Da “papà Nicola”(acquaiuolo) a “mèste Fiorènze” (falegname)
La Poesia di Alda Merini-ospite negli anni '80 al villino Valente a Crispiano
Franco Presicci
Michele Lamantea con la tromba d'un grammofono |
Ogni tanto penso alle mie città lontane: Taranto, “’a nàche”, la mia culla; San Severo, scelta per piacere. Ma penso anche a Milano, che mi ha adottato. Rivedo i luoghi trasformati, le figure scomparse, i mestieri perduti con le loro voci: ascoltate o apprese a suo tempo dai vegliardi e dai libri. Una delle prime persone per me interessanti che incontrati nella terra del poeta Umberto Fraccacreta, San Severo appunto, fu “papà Nicola”, che a ottant’anni, per 10 lire a viaggio, riempiva il suo barilotto alla fontana pubblica e andava a riversare l’acqua nelle giare delle massaie che non avevano l’acquedotto in casa, dando in escandescenze quando il numero dei trasporti gli veniva contestato. Era l’epoca del ballo della mattonella; di “Grazie dei fior” e di “Buongiorno tristezza”, brani vincitori del Festival di Sanremo: il primo, nel ’51, con l’ugola di Nilla Pizzi; il secondo, nel ’55, con quelle di Claudio Villa e Tullio Pane. E’ ai vecchi mestieri che si rivolge spesso la mia mente. “Sciure, el moletta…”, si spolmonava nelle strade l’arrotino per attirare l’attenzione, piantonando il suo laboratorio ambulante. Gli facevano eco lo spazzacamino; il “magnan”, riparatore di tegami, scaldini, chiavi; “el cadregatt” di sedie ; “el gambarèe”, che vendeva i crostacei che si muovono all’indietro (ricercati quelli del Lambro), al quale Odoardo Ferrari dedicò una canzone. “Quell di cuni” giungeva da Cuneo e proponeva castagne al forno infilate in uno spago a mo’ di collana, portata appesa al collo. Uno spilungone novantenne appassionato della Milano di una volta in una ricevitoria del lotto di via Borsieri mi riferì che sentiva ancora i richiami dell’ometto con la cesta colma di pere cotte; dello straccivendolo. urlone più di tutti, tanto da ispirare il detto: “Te voset come on strascèe” (conosciutissimo “el Borella” di piazza Sant’Ambrogio).
Vecchi mestieri alla Sagra di Cesano Boscone /Milano |
Non da meno gli ombrellai, ai quali a Gignese, un paesino con un migliaio di abitanti tra Stresa e il Mottarone, hanno dedicato un museo. Meritato, vista la storia secolare che vantano. Parlando fra di loro, per non farsi capire dagli estranei, usavano un gergo, il “tarusc”, in cui l’”ombrellee” era il “lusciatt”. L’uomo del cannocchiale se ne stava invece in silenzio e in paziente attesa quasi all’uscita della Galleria Vittorio Emanuele, affittando per pochi soldi lo strumento alle persone curiose della bellezza delle guglie della basilica. A pochi passi da lui, la nonnina che smerciava lumini per i morti. Tanti disegni, foto, cartoline ritraggono “el “lattee”, il contadino arrivato dalla cascina con gli ovini da mungere sotto gli occhi degli avventori; il “pedocca”, incaricato di chiamare, dietro compenso, le carrozze per chi ne aveva bisogno; il cantastorie, che, accompagnandosi con la chitarra, raccontava i fatti più clamorosi. Il primo della classe il Barbapedana (“el gh’aveva on gilè/ senza el denanz cont via el dedree…”), al secolo Enrico Mulaschi, che con il suo repertorio di antiche ballate popolari e di versi di sua produzione, si esibiva soprattutto nelle osterie. Il Berto preferiva il “trani” (trattoria) di Precotto, uno dei tanti battezzati dagli immigrati originari dell’omonima città pugliese e oggi soltanto un ricordo di chi ha i capelli imbiancati e non ha avuto bisogno di leggere il libro di Vincenzo Pappalettera “Il trani di via Lambro”, edito da Mursia.
