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mercoledì 11 giugno 2025

Due personaggi che hanno cantato Taranto

SAVERIO NASOLE E MIMMO CARRINO DUE NOMI DA NON DIMENTICARE

 

Mimmo Carrino

Una delle poesie più commoventi di Nasole è “A ppane mastecate u ste crescìme”. Poeta autentico, che si espresse nel nostro dialetto così armonioso. Carrino con la sua chitarra deliziò il pubblico con le sue canzoni.

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI

(foto di Antonio De Florio)

 
  

I bambini indesiderati o nati da un amore clandestino che avrebbero portato disonore ad una famiglia venivano collocati nella Sacra Ruota o Ruota degli Esposti, che si trovava prevalentemente nei conventi e aveva l’affaccio sulla strada. Provvedevano i monaci ad educarli e avviarli al sacerdozio o affidandoli a qualche coppia che li desiderava. Chi doveva disfarsi del “fagottino” si avvicinava alla Ruota di notte, quando nessuno poteva vederlo; o incaricava qualcuno di compiere il misfatto. Era una pratica che non riguardava soltanto il nostro Paese.
Saverio Nasole

Era dunque la necessità di tenere segreto quello che era considerato un peccato e a volte era la miseria a spingere tante madri a disfarsi del neonato. I monaci venivano avvertiti della nuova presenza dal suono di una campanella, uno di loro si avvicinava alla ruota e apriva la porticella che dava all’interno. Non sempre le madri abbandonavano i figli senz’alcuna sofferenza.
Saverio Nasole, poeta delicatissimo, autore di tanti bellissimi versi e anche di testi teatrali) scrisse una poesia meravigliosa e commovente, “’A ppàne mantecàte u ste crescime”. Bella, davvero bella, ricca di armonia: ogni rigo una lacrima. Scritta in dialetto tarantino, con un po’ di buona volontà la può capire anche chi non conosce la nostra parlata, che è un linguaggio dell’anima. Le pagine di Nasole sono sempre toccanti. E’ poeta vero, attento alle dinamiche della società in cui si vive.
Mille volte grazie ad Antonio De Florio, che ha ripescato i versi che propongo: “Indr’a ‘nu strittelìcchie/ e nu cambàme sule de fatje/ a sorta nostre no’ n’a jastemame/ piccè tenime spèranze e fede a Dje/ cu ne de’ sembe luce e sanetate/ pe’ quiste peccennùdde abbandunate/ a ppane mastecte u ste crescime…”. Quanta passione, quanta sensibilità e quanto amore in questa lirica, per questo dono ricevuto, che dà alla casa gioia e calore, instillando il desiderio di un abbraccio senza fine. Il bimbo è stato accolto in una casa povera, acqua e pane, ma la sua vita sarà serena. Cum’a ‘na chiande ha mmise le radici/ indra ‘stu core nuestre ‘stu piccinne/ e Gesecriste cu nu bbenedice”.
L’abbraccio è grande, la felicità della coppia pure. Il neonato ha una famiglia, non è un pacco da trasportare da una parte all’altra. E’ come fosse il frutto di un amore autentico; l’amore è un miracolo, ricrea, dà conforto e sicurezza. Il vagito di un bimbo può creare un’atmosfera di estasi, anche se dovrà vivere tra le reti, le nasse, le “zoche de le còzze”, nello spazio e nel cuore di pescatori.
Pescherecci e pescatori

E’ tanta la squisitezza di questa poesia, che fa emergere i sentimenti più veri e più profondi. In ogni verso s’annidano i palpiti del cuore del poeta, la sua riconoscenza per quel regalo divino. La poesia coinvolge, trascina, rapisce.
Via Garibaldi


Conobbi Nasole una vita fa, nella città vecchia, una sera in cui si recitava all’aperto, tra le facciate screpolate delle case, le finestre scricchiolanti; i negozi chiusi, i bassi semiaperti con le donne sedute fuori a fare da spettatrici; palcoscenico la via, breve e stretta, da cui si vedeva Mar Piccolo. Saverio Nasole era tra gli spettatori, riservato, come al Dopolavoro Ferroviario quando recitarono “’A stutate”, esaltata anche da “La Voce del Popolo” dei fratelli Rizzo (si stampava in una tipografia in piazza Bettolo). La gente si alzò in piedi applaudendo, mentre Nasole mostrava la sua soddisfazione con un sorriso leggero. Poi chiese un giudizio a Rizzo e il critico gli rispose che avrebbe preferito un altro finale. Solo quello. Il resto era un capolavoro.
Il ricordo di Saverio Nasole è sempre vivo, nonostante siano passati anni dalla sua scomparsa. Tempo fa un artigiano che realizzava “perdune” di terracotta con la calamita di fronte al “museo” di Nicola Giudetti, nella città vecchia, mi parlò dell’esistenza di un sodalizio degli amici del poeta.
Conversando con Antonio De Florio, collezionista di migliaia di foto e documenti sulla nostra Taranto, studioso della storia della città dei due mari, dei costumi antichi, ricercatore di vecchissime storie, è riemerso un altro personaggio, deceduto pochi giorni fa a 77 anni: Mimmo Carrino, che interpretando con la sua voce e la sua chitarra, soprattutto con la sua maestria indiscutibile, la lirica “A ppane mastecate u ste cerescime” ne esalta le virtù che hanno reso Nasole “immortale” . La voce di Carrino e le corde del suo strumento accrescono la commozione.
Mimmo Carrino
Carrino è anche lui un personaggio notevolissimo. Soprattutto negli Settanta si esibì da autentico padrone della scena anche nelle antenne private. La canzone che lo aveva imposto a un vasto pubblico s’intitola. “’A frusckelona mèje”. Una vera folla assisteva alle interpretazioni di Carrino. Lui e Nasole erano legati al dialetto come l’edera che si attorciglia ai tronchi degli alberi, alle facciate dei palazzi, ai pali della luce, ai muri a secco, senza mai abbandonare la presa. Carrino ha dato l’anima a Taranto, questa città regina, abbracciata dal mare e baciata dal sole, amata e decantata sin dai tempi più remoti, da scrittori venuti da lontano, compreso Guido Piovene, che di Taranto scrisse che “vive tra i riflessi, in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce”. Il noto autore di “Viaggio in Italia” descrisse i tramonti come “un’isola di fuoco”. Taranto è inondata di poesia. La sua bellezza straordinaria, esaltante riempie l’anima. Purtroppo a volte si è costretti a lasciarla con l’ansia di farvi ritorno. E Carrino se ne andò per ragioni di studio. Si insediò ad Urbino dal 1973 al 1981, dove si laureò. Insegnò disegno, ma sognava la sua città. Sentiva bisogno del profumi di Mar Piccolo, della parlata della gente della città vecchia; sognava le case, le vie, i rumori del borgo nuovo e di tutte le delizie sparse dappertutto.
Barche e  cozze

E ritornò alla culla. Una carriera entusiasmante, la sua. Incise dischi, tra le solite difficoltà, trovò il successo, la stima dei cittadini della sua città. Il valore non può essere trascurato, ignorato, umiliato. Mimmo Carrino emerse come un delfino dal mare. Il suo nome era sulla bocca di tutti, s’imparavano le sue composizioni, lo si applaudiva febbrilmente.
Il cantautore aveva una grande competenza musicale. Entrò nel gruppo locale dei Giom, frequentava personaggi che adoravano il dialetto, a cominciare da Bino Gargano, che io ricordo come persona garbata, fine, rispettosa (se non ricordo male era parrucchiere) e aveva una inesauribile passione per il teatro). I suoi testi si ricordano ancora. I tarantini veraci come le vongole, innamorati del vernacolo, che è l’espressione della nostra anima, non dimenticano. Le nostre radici sono in quella lingua. In una poesia di Saverio Nasole trovai la parola “allecrie”; e se ne prova tantissima nelle passeggiate nel borgo antico, sulla sponda “d’u mare peccennùdde”. Quelle passeggiate inebriano, come tanti versi di Nasole e la voce di Mimmo Carrino, due colonne, due pilastri. Mi emoziono quando sento i titoli di testi come “Arrevò Pirre e spicciò ‘a pacchie” e “’U cuggione d’a regine”.
Tarantini in via Cava

