Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 6 luglio 2016

Una volta i ragazzi giocavano in strada






'A levòrie, archivio fotogafico di Nicola Giudetti.
ERANO I TEMPI

 “D’A LEVORIE”

E DELLA PALLA DI PEZZA







La Befana aveva le scarpe rotte e il sacco vuoto

Durante le feste, nelle piazze si issava l’albero

della cuccagna. Nei quartieri si accendevano i

falò per San Giuseppe e per il funerale di Carnevale

Nelle case si ballava con il grammofono a tromba.




Franco Presicci


Quando ero ragazzo avevo il campo-giochi davanti a casa (in via Nettuno, tra via Dante e piazza Messapia): un marciapiedi largo e sterrato, con un muretto di tufo mezzo smozzicato su un lato.
Gli stabili della via erano bassi: al massimo due piani. C’era solo un esercizio, la tabaccheria di don Damiano, e un calzolaio con il deschetto, mest’Andonie, che non ci sopportava per il chiasso che facevamo giocando alla livoria. Che cominciava dopo aver segnato “’a menàte”, il limite da cui si lanciavano le palle d’acciaio, tentando d’infilarle “gnìndr’a scìgghie”: cerchio di ferro del diametro di sei o sette centimetri dotato di una specie di chiodo che si conficcava nel terreno a una decina di metri dal punto di partenza; e se si mancava il bersaglio, lo si raggiungeva spingendo la boccia con la paletta. Per aggiudicarsi due punti in una botta sola, bisognava colpire, con la propria, quella dell’altro, facendole superare la “menata” al grido di “Càpe, ce mandène jè fàtte”, volendo dire che, se il “proiettile” toccava un piede, il premio era assegnato anche se non era stata superata la linea di demarcazione.
'A ròzzele.
vevamo anche gli spettatori: “’na decìne de uagnùne e ‘ngòrchie grànne”. Il numero lievitava con le donne affacciate ai balconi, che quando noi sloggiavamo, verso le 19, dirottavano l’attenzione sui passanti, snocciolando critiche sul loro modo di camminare, sui vestiti che indossavano, sui gesti, i tic…. La signora che fumava per strada era una novità, quindi un buon argomento da commentare; quella che addentava un pezzetto di pane “no’nge ‘u tène ‘u tàule a ccàse, pròbbie mmìenz’a stràte addà scè’ mangiànne?”. Molti avevano il soprannome. Lo zio di un mio coetaneo era “Cemenère”, “p’u sìchere” sempre stretto fra le labbra; una cinquantenne bassa e magra, “vacandìe”, claudicante, “mènza meròdde”, e non capivo perché, avendo saputo che “meròdde” in dialetto sta per cervello.
Piazza Messapia.
Un diciassettenne mingherlino, “cùrt’e màle cavàte”, era “’u malacàrne””, perché improvvisava scherzi non sempre divertenti, come quella volta che fece “avenè’ ‘a frève” a un ottantenne di passaggio. “’U panarìedde” aveva legato un filo a un portafoglio malridotto, reggendo fra le dita l’altro capo; il malcapitato vide la custodia e si piegò per prenderla; l’altro tirò piano il filo, il vecchietto attribuì il movimento al ventaccio che spirava da un paio di giorni e insistette. Così fino a quando il trucco non fu smascherato, scatenando tuoni e saette. Allora i palloni erano una rarità, e noi ci ingegnavamo facendo “’a pàlle de pèzze”, un po’ di stracci arrotondati con una corda. Era da poco finita la guerra, le famiglie avevano le tasche vuote e quindi anche “’u spezzidde”, la lippa, era di nostra produzione.
'U spezzìedde, foto di Taranto ha due mari.
Era un gioco molto in voga: stando “indr’o ‘ndurnìedde” tracciato per terra, si batteva “cu ‘a màzze” su uno dei lati affusolati “d’u spezzìdde“, che si teneva nella mano sinistra, per farlo finire il più lontano possibile. “’U ‘turnìedde’ si svolgeva anche in casa”: con il gesso tracciavamo sul pavimento un cerchio, dove, per vincere, bisognava far entrare le monete scagliate dalla “menàte”. “A spaccaghiangàte”, invece, le monete si lanciavano in alto cercando di farle atterrare su un mattone prestabilito. Anche qui, se si falliva, si ripeteva la manovra con un dito. Noi ci servivamo dei bottoni; e io, come altri, li razziavo, tanto che una volta il nonno, avendone perso uno, rimase con la brachetta ventilata finchè la nonna con affanno non trovò il sostituto.
'U currùchele gire.
 