Sono così numerosi, questi mestieri, che solo a menzionarli
occorrerebbe uno spazio ampio quanto un lenzuolo. Ma non posso
tralasciare il “custod di Navili”, il controllore dei canali; o
“quell di magattei”, il burattinaio Lampugnani che nell’800
improvvisava il teatrino sotto il Palazzo della Regione . Una
quarantina di anni fa, per Telemontepenice, feci una chiacchierata
con l’ultimo dei “paron”, timoniere delle chiatte che secoli
addietro trasportavano merci a Milano, compresi i marmi di Candoglia
per la Fabbrica del Duomo. I suoi predecessori, navigando
controcorrente, si avvalevano della “rozza”: cavalli stanchi,
acciaccati, di età avanzata, che tiravano dall’alzaia, una delle
due sponde del corso d’acqua caro al poeta Alfonso Gatto, al
giornalista Gaetano Afeltra, allo scrittore Carlo Castellaneta, a
fotografi del livello di Fulvio Roiter e Mario De Biasi,
ad Alda
Merini, all’architetto Empio Malara, che continua a battersi per
fare scoperchiare quelli sepolti…Adoro queste vie liquide; gli
studi dei pittori del vicolo dei Lavandai, dove un ricciolo d’acqua
scorre tacito sotto la tettoia sfuggendo al Naviglio. Adoro le case
di ringhiera; gli artigiani – a dire il vero, pochissimi - rimasti
a lavorare nei cortili, che ospitarono gli atelier di Guido Bertuzzi,
Sarik, Formenti, Aldo Cortina… due spazzacamini ed Elvira Radice,
che per anni fornì la lisciva alle “lavandere” che sciacquavano
i panni nel “rezzulin”, ispirando tante composizioni, come “La
bella la và al fosso”.
Lo confesso. Non mi è mai piaciuto l’accalappiacani, che coglieva
di sorpresa i randagi, se non c’erano i ragazzini pronti a dare
l’allarme. La mia simpatia va al lustrascarpe, abile nel rendere
brillanti le tomaie dei signori nella Galleria delle Carrozze della
stazione Centrale; e al ciabattino con il deschetto. Per tanto tempo
lo cercai, a Milano, rintracciandolo nel settembre nell’87 in via
Giangiacomo Mora, al civico 7. Mi fermai ad osservarlo davanti alla
porta, se ne accorse e m’invitò ad entrare. Sembrava uscito da una
stampa della Raccolta Bertarelli. “Ha fatto appena in tempo – si
lamentò -. Qui le case sono state vendute e io devo sloggiare. Mi
ritiro, dopo 30 anni di lavoro in questo buco”. Si chiamava Luigi
Luca, aveva 67 anni, era siciliano di Bronte, “il paese dei
pistacchi distribuiti in tutta l’Europa“. Aveva cominciato a
praticare il mestiere quando era ancora un bamboccio, la mattina a
scuola e il pomeriggio in bottega, sottocasa, dal maestro che lo
aveva esortato. Divenne bravo, si trasferì nel capoluogo lombardo,
si fece un none. Tra i suoi clienti, Walter Molino, il famoso
illustratore che mosse i primi passi nel ’35 collaborando con
“L’intrepido” e “Il monello”, continuò con il “Bertoldo”,
il “Marc’Aurelio, il “Candido” di Giovannino Guareschi; e
prese il posto, nel gennaio del ’41, di Achille Beltrame nella
realizzazione delle copertine de “La Domenica del Corriere”. “Lo
sa che mi ha promesso una caricatura?”, m’informò con orgoglio
Luigi, che, prima di congedarmi, unico sopravvissuto della categoria
tradizionale, mi regalò una chicca. “Un cliente mi ordinò un
lavoro particolare: un alloggiamento nel tacco di un mocassino, che
doveva contenere un coltello per un suo amico rinchiuso nel carcere
di San Vittore. Gli risposi che non sapevo farlo”. In seguito l’ho
nuovamente cercato, Luigi Luca. Ma invano. Trovai un suo collega in
via Lorenteggio, Nicola Sardone, pugliese, ma lui l’armamentario da
antiquariato lo teneva in esposizione a testimoniare un passato
sconfitto dalla tecnologia. Lo utilizzava solo qualche volta per
sfizio o per dimostrazione. I ciabattini hanno avuto precedenti
illustri. San Crispino e san Crispiniano tra una preghiera e l’altra
ridavano dignità alle calzature. Anselmo Ronchetti prese a occhio le
misure dei piedi di Napoleone, che stava attraversando corso Venezia
diretto a Palazzo Serbelloni; e durante la notte confezionò un paio
di stivali. Li consegnò, soddisfacendo appieno il destinatario, che
lo raccomandò alla sua corte e ai suoi amici sparsi in Europa.