Carrino amava la città vecchia, dove andava spesso per suonare la sera nei locali in cui si vedeva con gli amici. Ascoltava i consigli che gli dava Enzo Falcone, ammirava soprattutto Bino Gargano, per i quali scrisse le canzoni. Familiarizzò, oltre che con Nasole e Gargano, anche con Edmondo D’Auria, uno degli attori, tutti bravissimi, della compagnia dello stesso Falcone, regista e attore stimato. Lo vedevo spesso, al circolo Arsenale, dove confluivano tanti tarantini anche per vedere i film che si proiettavano nelle sale al chiuso e all’aperto. Ah, oltre che con i Giom Carrino suonò anche con il gruppo denominato Showmen, che negli 60 era molto seguito.
Di attori illustri ne ho conosciuti anch’io, in questa mia deliziosa città. Anna Casavola, per esempio. E anche Enzo Valli, al secolo Murgolo, figlio di un graduato vigile urbano, attore a sua volta; il comico Mirabile e la figlia Lina, Murianni, un gentiluomo che lavorava all’arsenale, lo stesso D’Auria e altri.
Un saluto a Saverio Nasole, che tra l’altro fondò il sodalizio “Armonia dei due mari”, e a Mimmo Carrino, ai quali dovrebbe essere dedicata una via, come riconoscimento di tarantini veri che qualcosa a Taranto hanno dato

mercoledì 4 giugno 2025

La vita esaltante di un carabiniere

IL GENERALE LA FORGIA E LE GRANDI OPERAZIONI

 

Il generale La Forgia
L’ho ritrovato dopo tanti anni e abbiamo rivissuto
momenti molto movimentati; e le notti passate in strada sulle auto del radiomobile.

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
Non lo sentivo da tanto tempo. Quando ha preso casa a Roma e io sono andato in pensione, lui è stato promosso generale, ha lasciato a malincuore il servizio e ogni mese torna a Molfetta, la sua città natale, e rimane una settimana e a volte anche di più.
I cronisti  Berticelli, Lovati, Presicci. il generale Vitagliano e il cronista Laccabò

Nella città immersa nel verde della campagna, con il profumo del mare sempre gremito di barche, che scaricano pesce in vendita al dettaglio e all’ingrosso, s’incontra con gli amici dell’adolescenza riuniti a una tavola imbandita alla pugliese. Lo ritrovo, il generale dei carabinieri Paolo La Forgia, oggi settantunenne, dopo almeno 40 anni. Sempre gentile e disponibile, i sentimenti duraturi, i ricordi limpidi e scorrevoli, aperto al racconto. Lo risento grazie al maresciallo Pino Lato, che sta ad Assisi e ha nel taccuino della memoria appuntati, brigadieri, tenenti, capitani, colonnelli, generali della Legione dei Cc di via Moscova, a Milano, che a suo tempo ebbe come pilota anche il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vittima della mafia.
Ripescare un vecchio amico è sempre un regalo del destino, o della forza di volontà che fa immediatamente resuscitare ore, giorni, mesi, anni volati via come il vento. Con Paolo La Forgia ci vedevamo quasi ogni giorno, negli anni passati. Quando i carabinieri ci invitavano per una conferenza-stampa, lui, allora capitano, al termine mi precedeva nel suo ufficio con la scusa di farmi vedere qualcosa e invece tirava fuori dal cassetto una scatola di sigari toscani e ne sfilava due, trasformando l’ambiente in una fumea.
Auto dei carabinieri

ll telefono si è scaldato per il tempo in cui l’abbiamo adoperato. “Ricordi questo?”. “E tu, hai memoria di quest’altro?”. Una gara improvvisata vinta da tutt’e due. Lui comincia da Rho, o adagiato a pochi chilometri dal capoluogo lombardo. Gliene ha dati di problemi, questo centro, dove allora alloggiavano tante aggregazioni di rapinatori, trafficanti, ladri di ogni tipo, come a Milano e altrove; e i carabinieri sempre all’erta, sempre pronti a intervenire per mandarli al gabbio. Qualche operazione si è conclusa con furibonde sparatorie. Le “binde”, assalti a mano armata, a banche e ad altri luoghi appetiti, erano all’ordine del giorno, e non facevano soltanto rumore. “Ti ricordi l’operazione che si concluse in zona Niguarda, con i carabinieri in elicottero, altri scaglionati sulle scale di uno stabile in cui, in un appartamento, si erano rifugiati i “duristi” di grosso calibro? Bastava poco per scatenare l’inferno; “e invece noi li prendemmo mentre uscivano e sequestrammo l’arsenale, tra cui le mitragliette che avevano sottratto in una Gazzella dei carabinieri nel corso dell’operazione. Ricordi?”. “Io c’ero dall’alba. Ricordo il colonnello Tommaso Vitagliano (poi promosso generale) sotto l’ombrello per difendersi dalla pioggia furiosa” . La Forgia continua: “La Compagnia di Rho faceva mille arresti all’anno. Era una vita frenetica, notti insonni passate in strada. In auto ero con la testa fuori del finestrino per evitare che l’autista deviasse per la nebbia fitta”. Entusiasma quando racconta. “Avevo collaboratori eccezionali che davano l’anima al servizio, da Giuliano Meloni all’appuntato Carta, ai marescialli Gallone e Lucchelli. Nel ‘95 ci fu un sequestro-lampo di persona e nell’operazione per la liberazione della vittima intervenne anche il Gis (le teste di cuoio). Dopo aver localizzato il covo, mi trovai nel turbinio dei film il ragazzo fra le braccia. Piangeva, per l’emozione e per la paura. Che momenti! “Arrestammo tre uomini e una donna.
I generali Battista e La Forgia
La Compagnia – dice - gli ha dato molte soddisfazioni. La Forgia e i suoi uomini hanno fatto imprese memorabili, fra cui quelle per arginare gli scontri fra i tifosi che mettevano a ferro e fuoco la città. Ricorda piazza Duomo e dintorni arroventate, con gruppi di facinorosi appostati sul monumento a Vittorio Emanuele. Durante i suoi 40 anni di carriera ha sempre comandato reparti investigativi, con tutti i rischi che quel comando, come gli altri, comporta. Nel ‘94 sequestrarono 5 mila chili e 500 grammi di cocaina proveniente dalla Colombia. Individuarono i “container” parcheggiati nel porto di Genova, li aprirono, ma trovavano soltanto scarpe e tomaie. “Guardate meglio, approfondite”, diceva La Forgia.
Era notte e i segugi si liberarono delle scatole di scarpe e sotto scoprirono i panetti di droga. La Forgia chiamò il Comando generale a Roma, e poi ricevette per telefono gli elogi del presidente della Repubblica Scalfaro. E non fu la sola volta che un’autorità così in alto chiamasse per congratularsi. La fatica, il coraggio, la bravura, la scaltrezza di quegli uomini era nota. E noi giornalisti davamo spazio non soltanto in cronaca.
Quando i carabinieri ci chiamavano e noi ci presentavamo puntuali in sala-stampa non smettevamo di fare domande. Io del “Giorno”; Piero Colaprico o Lorenza Pleuteri di “Repubblica”; Paolo Longanesi del “Giornale”, Elio Spada o Giovanni Calabrò dell’”Unità”; e avevamo l’occasione di salutare i colonnelli Tommaso Vitagliano, Emanuele Garelli.
I generali La Forgia e Garelli