 

“C’u currùchele”, la trottola a forma di pera con una punta di ferro all’apice, me la cavavo bene. Gli si avvolgeva attorno una corda, “’u cuènze”, che si tirava forte tenendo l’altro capo tra il mignolo e l’anulare; la corda si srotolava e “’u currùchele” girava; lo si faceva “salire” sul palmo della stessa mano sbattendolo poi contro l’altro. Il vincitore “azzugnàve” lo strumento del perdente, che con il tempo per i buchi subiti veniva escluso dalle competizioni. “A scarecabòmbe” alcuni si mettevano in fila piegati ad angolo retto e gli altri correndo li scavalcavano poggiando le mani sulla loro schiena, come quando gli indiani schizzano sul cavallo nei “western”. Ricordo “Manuè zò zò”. Due squadre: i ragazzi dell’una prendevano la rincorsa e si mettevano a cavalcioni sugli altri urlando: “Manuè, pèse ‘u chùmme?” (e “’u chiùmme no’nge pesavè”, per orgoglio). Altri si divertivano con la fionda, “’u tirammòlle”, mirando alle rondini.
Le scuole Acanfora.
Non le colpivano mai, eppure ad ogni lancio un peana: “Hàgghie pegghiàte ‘’a còde!”; “je pe’ pìcche no’ge l’hàgghie azzeccàte!”… Altri ancora preferivano “’u cingh’e mmìenze”; “’a mòrre”; “’u nìgghie-nìgghie”; “’u ’nzicca parète”, “’a stàcchie”, “bbòtt’e fùsce”… Noi a volte “’u scarecauarrìle”. I più spericolati maneggiavano “u carbùre”: scavavano una buca di una decina di centimetri, vi collocavano un pezzo di quel composto al centro; poi vi alloggiavano “’na buàtte” con l’apertura rovesciata dopo aver fatto un foro sulla parte esposta della stessa; vi avvicinavano un fiammifero a legna e il barattolo decollava. Mi regalarono un cerchio più grande della ruota di una bici e io, imprimendogli il movimento con una piccola mazza, gli correvo dietro facendo più volte il giro dell’isolato. Spesso gareggiavo con i compagni: la spuntava chi riusciva a tenerlo in piedi più a lungo.
Via Nettuno.
Gioco di abilità era quello “de le cìnghe pètre”: se ne mandava in alto una e se ne prendeva un’altra in tempo per afferrare la prima mentre ricadeva; e così via. Il passatempo delle ragazzine era “’a cambàne”. “Mosca cieca” vedeva maschi e femmine insieme: uno faccia al muro contava fino a dieci, il resto della compagnia si nascondeva finchè non era scovato. E poi c’erano giochi per i più piccoli; e altri per i grandi, come “patrùne e sòtte”, in cui il secondo proponeva al primo se tizio poteva sorseggiare mezzo bicchiere e quello approvava o negava, motivando. “Patrù’ - addumannàve ‘u sòtte’ davanti a un bottiglione di vino – Memìne po’ bbèvere ddò’ dìscete?”. ”Nòne, Memìne jè mangiapàne a trademìende: je accussènd’a fa’ bbèver’a Necòle, ca jè ‘nu galandòme”. Alla fine “vùne se ‘mburracciàve e ‘n’òtre rumanève all’assùtte”. E le mogli accoglievano con il randello l’ubriaco e con sorrisi chi non aveva assaggiato neppure un sorso ed era stato travolto da una valanga di insulti e di calunnie. Erano i tempi del grammofono a tromba, “d’u strecatùre”, “de l’asciucapànne”, del calamaio di terracotta, dei pennini con forme diverse, “de l’assucanghiòstre”, delle bottigliette di gazosa con la pallina di vetro,“d’u brustelatùre d’u cafèje”,
'U brustulatùre d'u cafèje.
“d’u macenìne”, “d’a speretière”, “d’a fracère”, d’a tagghiòle pe’ le sùrce”, “d’u scarfalìette”. Per le strade passava l’uomo che suonava il pianino agendo su una manovella, mentre una sua assistente ordinava al pappagallo di pescare per il cliente fra tanti foglietti colorati il “pianèta della fortuna con i numeri del lotto”. I ficcanaso gridavano al vetturino in transito “Alè, alè alè, ‘u uagnòne ste’ rète” e subito schioccava la frusta contro il portoghese. La Befana aveva le scarpe rotte e il sacco vuoto. Entrò in casa mia, non per il camino, che non c’era, e depose su una panca un anno un Pinocchio di legno e un altro cinque soldatini di piombo. Poi perdette l’indirizzo. Erano anche i tempi in cui in piazza Marconi nelle feste issavano l’albero della cuccagna; e io ritenevo ingiusto che i primi scalatori facessero tanta fatica inutile per vedere l’ultimo arrivato conquistare con una certa facilità la vetta arraffando salami, vini e formaggi. Mi spiegarono che era tutto previsto e che a porte chiuse “spartèvene suèzze”, in parti uguali. L’albero della cuccagna era uno spettacolo affollato e atteso. Una festa anche i falò che si appiccavano a San Giuseppe e per il funerale di carnevale. Per noi anche quei roghi erano un gioco.

Nessun commento:

Posta un commento