Un tempo i cronisti erano grandi marciatori. Qualcuno andava in bicicletta, come Giovannino Guareschi, quando stava a “Candido”.
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| Tanino Gadda |
Occupandosi di cronaca, allora, soprattutto di “nera”, per procurarsi la notizia si faceva tanta strada, mangiando pane e polvere. Ne mangiarono Arnaldo Giuliani, Fabio Mantica, Max Monti, Patrizio Fusar, Salvatore Conoscente, Alfredo Falletta...: chi del “Corrierone”, chi del “Giorno”. E qualche volta rischiavano la vita. Come Giuliani e Mantica, che una notte appiattiti sull’erba all’Idroscalo assistettero a un duello rusticano. Restarono lì immobili come statue di marmo, fino a quando i duellanti non abbandonarono il campo e uno di loro andò al lavoro in un hotel del centro di Milano. Quando il maresciallo Ferdinando Oscuri seppe da un suo ”trombettiere” (confidente) il nome di uno dei due spadaccini, andò a trovarlo e cominciò a fargli domande prendendole alla larga. A un certo punto gli dette una manata sul ventre e quello si ritrasse per il dolore. Era quello che cercava.
Leggere quelle cronache è come immergersi in un romanzo di avventure. Patrizio Fusar seguì per una settimana un ricercato di grosso spessore. Il vice direttore del giornale., l’inflessibile Angelo Rozzoni, uomo dalle promesse di ferro, tenendo che fosse stanco, gli propose di farsi sostituire da un collega e lui si rifiutò di cedere il passo. Alla fine raccontò i percorsi, le soste, gli incontri che l’uomo aveva compiuto.
Franco Di Bella, allora capo cronista del quotidiano di via Solferino, incaricò Mantica di rintracciare per intervistarlo uno dei personaggi più rappresentativi della mafia americana, che doveva il nome a una donna che in un momento di estasi gli aveva detto: “Sei davvero bello, un dio”.
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| Il questore Plantone e Giuliani |
Mantica prese al balzo l’incarico. Milano non è Locorotondo e il povero cronista consumò un bel po’ di suole per localizzare l’uomo spedito in Italia come indesiderabile. Alla fine lo scovò in una casa di ringhiera, ma venne bloccato da una guardia del corpo. Il cronista non poteva rientrare scusandosi di non essere riuscito a superare questo muro; così si appostò e approfittando di un momento favorevole si avvicinò al “boss”.
Così era la cronaca a quei tempi. Anni ‘50-’60. Una notte Arnaldo Giuliani passava per via Beccaria, quando una voce da un’auto lo chiamò. Lui si voltò e riconobbe il bandito che mirava al comando di Milano: il più famoso, determinato, implacabile e anche un bell’uomo, spiritoso ed elegante. Arnaldo rispose al saluto e andò via, con il suo garbo proverbiale. In quella malandra anche un mancato saluto può essere considerato uno sgarbo.
Giancarlo Magalli, quando conduceva “I fatti vostri” sul secondo canale, chiamò un cronista per raccontare il giorno in cui aveva lo stesso capobanda. L’occasione fu l’uscita di un libro sulla sua vita e le sue imprese, lì rappresentato dal figlio, notoriamente un gran bravo ragazzo. Poteva capitare che un cronista incontrasse un duro della malavita e ne raccogliesse la storia. Ricordo che ci fu un lungo preliminare prima di essere ammesso alla sua presenza. Devo aggiungere che la mala rispettava i cronisti e le forze dell’ordine e non puntava mai il mitra contro di loro. Vito Plantone, grande poliziotto, come Mario Iovine, Antonio Pagnozzi, Enzo Caracciolo, Ferdinando Oscuri…, quando era questore di Catanzaro mi raccontò un episodio: una sera in compagnia di alcuni colleghi e le mogli entrò in un ristorante molto noto e notò subito seduti a un tavolo un gruppo di pellacce, che quando i nuovi venuti avevano preso posto uscirono facendo arrivare pochi minuti dopo un grosso mazzo di rose rosse per le signore.
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| Enzo Catania |
I poliziotti in servizio allora andavano in bicicletta o a piedi se non avevano la due ruote. Insomma cronisti e agenti cacciavano, ognuno con obiettivo diverso, con i mezzi a disposizione. E diventare cronista era una promozione sul campo, come scrive Giuseppe Gallizzi, giunto a Milano da Nicotera Marina con la Freccia del Sud, magari tirata dalla locomotiva a vapore. Anche lui ha fatto il suo percorso accidentato cosparso di sacrifici, di ore rubate al sonno, di scarpinate interminabili, prima di essere promosso cronista al “Corriere della Sera”, per poi arrivare alla guida delle edizioni regionali e infine alla carica di caporedattore centrale.