Elio Toscano, Morini, Martorana, Gebbia. Umberto Massolo e altri. E dopo al bar interno aperto sulla piazza d’armi a bere una bibita o un caffè, con l’ordine di non fare nomi, mai: l’ordine era che gli uomini dovessero operare nel silenzio. Quando nell’85 scrissi una serie di articoli sui racconti della polizia e dei carabinieri fui regato a non fare cenno alle generalità degli intervistati. Non potetti neppure dire che il colonnello Vitagliano realizzava ottimi quadri con protagonisti i carabinieri a cavallo su sfondo azzurro.
Per anni ho frequentato via Moscova, dove conoscevo tutti. Una volta mi fu consentito di trascorrere una notte in giro per la città su un’auto del radiomobile. La notte Milano ha un suo fascino particolare. Il buio interrotto dalle luci dei lampioni e dai lampeggianti di “volanti” e “gazzelle” e spesso il silenzio dalle sirene. Ricordo anche le voci, gli schiamazzi delle bische clandestine all’aperto, con qualche giocatore che riceveva denaro dalle mani di una falena, che aveva appena finito di sgambettare sulla strada. Di notte Milano ha le sue insidie. Una volta con un trattore sradicarono la macchina del bancomat di un istituto di credito. Le bande erano sempre in agguato, come quella del buco e quella che con la carotatrice in un “weeK end” sfondò un muro per arrivare al caveau” di una banca in piazza Diaz. “Ricordi, Paolo?”.
La Forgia. Garelli, Presicci. i questori D'Amato e Ninni


Paolo La Forgia ha la memoria inossidabile. Non gli ho chiesto se durante i pranzi con gli amici a Molfetta parla soltanto della gente che viene anche dai paesi vicini per acquistare orate, sarde, gamberetti, triglie… e magari anche qualche ostrica o cozza pelosa. Riappaiono, oltre ai ricordi delle giornate e delle nottate vissute nelle vie di Milano, quelli delle sparatorie e dei morti, a volte tre al giorno. Quando si ritorna alla “culla” si recuperano gli amici e si ha anche voglia di ammirare le bellezze, i panorami, le chiese, ovunque soffino aliti di vita.
La Forgia Molfetta ce l’ha nel cuore. La lasciò nel ‘77 per il corso allievi ufficiali a Roma. Entrò nell’Arma e fu destinato a Palermo, “dove mi trovai benissimo”; poi a Messina; poi ancora a Brindisi, alla tenenza dell’aeroporto; quindi alla Compagnia di Rho.
I generali Elio Toscano e Sergio Gebbia
Dopo tutti questi giri arrivò alla Compagnia Duomo di Milano, dove rimase dall’87 al ‘91; dal ‘92 al ‘96 al Nucleo investigativo; dal ‘96 al 2000 al Nucleo investigativo di Roma. Sempre come comandante. Non è finita. E’ stato capocentro della Dia della Capitale; poi alla guida del Comando nazionale dei carabinieri ispettori del lavoro per poi passare come referente dell’Arma alla Commissione parlamentare antimafia per la XVII legislatura. Nel 2018 viene promosso generale. “Milano – dice – è stato per me un periodo bellissimo, nonostante le continue telefonate dalla centrale operativa e le incalzanti operazioni contro una malavita sempre più agguerrita, decisa a colpire senza esitazione per farla franca o per realizzare un colpo. E a Milano le bande sono state numerose, da quella della dolce vita a quella dei rapinatori del lunedì (gli altri giorni fingevano di essere impiegati, uscendo dalla tana nell’ora in cui escono chi va davvero a lavorare); la banda del cinese, dei Tir e via dicendo. Senza trascurare i grossi nomi della mala, che si sentivano i padroni della città. Per l’impegno nell’Arma dei carabinieri il Comune di Molfetta a suo tempo ha invitato il generale La Forgia a tenere una conferenza nell’aula consiliare e gli ha consegnato una targa di cittadino che ha onorato la sua città. Una soddisfazione in più.


mercoledì 28 maggio 2025

Antonio De Florio fotografo d’arte

VA ALLA RICERCA DELLA TARANTO CHE CON IL TEMPO HA MUTATO FACCIA

 

Antonio De Florio

La sua macchina  fotografica è magica: fa emergere angoli spesso trascurati o ignorati; fa risaltare tutta la bellezza di una città apprezzata nel mondo. 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI
 
 
 
 
 
Barche in Mar Piccolo
E’ un anno che manco dalla mia città. Ci sono stato l’anno scorso per un impegno e non ho avuto tempo nemmeno di fare un salto da Cesarino, sulla strada per San Giorgio, a comperare il pesce. Eppure, avevo l’intenzione di incontrare Antonio De Florio e andare con lui “abbàsce ’a Marìne”, a respirare quell’odore salmastro che mi trascina. Lo considero il mio santo protettore, Antonio, anche perché, quando ho bisogno di una foto introvabile, detto e fatto: l’immagine è già sulla mia scrivania. E quando mi serve qualche informazione sulla ”culla” di cinquant’anni fa e oltre, esperto e studioso com’è di quei tempi, e di quelli che viviamo, lui apre la cassapanca della memoria e trova chicche da inviarmi
Trascorro ore a scrivere di Taranto; e ogni volta mi vengono in mente luoghi e persone, edifici e vie che hanno fatto parte di un pezzo della mia esistenza. San Domenico, per esempio, che io mi ostino a dirla in dialetto, “Saneminghe”, innamorato pazzo come sono di “lanzuèle”, “mustazzuèle”, “nevère”, parole che con tantissime altre uso ancora per sentirmi a casa. Per questo devo essere grato a Claudio De Cuia, che un pomeriggio di 71 anni fa mi tenne quasi un’ora a parlarmi “d’a lènga nostre”, che da allora cominciò a crescere dentro di me, alimentata da una passione inestinguibile. Eravamo nello studio del fotografo-pittore Salinari, luogo d’incontro di Mario Sossi, che fondò “Il Rostro” ed era molto stimato da Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d’Arte Moderna a Roma; Raffaele D’Addario, grande paesaggista; Mario Scuro, poeta... Inutile citare gli altri, che pure avevano un peso nel panorama della cultura tarantina.
Già allora mi aggiravo per la città vecchia, infilandomi nei vicoli che s’intersecano; “indr’a quìdde strìttele”, che consentendo il passaggio in fila indiana porta alla Dogana. Ho vissuto momenti emozionanti in quell’isola ricca di voci di artigiani, gente di mare, ristoratori che si esprimono in dialetto urlando con le finali prolungate la freschezza di cefali e saraghi. Brava gente dai volti aggrinziti intenta a risistemare le reti e le nasse.
la passerella del '51

Quei momenti me li fa rivivere Antonio De Florio, collocando su facebook “quadri” che infiammano il cuore. Non si può neppure immaginare il tempo che dedico a quelle foto: le vedo, le rivedo; chiudo il computer, lo riapro per vederne altre ed è sempre una gioia che ricevo dai colori, a volte sfavillanti, della mia città, che Antonio De Florio sa cogliere con maestria d’artista.
Che cosa resta ad uno spatriato agli arresti domiciliari (da non intendere nel senso giuridico), se resta incantato di fronte a un battello che attraversa il canale navigabile per raggiungere le isole di San Paolo e San Pietro? Anche quel canale mi sommerge di ricordi: il palombaro che si calava in acqua per rastrellare delizie; la passerella fatta di barche, nel ‘51, per sostituire il ponte di ferro, da rimettere in sesto; gli scafi che portavano i turisti al giardino delle cozze offrendo assaggi deliziosi. E corro ai racconti ascoltati dalle labbra screpolate dei vecchi: il nonno, Giovanni, di De Florio che vogando portava altri appassionati della città alla scoperta “de quìdde stuèzze de màre ca mundevàme, p‘amòre. peccernnùdde”.
Sono dunque grato ad Antonio, che comanda su facebook “Foto Taranto com’era”, con migliaia di uomini e donne d’equipaggio.
La dea e il pescatore