Ritratto di Michele Lamantea eseguito da Federica Berne per il libro Gente di Brera |
Michele Lamantea non ha avuto una notorietà così estesa, ma era
certamente nel cuore del popolo del quartiere di Brera, dove,
all’angolo di via Fiori Chiari, di fronte al Bar Giamaica (che a
suo tempo fu frequentato da personaggi famosi, da Carrà a Kodra; da
Fontana a Tadini; da Quasimodo a Gonfalonieri…), ogni mattina alle
10 allestiva il suo punto vendita, sul marciapiede. Compariva in
sella ad un triciclo con un cassoncino pieno di pezzi unici (busti in
bronzo, lampade liberty, medaglioni, cornici, quadri…) e iniziava
la sua giornata. Taciturno, riservato, basso, magro, cappello a
cilindro in testa, la sera del 4 dicembre 2002, dopo aver riscosso
una piccola vincita al lotto al vicino tabaccaio prima di rincasare,
fu investito da un’auto e il 25 gennaio, vigilia del suo
compleanno, morì in ospedale. Durante la cerimonia funebre nella
chiesa di San Marco, alla quale parteciparono quasi tutti gli
abitanti della zona, i commercianti e gli studenti dell’Accademia,
il primo violoncello della Scala, Sandro Laffranchini, suonò la
suite 2 di Bach, invitato dal baritono Giuseppe Zecchillo, che,
affranto, commentò: “Con Michele se ne va un altro pezzo del cuore
di Milano”. E indicò il libro “Gente di Brera”, che fra tanti
ritratti, eseguiti da Federica Berner, di modelle, scrittori,
pittori, cantanti, critici, artigiani, esercenti noti non solo da
quelle parti, contiene quello di Michele Lamantea.
Un regista promise di girare un film sulla sua vita. Era l’ultimo rigattiere della città del Porta, aveva 77 anni,, era nato a Barletta.
Un regista promise di girare un film sulla sua vita. Era l’ultimo rigattiere della città del Porta, aveva 77 anni,, era nato a Barletta.
Sediaio all'opera |
Eh, la Puglia. Ero un marmocchio quando a Taranto passavo ore a guardare “’u conzagràste”, maestro nel rimettere insieme i cocci degli oggetti in terracotta, servendosi anche del trapano a mano e del filo di ferro; “’u ‘mbagghiasègge”, “’u cadaràre”… Spuntavano annunciandosi a gran voce, come il giovanotto “de le pampanèdde”, quagliato servito in un pampino. Era il più mattiniero: dava la sveglia alle 7. Assediato il chioschetto “d’u gràtta-gràtte”, una bibita al limone o alla menta o all’orzata ottenuta raschiando un blocco di ghiaccio con un pialletto. “’U conzalume” si presentava ogni giorno alla stessa ora; e, all’occorrenza, di quella fonte di luce sostituiva “’ u bècche”, da cui usciva “a gazzettèlle”, “’u tùbbe”, che poteva avere forme diverse: panciuto, affusolato… (in ogni casa si teneva una piccola riserva di combustibile che si acquistava dal carbonaio). Ad alcune di queste attività Diego Fedele ha dedicato versi divertenti, a volte maliziosi. Vi ritroviamo “’u caggiunìere”, che in piedi “sus’u traìne” con le ruote cigolanti correva da “le Caggiùne” a Taranto vecchia con ortaglie fresche “ca stennève ‘ndèrre” giù alla dogana, sulla riva del Mar Piccolo, e intonava la sua sinfonia: ’Uagnè, v’hàgghie purtàte ‘u rafanìjdde’…”. Mio padre mi parlava “de le crapàre” che quando lui era giovanotto vendevano il latte spremendo per strada le mammelle delle pecore; “d’u zucàre”, il cordaio, che aveva come garzone “’u geratòre”, addetto a girare la ruota. ’Nno ère àrta còmete” per Cataldo Acquaviva. Non era arte comoda neanche quella “d’u pezzàre, “ca scève gerànne” strillando in cerca di stracci; e quella “d’u ‘mbrellàre”, che si portava appresso “’na cascetèdde” con pinzette, piccoli ganci, “file de fìerre”…, e in spalla aste, manici, stecche necessari per la funzionalità di quelle cupole di seta, di cotone….
Qualche mestiere era davvero arte. Quella del bisso, per esempio, la cui materia prima era data “d’a paricèdde”. Ne ho viste, di “paricèdde”, ai tempi che Berta filava. E ho visto “’a ‘ngègne” (la noria) con il cavallo che facendo ruotare, bendato, una sbarra di legno, permetteva all’acqua del pozzo di salire. E “mèsta Rònze”, attempata proprietaria di un orto che produceva fra l’altro “’a gnète” , subito dopo via Giovan Giovine, confine tra la città e la campagna . Ero alto quanto un bastone da passeggio e osservavo “mèste Fiorènze” che, in via Nettuno, nell’androne di uno stabile cosparso di segatura e “farfùgghie”, lavorava al bancone con sega, raspa, pialla, morse, mentre “le uagnùne” giocavano alla livoria, “’o spezzìedde” (la lippa) o alla morra sul marciapiede di fronte, che era più largo della strada.
Complimenti per l'articolo, molto interessante.
RispondiEliminaGaetano