solo uscire ed entrare nella loro casa, su cui ho inciso un nome: Gibbiriccì. Mi basta. E già molto che al mattino presto diano vita ad un’orchestra. Voci deliziose, ammaliatrici. Mi ricordano il mio passerottino, che non aveva una voce lirica, ma quella per me era una voce cara, che mi resterà sempre nel cuore. Quando sono in campagna, a Martina Franca, mi delizia vedere le rondini schierate sul filo della luce e i passeri nidificare nei varchi dei muri. A Milano non raccolgo mai da terra un piccolo merlo caduto dal nido: affido il compito alla sua mamma. Un giorno ho preso un piccolo colombo ferito. L’ho curato e poi l’ho lasciato andare. Gli uccelli devono essere liberi di attraversare il cielo.






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