Ogni sua foto un’emozione; un’occasione per sognare e ridestare la mente: e scorrono come in un film il Premio Taranto; il professor Pietro Parenzan, direttore dell’Istituto Talassografico, che mise in aldeide formica il pescecane a due teste, raro esempio di teratogenesi marina, trovata “indr’u màre peccerjdde”: lo stesso Parenzan che con una specie di batiscafo scendeva nel fondo del Mar Piccolo per studiarlo, ricavando poi tele suggestive, che mise in mostra al Circolo Magistrale Tarentum, in via Di Palma. A volte basta una parola per accendere un’idea, far germogliare un ricordo, far resuscitare un mondo che non c’è più. E io lo rivivo, quel mondo, ad ogni foto o video di Antonio De Florio, eseguiti sempre con grande sensibilità e talento. Quei rettangolini di carta li aspetto con ansia, anche perché mi danno l’impressione di essere lì, in quella strada, tra quei campi, su quel sentiero baciato dal sole, su quella spiaggia, che si chiamava Santa Lucia, dove si bagnavano gli arsenalotti, riposando poi sulla rotonda che a ripensarla richiama la canzone di Fred Buongusto.
Al posto di quello stabilimento balneare oggi hanno innalzato un palazzo; vero Antonio? Anche il sentiero che dai Salesiani portava alla scogliera è stato ingoiato da un fungo di cemento. Neppure Antonio può più riprendere alcuni tratti della città. Sono scomparsi per sempre: tanti tarantini non se li ricordano neppure. La mania di cambiare per migliorare spesso può deturpare. E’ avvenuto tante volte anche a Milano. E’ avvenuto altrove. E’ l’uomo che non è mai contento di quello che ha. E parla di rinascita. C’erano luoghi a Taranto a cui ero molto affezionato: viale Venezia, per esempio, allora tappezzata d’erba selvatica, che appena tagliata profumava; una palazzina (una clinica), massimo due, mai un’auto, al massimo una bici, su quella via lunga come un tratturo della transumanza. Adesso si chiama Viale Magna Grecia, ed è rumorosa, piena di cilindrate con orchestre di “clacson”, affollata e ricca di negozi, di officine, “de lùcchele”.
De Florio all'aeroporto

Quella Taranto l’ho cercata, facendomi pellegrino. L’ho cercata “dalle parti “d’u Pezzòne” e alla Tre Carràre e a viale Virgilio. Niente da fare. Hanno cambiato faccia anche alla chiesa del Sacro Cuore di Gesù, che ebbe come sacerdoti don Giancola, don Musto, don Cipolletta, don Franzoso, don Saracino... A quei tempi avevo 15 anni. Anche la via di fianco a via Nettuno (entrambi confluivano in Dalò Alfieri) ha un altro profilo. Ancora grazie ad Antonio, “fratello” di Nicola Giudetti, e come lui custode e difensore delle nostre tradizioni e di quella Bimare cancellata con colpi di spugna, per l’impegno di ripescare anche cartoline illustrate, in cui risorge piazza Maria Immacolata con il “Cin Cin Bar”, la Standa, la libreria Filippi. La Dregher, il negozio di moto di D’Addario. Salvo foto e cartoline per il bisogno di godere le forme di una volta di piazza Fontana, del ponte di pietra, di un bacino dell’Arsenale… Ed ecco anche l’edicola che stava di fonte all’ingresso dello stesso opificio militare, dirimpettaio anche del suo Cral, dove il sabato e la domenica gli iscritti andavano a ballare o a conversare, molti con “L’Unità!” in una tasca della giacca. C’era anche una filodrammatica, diretta da Falcone, con attori Giovanni Mirabile e la figlia Lina, Conte, D’Andria, Murianni, la signora Casavola... Ogni tanto comparivano il signor Schirano, con il cappello scuro a larghe falde (inviso a qualche scriteriato, che non lo vedeva come ottima persona qual era, ma come ex milite, mestiere esercitato per campare); e Osvaldo Fischetti, a cui mancava un anno per il diploma di ragioniere ma era comunque forte in matematica. Ma guarda quante persone fanno resuscitare le foto di Antonio De Florio, che è stato un pezzo grosso all’Italsider, dove esponeva relazioni ai dirigenti più alti e forse già allora dava sguardi fotografici su Taranto.
Nicola Giudetti e Antonio De Florio

Deve aver cominciato presto a maneggiare il magico strumento che immortala uomini e cose; e ha macinato centinaia di chilometri per andare da casa sua a via Duomo, dove ha il suo regno Nicola Giudetti, con tutta una collezione di antichità costruita negli anni con gioia e diletto e quadri usciti dalla sua tavolozza e processioni nate dalla sua capacità di plasmare l’argilla.
Antonio e Nicola sono un binomio indissolubile, idrogeno e ossigeno combinati nella giusta misura: entrambi legati alla nostra città, come l’ulivo alla terra, le valve della paricella, che quando si aprono mostrano un colore perlaceo. Mi emozionano i video di Antonio, alcuni ispirati dai versi di Diego Fedele, Diego Marturano, Alfredo Lucifero Petrosillo, Saverio Nasole… Anche in quei pezzi cinematografici si susseguono immagini stupende: il Galeso, che scorre silenzioso e deserto; Mare Piccolo, che quando è tranquillo accarezza le sagome delle lampare; “’a Duàne”, rimasta senza le voci “de le cuzzarùle” e “de Cìcce ‘u gnùre” e di altri. E’ qui che Alfredo Nunziato Maiorano veniva ad ascoltare il dialetto dei pescatori e scrisse “Tàrde vècchie mije”.
Teatro dei burattini in piazza Garibaldi

Taranto è adorabile. Sono lontano 10 mesi all’anno, ma un altro suo innamorato me la riporta, facendomi sognare: Antonio De Florio. La bellezza “d’a nàche” mi acceca, mi rapisce. E’ per me una calamita. Mi adescano le immagini che regala Antonio De Florio, che la esplora, la scruta, la penetra, scopre i suoi segreti, i suoi angoli più nascosti, la studia. Va avanti e indietro nelle pagine di Giacinto Peluso, Nicola Caputo, Domenico Ludovico De Vincentiis... pagine avvincenti. Taranto è un gioiello, un besciù. Dà tutto quello che serve allo spirito. E’ una dea. La sua malia è famosa nel mondo. Chiedetelo a De Florio, se dico il vero; chiedetelo a Nicola Giudetti, che è il re del borgo antico, il suo sacerdote. De Florio lo sa, lui, che di Taranto conosce le vicende storiche, beve i tramonti che si accendono sul Castello Aragonese; passeggia nei vicoli, nelle vie più interessanti e in quelle meno note; percorre le scalinate, i mercati, le folle durante le feste, le processioni, dai Misteri a San Cataldo. Conservo gelosamente foto che Antonio ha scattato “indr’a vieremìenze”, al Castello, ai delfini che fanno gli acrobati nel nostro mare, “a renghière”, o “Castìedde”, al ponte che si slaccia per rendere omaggio alle navi con gli alberi più alti... Antonio per me è geniale, ha una cultura vasta e un cuore grande, una pazienza infinita.

mercoledì 21 maggio 2025

Il giornalista Piero Colaprico

DA ABILISSIMO CANE DA TARTUFI A DIRETTORE ARTISTICO DEL GEROLAMO

 

 

Piero Colaprico

Prima di lui sulla plancia di quel teatro erano stati seduti Carletto Colombo e Umberto Simonetti, due nomi famosi. Sul palco si esibirono Eduardo, Milly Mazzarella e altri. Prima di quella poltrona, Piero era stato valoroso cronista, quindi direttore della redazione milanese di “Repubblica”.