Essere cronista, per me, è come avere un titolo nobiliare, con la differenza che chi appartiene a un casato vive nell’agio e nella tranquillità; mentre il cronista nell’ansia e dorme, quando dorme, con un occhio aperto anche perché aspetta la telefonata dell’amico che lo informi di un delitto. Quello del cronista è un mestiere adorabile, affascinante, ricco di sorprese e di bugie, quelle che a volte si dicono per farsi aprire una via d’accesso. Un collega affezionato si presentò a un testimone per ricevere notizie dell’arresto di un famoso brigatista sotto le finestre di un convento; quello non avrebbe parlato neppure neppure sotto tortura, ma la parola può essere a volte magica. Si camuffò e riempì il carniere.
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| Nino Gorio |
Non c’erano i telefonini, e se un cane da tartufi, come venivano definiti i cronisti, si trovava in aperta campagna poteva avere difficoltà a chiamare il giornale, se la radio installata sull’auto diventava muta. Una sera un altro collega era in via Cascina Barocco, estrema periferia della città, dov’era stata trovata una donna uccisa e incendiata; l’autista gli disse che era in ritardo a un anniversario in famiglia ed ebbe il consenso di lasciare il campo. Il mastino rimase a piedi, ma la circostanza gli fu favorevole, perché, attendendo un’altra auto del giornale, fece una notevole mietitura.
Qualche volta interviene la fortuna. Il mastino si trova in strada, scoppia una sparatoria fra bande rivali, è ovvio che vede la dinamica del conflitto in esclusiva. Ha l’idea di andare a sentire i parenti di una vittima, può capitare che con lui parlino e con gli altri no. La vecchia guardia della categoria ha fatto proseliti: Luca Fazzo, Fabrizio Gatti, Piero Colaprico, Goffredo Buccini, trasmigrato dal giornale del pomeriggio “La Notte” a “Repubblica, quindi al tempio del giornalismo, “Il Corriere”; Colaprico, andato in pensione, è diventato direttore artistico dello storico Teatro Gerolamo. Tra loro c’era guerra, ma con qualcuno lavorare era come giocare al calcio: se uno forava la rete non si sentiva un campione. In ogni caso essere cronista voleva dire avere un fiore all’occhiello..
E’ un mestiere esaltante, ti porta da una parte all’altra, ti chiama su teatri sempre diversi; ti fa assistere a un assedio a banditi armati, asserragliati in una banca, con le forze dell’ordine che tentano di farli uscire senza spargimento di sangue.
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| Piero Colaprico |
Ricordo la rapina alla banca di piazza Insubria: i rapinatori dentro con un mucchio di clienti, tra cui un nonno con il nipotino; il giudice Dell’Osso e il capo della Squadra Mobile Achille Serra fuori impegnati in un patteggiamento durato dalle 9 del mattino alle 4 del pomeriggio, attorniati dai cronisti e da una folla di curiosi, tra cui i parenti dei sequestrati. E ricordo la rapina finita male, con il corpo esanime di uno del commando sul selciato; e il padre che parlando con un cronista ebbe parole amare per quel figlio vissuto male.
E poi i giorni del terrorismo, con i brigatisti che la notte chiamavano il giornale per dare “ordine” al cronista di recuperare un loro volantino lasciato in un cestino portarifiuti, nel mezzanino della metropolitana di via Palestro di fronte alle scale sulla ribalta dell’edicola chiusa per l’ora, o altrove, vicino a una chiesa o a una fabbrica. E poi l’arrivo in redazione dei carabinieri, che, informati, chiedevano il volantino e notizie sul tipo di voce, se giovanile o adulta; l’accento, l’ora della chiamata, il contenuto, la durata, se direttamente al tuo telefono o al centralino; e mettevano tutto a verbale. Nel mezzanino del metrò in via Palestro due donne aspettavano il cronista, una facendo finta di accendere la sigaretta ne fissava la sagoma. L’autista si fermò a una certa distanza dall‘ingresso del metrò, perché lui, disse, non era pagato per rischiare.
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| L'ispettore Sala, Colaprico, Presicci |
Una vita fatta di ansia, di lunghe ore di attese, di corse, ma entusiasmante. Ne capitavano di tutti i colori. Anche l’uomo che veniva a protestare, dopo aver fatto chiasso in municipio, perché chiedendo il rinnovo della tessera di riconoscimento gliel’avevano negata perché nello spazio riservato alla professione aveva scritto combattente per la libertà. E quell’altro che si chiamava Crocifisso e nei documenti, nel centro del nome, si trovava una volta la “i” e un’altra volta la “e”. Ricordo un rapinatore degli anni 50. che si appostò davanti alla mia scrivania chiedendo che venisse raccontata la sua storia. “Ma come, lei ha figli e magari nipoti, che figura fa anche con gli abitamti del paese?”. “Ma proprio per quelli chiedo di essere raccontato da un giornalista, così mi crederanno”.
A volte le giornate del cronista sono divertenti. Gli capita d’imbattersi in in ogni tipo di personaggio come quello che alloggiava in un albergo e poi se ne andava senza pagare. Aveva lasciato pendenze in parecchi hotel; e quando il cronista raccontò la vicenda venne a protestare al giornale, pretendendo che gli venisse rivelata la fonte. E giacché c’era, voleva vendere un cesto di notizie.
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