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI
 
 


Nustalgia de Milan
Ancora un pugliese in cima all’albero maestro. E’ Piero Colaprico, di Putignano, che dopo aver fatto una brillante carriera al quotidiano “La Repubblica”, andato in pensione, ha cambiato campo. Da qualche tempo è il nuovo direttore del Teatro Gerolamo, che ha avuto in plancia personaggi come Carletto Colombo, che fra i tanti meriti poteva vantare quello di aver rilanciato il teatro dialettale milanese; e dopo di lui Umberto Simonetta, che su quel palco portò in scena uno dei suoi testi: “Mi voleva Strehler”. Coltissimo, preparato e volenteroso, Colaprico è l’uomo più adatto a quell’incarico, anche perché tanti anni fa, pur facendo il cronista di nera, cioè il cane da tartufi, e poi uno dei migliori segugi di Palazzo di Giustizia, dove tra l’altro seguì tutta la vicenda di Tangentopoli, portò in scena storie e personaggi della mala in un teatro nei pressi di piazzale Abbiategrasso, tra cui un bandito a cui la fantasia d’un cronista aveva assegnato il nome di uno strumento musicale solo perché la sua custodia era stata rinvenuta nell’androne di uno stabile da cui era stato visto uscire quello che era il fantasma di Milano.
le canzoni milanesi

Poi Colaprico cominciò a scrivere romanzi di successo, prima con Piero Valpreda, poi, alla morte dell’anarchico, da solo, pubblicando con grosse case editrici e da ultimo con Feltrinelli. Io lo conobbi quando iniziò a muovere i primi passi nell’agone del giornalismo e ad entrare nelle simpatie di mastini come Ferdinando Oscuri, detto Poirot, che aveva già capito che quel ragazzo era fatto di ottima stoffa. Anche a me apparve subito metà castoro e metà lepre. E lui ha dato ragione a chi lo stima e continua a farlo, quando lasciato il servizio a “Repubblica come direttore della redazione milanese, che fu dell’indimenticabile Guido Vergani, si è insediato sulla poltrona di direttore artistico del “teatro-bomboniera” Gerolamo, dove si esibirono i più grandi dello spettacolo da Eduardo a Milly a Mazzarella.
Adesso lo vedo quasi ogni giorno in televisione, a commentare i fattacci che accadono in quasi tutto il Paese, facendo soffrire qualche collega che, acculato su una seggiola sgangherata spacciata per trono, si limita a sognare. Colaprico va avanti con l’età senza glorificarsi di ciò che ha fatto e continua a fare ed è sempre quel ragazzo tranquillo, grande lavoratore, capace di sottrarre ore al sonno per coniugare la scrittura con il sipario. Opera sempre in silenzio, in modo pacato, prudente, lontano dalle polemiche, incurante delle invidie, magari rivivendo qualche volta i giorni in cui, se alle 4 del mattino un “trombettiere” gli soffiava una notizia, di quelle che fanno gola, ancora fresca. non mancava di saltare dal letto, vestirsi e correre sul luogo indicato.
Colaprico con gli attori
L’ho visto dunque all’opera, qualche volta abbiamo ficcato insieme il naso nel cuore di una chicca, l’abbiamo rivoltata scoprendo verità nascoste. Piero andava avanti per la sua strada, badava al sodo, spesso assestava colpi alla concorrenza e non se ne vantava. Stimato da tutti per la sua cultura, per il suo modo di raccontare, per la ricchezza dei dettagli, per i “biscottini” che seminava nella teglia. Scriveva in modo che chi lo leggeva riuscisse ad entrare negli ambienti da lui descritti e ad immaginarsi le pellacce finite al gabbio. Conosceva, oltre a moltissimi esponenti della “madama” e dei “caramba” e in tribunale giudici, pubblici ministeri, cancellieri. E aveva bene in mente qualche filo di malerba.
Insomma poteva serenamente essere considerato l’ultimo della vecchia guardia, il cui albo annoverava giornalisti come Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Patrizio Fusar e altri. Le sue mietiture non avevano stagioni. Un giorno un collega si mise a fare domande ad Alberto Sala, un ispettore che lavorava in mezzo mondo con polizie straniere, anche con l’Fbi e con la Dea, e improvvisamente, fu interrotto: “Stai per caso cercando di dare un ‘buco’ a Piero Colaprico?”. E l’altro, come la volpe colta in procinto di saccheggiare un pollaio: “Per carità, è solo questione di curiosità”. E rimase come una statua di sale. Anche quel giorno il carniere di Piero era già pieno.
Piero Colaprico in questura
Un’attività intensa la sua. Fece inchieste con Oreste Del Buono; sviscerò la vita e le imprese dei membri di una famiglia malavitosa che aveva il suo quartiere generale all’estrema periferia di Milano; si occupò delle bande di borseggiatori o “mani di velluto” appostati nelle stazioni del metro e sui tram e bus più affollati; fece un resoconto preciso e dettagliato di una colossale operazione di polizia e carabinieri, alle 5 del mattino, in una roccaforte della droga…
Quando in un prestigioso locale di piazza Piemonte venne presentato uno dei suoi libri, presente anche il questore Paolo Scarpis e Paolo Colonnello, cronista di giudiziaria del “Giorno”, che aprì la serata con i virtuosismi del suo sassofono, Dario Cresto Dina, capo redattore di “Repubblica”, chiese come mai un giornalista, che deve tastare il polso della città e saltare quando il battito è irregolare, possa trovare il tempo di scrivere libri. Avrei voluto rispondere che ci sono giornalisti che sacrificano il sonno per restare incollati alla scrivania.
Questa in estrema sintesi la storia di Piero Colaprico come cronista di nera, che tra l’altro ha in memoria nomi, cognomi, specialità, imprese, cioè la storia dei pescicani e il mondo del malaffare, compreso quello di una volta, che non aveva come oggi il grilletto o la lama facili; e rispettava chi stava sull’altra sponda, armato d’intelligenza e gradi capacità investigative. Colaprico ha divorato polvere e consumato scarpe per esplorare, scoprire, come quella volta che da una macchia di sangue intuì, osservando il silenzio, l’autore di un delitto.
uno spettacolo
Adesso la sua storia è scritta negli “annales” della cronaca nera e lui respira l’aria del prestigioso Teatro Gerolamo, dove una volta affluivano i bambini per assistere agli spettacoli di marionette della Compagnia Carlo Colla & Figli. Poi, nel ‘57, il teatro entrò in crisi, al punto di rischiare la demolizione. Ma vegliava un santo protettore: Paolo Grassi, che allora dirigeva con Strehler il Piccolo Teatro. Il Gerolamo resuscitò e la sera del 9 aprile dell’anno successivo andò in scena “L’opera del pupo” di Eduardo De De Filippo, a seguire Pulcinella, prezzi dei biglietti da mille a dieci mila lire. Per quella serata il grande Eduardo interruppe le rappresentazioni al Teatro Odeon, facendo la gioa di Paolo Grassi, che aveva molta fiducia nella rinascita del teatro di piazza Beccaria, dove poi arrivò Piero Mazzarella.
Giorni fa l’ho chiamato, Piero, per essere informato sulla sua esperienza al Gerolamo. Non mi ha fatto aspettare né ha deluso le mie domande. “Quando mi sono dimesso da “Repubblica”, alla fine del 2011, sono rimasto disoccupato per un po’, poi sono stato assunto come direttore artistico al teatro Gerolamo, vero gioiello di architettura e di storia. E’ di proprietà privata e sta a 200 metri dal Duomo, nel cuore di Milano. Io avevo detto a chi mi ha assunto, una signora giapponese, architetto, Chitose Asano, che prima di allora avevo scritto per il teatro, che sicuramente andavo a vedere qualche spettacolo, ma non era il mio lavoro. Non importa, era stata la risposta, noi abbiamo fiducia che puoi farlo. E così mi sono buttato e dal 2022/23 curo il cartellone di quanto mettiamo in scena. Mi sono basato su due principi semplici.
Alberto Sala, Piero Colaprico. Franco Presicci
Uno, giornalistico: chiedo a chi sa più di me di teatro. L’altro personale: cerchiamo di non prendere niente che non convinca”. E rispunta il Piero saggio, prudente, attento. “Il nostro palco non ha grandi dimensioni, ma ha una grande forza, gli spettatori stanno tutti intorno, quindi se chi va in scena è bravo, arriva diritto al pubblico. Me n’ero accorto quando, prima di essere assunto, al Gerolamo era andato in scena un mio testo, “Qui città M.”, interpretato da Arianna Scommegna e con la regia di Serena Sinigaglia. E quando, dopo aver recitato anche con Luciano Lutring, un ex bandito, detto il solista del mitra, avevo portato al Gerolamo ”Milanoir Milanuit”, piccola storia di osteria che si avvaleva delle canzoni della mala interpretate da uno che al 2 di piazza Filangieri era stato davvero, come Giancarlo Peroncini, detto El Pelè, perché correva veloce, più della polizia”. E così, accanto ai grandi del teatro, da Paolo Rossi e Maddalena Crippa, da Sonia Bergamasco e Beppe Servillo e tanti altri - inutile citare tutti – abbiamo allineato anche attori più giovani, o più di nicchia, avendo tante belle sorprese e una grande risposta dal pubblico”.
Lo ascolto con interesse, entusiasmo e con un pizzico di emozione per il continuo successo di un amico caro e leale. Piero si sta quindi avviando ad altri successi “e ancora una volta metterò sul palco un pianoforte che ci hanno regalato: quello che usava Giovanni D’Anzi, quando suonava la sua canzone più celebre, ‘Madonnina’, l’inno di Milano”.
Vi ho snocciolato la storia di un virgulto di Puglia, culla a Putignano, la città degli abiti da sposa e del carnevale dalle maschere gigantesche.
 

mercoledì 14 maggio 2025

Un viaggiatore mai stanco

 

GIRA TUTTO IL MONDO PER  RACCONTARE VITE

 
 
 


Goffredo Palmerini
Goffredo Palmerini, aquilano, giornalista e scrittore, in cerca di emigrati da ascoltare: successi, insuccessi, delusioni, umiliazioni. Conosce capi di governo e direttori di quotidiani e settimanali. E’ stato anche un esemplare amministratore comunale

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
FRANCO PRESICCI 




Non vorrei esagerare, ma credo che neppure Davis Levingston o Ferdinando Hegeliano e altri ancora abbiamo viaggiato quanto Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore acuto e attraente, sensibile e fertile.
Intervento di Palmerini
Lui non sale su un aereo o su un treno per passatempo, cambiare, godersi il sole di un Paese esotico per poi vantarsene. Come oggi fanno in tanti. Palmerini no: viaggia per incontrare gente, ascoltarla, conoscere le loro storie, le loro esperienze e fissarle nei libri e nei giornali. Non è solo un uomo curioso di vedere cose nuove, altre persone, scoprire altre mentalità, altri usi, altre tradizioni, altri paesaggi. Palmerini va alla ricerca di quelli che a suo tempo lasciarono il proprio Paese per guadagnare il pane, affrontando sacrifici, umiliazioni, discriminazioni. Palmerini vola in Messico, in Australia, in Brasile, in Canada, in Argentina e va in zone anche impervie, dovunque possa trovare una vita da snocciolare ai suoi lettori, che sono davvero tanti. E quando racconta, quelle vite, suscita emozioni, coinvolge. Ha il dono della scrittura scorrevole, limpida, senza artifici retorici, senza orpelli.
Rileggendo uno dei suoi libri ho approfondito la conoscenza di Mario Fratti e la sua casa-museo; il grande scrittore Jhon Fante e suo fratello Dante, che donò la macchina per scrivere a Paganica, in Abruzzo. Lui, Palmerini, Jhon Fante lo ha intercettato, ha raccolto ogni particolare della sua esistenza, anche l’atto di Bukosky di abbandonare la propria casa editrice, colpevole di aver rifiutato di dare alle stampe “Chiedilo alla polvere” del collega scrittore (oggi lo si trova presso Einaudi).
Mario Fratti

Non si contano le personalità in cui Goffredo ha scavato, le persone semplici che ha invitato ad aprirsi, confessarsi laicamente. Ha dato voce a centinaia di immigrati, che hanno nostalgia della terra di origine. Ha pescato a Little Italy, a New York, dove è stato chissà quante volte, a Buenos Ayres, a Sydney…
Il viaggio per lui è apprendimento , scoperta di luoghi e di popoli da trasmettere agli altri. E lo fa con la semplicità che fa parte del suo carattere. Tra le sue pagine si scopre l’anima dei personaggi che ha contattato, i loro sogni, le loro speranze, le loro frustrazioni. Sono porte che si spalancano e invitano ad entrare; sono confini che si lasciano oltrepassare; stazioni affollate di passeggeri in arrivo e in partenza. I suoi libri sono pieni di fatti, di eventi, ricordi, profili sapientemente delineati… Tra le sue opere “L’Italia dei sogni”, “Le radici e le ali”. Tutte opere che si offrono alla lettura.
Le radici di Goffredo Palmerini sono in Abruzzo, terra nobile, coraggiosa, tenace, che guarda avanti, non si piega, si ricostruisce dalle macerie, stupenda con le sue grotte scenografiche, il profumo dello zafferano... Palmerini è così, ha la forza dell’ulivo secolare, della quercia che va sempre più in alto. Ho riletto “Gran tour a volo d’aquila” e “Mario Daniele, il sogno americano”. Quando ripercorro brani dei suoi libri provo una sorta di gioia per lo stile e per il contenuto. Ogni libro porta ricchezza, riempie il cuore di sentimenti genuini. Ecco “Ti racconto così”. con calma, pazienza, chiarezza.
Dove vai, Goffredo, quale strada imbocchi questa volta? Inutile chiederlo, a volte fino all’ultimo momento non lo sa neppure lui. Lo immagino viaggiare ai tempi della locomotiva a vapore, che ispirò poeti, prosatori, pittori, con il suo stesso fumo che l’avvolge, facendola scomparire per un attimo. Sbuffa, sibila, rumoreggia, ingoia i binari senza correre troppo; la linea gradevole, la caldaia sempre rifornita, il conduce che si compiace del panorama da quella specie di finestra che è la sua cabina. Erano altri tempi. Sì, e Palmerini viaggiava seduto nello scompartimento con un libro in mano. Adesso, quella locomotiva, la vedo circolare nei video di facebook sulla tratta del Bernina.
David Sassoli

Non lo sa nemmeno lui da quanto tempo fa avanti e indietro da un Paese ad un altro. Lo capisci spaziando nei suoi libri, che contengono anche cronache, racconti vita vera. Aprendo “Ti racconto così”, s’incontra anche Papa Francesco, che fu in visita a L’Aquila; e il Columbus Day a New York; David Sassoli, il giornalista televisivo, la cui “forza proveniva dalle sue convinzioni, da suoi ideali radicati nella fede e maturate nelle esperienze della vita”.
Interessanti anche le pagine sulla riapertura dello storico ristorante “Le Tre Marie”, che, sorto nel 1912, annovera nell’albo d’oro“ personalità eminenti della poesia del belcanto, dell’arte: l’antico caffè che ha sempre coniugato storia e cultura. £ le pagone sulla “Lunga marcia delle donne nelle istituzioni?”, Si ha l’impressione di seguirla, quella marcia, se la si condivide. Con “Elham Hamedi, una voce di libertà in Iran nell’arte della poesia”, si prova commuozione, al pensiero che in quel Paese la donna è sottomessa.
Di Goffredo Lucilla Sergiacomo ha scritto: “Se Goffredo Palmerini fosse vissuto ai tempi dell’antica Roma, potremmo rintracciarlo nel novero dei Pontifex Maximi”, i magistrati che registravano negli “’Annales maximi’ i fatti più rilevanti, politici, militari…”. Palmerini pontefice massimo? Non siamo lontani dalla realtà. I “pontifex” venivano eletti e io il voto a Goffredo Palmerini, che fra l’altro è stato dirigente delle Ferrovie dello Stato, lo darei: come amministratore al Comune del capoluogo fino al 2007, parecchie volte assessore e vice sindaco, ha lavorato benissimo, riscuotendo il consenso dei cittadini. I tantissimi incarichi a lui affidati li ha svolti con competenza e coscienza.
Parte il bastimento

La sua attività giornalistica è lodevole: scrive su molte testate italiane ed estere, conosce tantissimi direttori di giornali e redattori, oltre a uomini di governo e a vertici delle istituzioni. Ha ricevuto moltissimi riconoscimenti in Italia e fuori: a Caracas premiato come personaggio dell’anno, anche per l’impegno solerte, costante, appassionato per le Associazioni abruzzesi nel mondo. Nel 2014 ha ricevuto il premio speciale dedicato a “Maria Grazia Cutuli”, la bravissima, coraggiosa collega del “Corriere della Sera” brutalmente assassinata nel 2001 in Afghanistan. Ha ottenuto numerose medaglie e attestati. E’ stato premiato anche come scrittore d’eccellenza. La lista è lunga. Ma Goffredo Palmerini resta un uomo saggio, cordiale, disponibile, concreto. E’ spesso invitato a prendere parte a trasmissioni televisive anche sui canali nazionali, non solo in occasione delle presentazioni dei suoi volumi.
E’ un uomo tranquillo, ha l’aspetto del parroco colto, paterno e ascoltato, prossimo a diventare vescovo. Il suo volto è incorniciato da una folta e ben curata barba fluente. Parla a voce bassa, con un linguaggio esplicito, mai pomposo, valuta bene le parole. E’ una pasta d’uomo. Agisce per contribuire ad un mondo migliore. Ha scritto su tanti argomenti: sulle meraviglie del nostro Paese, anche nell’ambito architettonico, paesaggistico. Si è interessato delle tradizioni regionali; svolge un’attività intensa con le comunità italiane all’estero: è membro del comitato scientifico del “Dizionario enciclopedico delle migrazioni nazionali all’estero”; e tante altre cose. Insomma Goffredo Palmerini non sta mai fermo. Esplora i tesori del suo Abruzzo; racconta il Fucino e la storia del lago e della gente marsa; scrive pagine toccanti sulla morte del grande drammaturgo Mario Fratti a New York, suo amico fraterno, Goffredo Palmerini è una fonte inesauribile di notizie. Il suo argomento principale è l’emigrazione, di cui è un esperto.
Palmerini a un convegno

Gli abruzzesi li segue ovunque e informa puntualmente sulle loro attività, a Milano o a Firenze, in Canada e in Brasile. I suoi cenni storici sull’emigrazione italiana, in particolare quella della sua terra nel mondo e quella femminile sono preziosità da custodire.
Forse Goffredo Palmerini di notte non dorme. Ha mille cose a cui pensare. Gli articoli, da mandare a quotidiani e settimanali, i libri da scrivere, un giornale da “cucinare” con le sue stesse mani, “La Prima Pagina”, arioso, ricco di contenuti, scritto con bravura. Goffredo Palmerini è un maestro, abile nel pilotare l’ammiraglia. E’ un uomo di cui si può godere l’amicizia, certo della sua lealtà, della sua schiettezza, della sua forza di abruzzese che non viene mai meno alla parola data. Ammiro molto Goffredo Palmerini: il suo stile, l’eleganza dei suoi modi, la dolcezza della sua parola. Quando mi arriva sulla scrivania una sua opera, abbandono tutto e gli dedico l’attenzione che merita, Goffredo Palmerini è un pilastro. Se tutti fossero come, il mondo girerebbe nella maniera giusta.

mercoledì 7 maggio 2025

Il ricordo di un grande Artista


Il monumento ai caduti il gioiello di Taranto

 

 

 


Francesco Paolo Como

Francesco Paolo Como sarà sempre nel ricordo dei suoi cittadini, uomo di tempra forte affrontò sacrifici, umiliazioni e ingiustizie per realizzare i suoi progetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCO PRESICCI

 

 

Il monumento al centro della Vittoria (foto Antonio De Florio)
La gente che fa la ronda in via D’Aquino, sfiora piazza della Vittoria e qualche volta vi svirgola continuando a fare avanti e indietro dondolando come i “perdoni” alle Poste, o fermandosi infervorati spalleggiando una tesi, alzano qualche volta lo sguardo a quel maestoso monumento, che è uno dei gioielli della città?
Conoscono il nome dell’autore, che fu grande nel pubblico e nel privato, coerente nella sua fede repubblicana, inflessibile sostenitore della libertà e grandissimo artista? Io sono un tarantino pellegrino da tempo e ho perso il diritto di spargere giudizi sulla mia culla, alla quale sono comunque legato come le ostriche allo scoglio; ma da quello che mi dicono amici schietti e studiosi della terra di appartenenza l’indifferenza serpeggia in modo trasversale, e l’indifferenza è l‘anticamera dell’ignoranza.
Ma il professor Francesco Paolo Como, che vive e opera altrove, in un mondo che non ci è dato neppure immaginare, sicuramente non se ne cura. Li ho ammirati tantissime volte, quei soldati, che combatterono e morirono o rimasero feriti per difendere quella che una volta si chiamava Patria: Francesco Paolo Como li ha resi nelle forme e negli atteggiamenti in modo icastico. Se uno si accosta a quegli eroi può avere l’impressione che stiano per parlare, per muoversi, per dare risposte. Sono il risultato di un’arte alta, autentica, grandiosa; sembrano voler abbandonare lo spazio loro assegnato per venire incontro alla gente, immergersi nel flusso e riflusso di via D’Aquino, di urlare contro chi dimentica, ignora, si distrae.
A manovrare scalpello e martello per eseguire quei colossi è stato un artista che ha affrontato sacrifici, subito umiliazioni, angherie senza mai cedere, senza mai rassegnarsi. E’ stato un esempio, un modello. Eppure ho esplorato tante carte e non ho trovato a Taranto una via a lui intestata. Esiste a Talsano – mi ha detto Antonio De Florio, che studia la Bimare con scrupolo e passione – . Il nome di Como dovrebbe apparire in centro, dove invece scopro via della Livoria, un gioco di origine spagnola molto diffuso tra i ragazzi negli anni Cinquanta e anche prima.
La parte alta del monumento ai Caduti (foto Antonio De Florio)


Taranto è bella, adorabile, splendente, vanta parecchi cervelli, che però (detto con rispetto) affogano nel lasciar fare, nel “va bene, ci pensiamo domani” e il domani non arriva mai come quello di Totò. E così i geni prendono altre strade. E infatti negli anni Cinquanta il professor Francesco Paolo Como se ne andò a Roma con tutta la famiglia. Con un bagaglio pieno di brutti ricordi: l’ingratitudine atavica, lo scotto imposto per il rifiuto della tessera del fascio... Una riprova? Per realizzare l’opera di piazza della Vittoria prese in affitto un mezzo da una ditta, per andare a prelevare il materiale necessario; ma era il 28 ottobre del 1922 e l’autista abbandonò il volante in una strada di campagna per andare a fornire il suo contributo per l’ascesa del duce al potere. Il professor Como restò ore e ore a sperare in un miracolo, che arrivò dal titolare dell’azienda, preoccupato delle sorti del proprio dipendente. Il conducente lo fece per dispetto, odio, vendetta per l’antifascismo dell’artista?
Ho sempre avuto la voglia di superare i midi limiti e di apprendere qualcosa di pi della vita di questo artista che innalzò il capolavoro in piazza della Vittoria, che come tutte le piazze è stata ed è teatro di grandi avvenimenti, proteste, manifestazioni religiose, politiche (forse echeggia ancora l’oratoria di Almirante, Togliatti, Prodi...)... E ho chiesto al mio santo protettore Antonio De Florio, che mi ha procurato il numero di cellulare di Emma Como, liglia di Francesco Paolo, che di figli ne aveva cinque, tutti ancora in vita.
Un aspetto del monumento di Como (foto Antonio De Florio)

E’ stato per me un piacere e un onore conversare per un’ora con la signora, che vive con il marito, ex bancario, a Mantova, la città di Virgilio, dei Gonzaga, dei Tre Laghi e di Palazzo Te. Ho ricevuto tante risposte impreziosite da dettagli anche muniti. A volte l’interlocutrice mi ha anticipato. “Quando eravamo piccoli papà ci faceva il bagno. Poco presente, perché impegnato nell’insegnamento, alla Thaon de Revel, di disegno e poi di scultura. Terminate le lezioni, andava nello studio, in via Peripato, a modellare. Aveva degli allievi, e a chi non era capace di plasmare la creta suggeriva di intraprendere la via della scrittura, probabilmente perché ne aveva intuito il talento. Altri hanno preferito la pittura, arte che anche papà professava”.
Negli anni 50 Como si trasferì a Roma con tutta la famiglia e lì fu allievo prediletto di Ettore Ferrari, il cui monumento più famoso fu quello a Giuseppe Mazzini sull’Aventino. “Mi ricordo che quando morì (nel 1929: n.d.r.) mi dissero che Mussolini aveva suggerito ai suoi di disertare il funerale e che dietro il feretro c’era solo il cane.... Ripeto, non è una mia fonte diretta”. Como non potè partecipare, ovviamente non per obbedienza.
Altro elemento dell'opera di Como (foto Antonio De Florio)


La signora Emma parla con dolcezza, con calma, a voce bassa. Ha una memoria limpida, scorrevole. “Tutti in famiglia abbiamo amato quest’uomo, per la sua coerenza. Ci ha inculcato il valore della libertà. Quando stava modellando l’Aquilifero, uno degli elementi del monumento di piazza della Vittoria, la Giunta della Bimare insinuò che fosse cieco e che quindi era meglio affidare l’opera ad altri. Papà, che aveva soltanto un piccolo calo alla vista, reagì con energia: ‘Io l’ho fatto e io lo distruggo’. Papà e soprattutto la mamma, non ci davano mai ordini e non ci proibivano nulla. Ci consigliavano, tenendo sempre aperto il dialogo. Alla fine ci convincevamo che avevano ragione. I miei fratelli erano tutti affermati; Luigi era laureato in matematica e fisica ed era andato in America, poi tornò e si mise a girare il mondo per il suo lavoro; un altro fratello era un fotografo d’arte e fece il ritratto di papà...”.
La mamma Olga Gasperi, che era di Firenze, trasmigrò a Taranto, dove insegnò il ricamo di seta, oro e bisso al Magistero delle donne. Realizzò molti lavori pregevoli, tra cui un bellissimo volto della Venere Nascente, “anche quella in seta, oro e bisso. Tutti i lavori finirono nelle mani dei tedeschi”.
L'opera svetta nel cielo (foto Antonio De Florio)


Il professor Como in casa ha sempre parlato di politica, acquistava un sacco di giornali, compresi quelli d’arte. “Io poi ho seguito molto Eugenio Scalfari mi piaceva molto anche come parlava e ho letto i suoi libri. Da 53 anni vivo a Mantova e ho fatto il giro d’Italia per il lavoro di mio marito, Luciano”.
Emma è molto orgogliosa del suo papà, come anche i suoi fratelli. “Io stavo molto vicino a lui, lo vedevo lavorare il marmo con lo scalpello e il martello. Gli chiesi perché non usasse lo scalpello elettrico e mi rispose che doveva sentire nelle mani la materia”.
Quando passava davanti al monumento che signoreggia al centro di piazza della Vittoria, trasmettendo brividi per la sua potenza espressiva, Emma si commuoveva. Adesso non ci va più. Il XXV Aprile e per le feste delle Forze Armate le autorità continuano a deporre la corona d’alloro, la tromba a suonare il silenzio, i fotografi, durante la cerimonia. a formicolare con l’armamentario a tracolla. Emma riprende: “Sono stata presente alla commemorazione del 21 settembre del 2007”. E chiudendo questa edificante conversazione mi ha dato una notizia: “L’Università di Lecce ha fatto scrivere una tesi dei laurea su Francesco Paolo Como e sul monumento tarantino a una studentessa che vive a Parma, Azzurra Di Pietro. Per farla, lei ha parlato con tutti noi, per raccogliere fatti, momenti di vita e di lavoro, gusti, comportamenti, idee, tutto ciò che potesse servire, e ha consultato anche documenti, per descrivere in pieno l’artista e l’uomo”.
Via D'Aquino (foto Antonio De Florio)

Ho letto molte pagine su Francesco Paolo Como. Giacinto Peluso, il docente di francese che nelle aule fingeva di essere un orso, accenna alle “sofferenze morali inflitte ad un uomo che onorando con la sua arte i suoi gloriosi Caduti, ha onorato la città e l’ha arricchita di una pregevole opera che resterà nei secoli a venire”. E in altre pagine ho appreso che Francesco Paolo Como era secondo di otto figli ed era nato a Taranto il 6 aprile del 1888, in via D’Aquino, da papà Pietro Luigi, capomastro muratore, e da Grazia D’Alessandro, sarta e donna meravigliosa. Tutta la famiglia era di fede repubblicana.
A vent’anni alla scuola di Tommaso Antonucci iniziò il suo cammino artistico e poi partecipò a tanti concorsi, ottenendo ovunque successo. Nel 1912 entrò nell’Istituto di Belle Arti della Capitale, dopo aver superato brillantemente gli esami di ammissione; e vinse il posto nelle Ferrovie dello Stato. Era stato in guerra, guadagnandosi il grado di temente, tornò, continuò ad affrontare sacrifici, delusioni, fino al bando del concorso per il monumento, per cui dovette riempire lo studio di argilla pronta a ricevere l’alito dell’arte.
Ho meditato su un lungo testo di Raffaele Carrieri, poeta e critico d’arte, pubblicato sul “Poliedro” del 1° maggio 1924: “Non saprei parlare di questo semplice e pensieroso Artista senza mettere in primissimo piano la sua bella fibra d’uomo: moralmente e artisticamente parlando. Di Como ben si può dire che lo stile è l’uomo. Carattere fiero e animo gentile, sono le doti che formano la base granitica di tutta la sua vita intensa di passione e fede, oscuramente e silenziosamente combattuta…” E ancora: “L’Arte nel Como non trova un paladino ciarliero e zazzeruto che discute di estetica dinanzi ad uno sporco tavolo di caffè, ma il fervente artefice, l’instancabile lavoratore che tra quattro anguste pareti si cimenta per più ascendere… Nell’opera balzata fuori tutto è glorificato e ricordato: l’Apoteosi del sacrificio e la difesa della vittoria, i conduttori fidenti e i difensori accaniti, simboli dell’antica grandezza classica e romana, l’austera colonna Dorica con l’agile Nike tarantina, vetuste opulenze e glorie nuove…”. Gloria a Francesco Paolo Como.