Ospitò per nove anni Francesco Petrarca
LA CASCINA LINTERNO A MILANO UN’OASI DI PACE PER IL POETA
In via Fratelli Zoia, tra distese di verde e acque limpide, l’Aretino corresse “Il Canzoniere”, curò l’orto, studiò e fece lunghe passeggiate. In anni a noi vicini a due passi dalla struttura rurale abitò il “pret de Ratanà”, don Luigi Gervasini, erborista, guaritore, benefattore, per molti anche santo.
Franco Presicci
Ai fratelli Angelo e Gianni Bianchi e al gruppo dei loro Amici occorrerebbe innalzare un monumento. Sono loro che hanno lottato per anni affinchè fosse restituita dignità alla Cascina Linterno, dove, secondo una robusta tradizione e tanti indizi, da 1353 al 1361 soggiornò Francesco Petrarca. Oggi la storica struttura rurale di via Fratelli Zoia, a Quarto Cagnino, può finalmente accogliere convenientemente i tanti visitatori e tutti i mesi decine di manifestazioni culturali. La Linterno – riferisce Gianni - è stata restaurata con un progetto del Politecnico indicato con tre nomi: “Cappello, scarpe, bastoni” (tetto, fondazioni, consolidamento), e ora è “una vecchia signora ringiovanita, messa in stato di sicurezza, con la gioia anche dei giovani che sollecitati da noi la domenica venivano a ripulirla, anche strappando le erbacce”.
Prima di scegliere questo angolo di paradiso come propria residenza a Milano Petrarca aveva avuto altre abitazioni: vicino alla Basilica di Sant’Ambrogio, dove in via Lanzone la sua presenza è testimoniata da una targa: poi nei pressi di via San Simpliciano, luogo che non ha conservato di lui alcuna traccia…. infine la Linterno, che all’epoca si chiamava “Infernum”: non si sa perché, visto che Petrarca ne parlava in termini entusiastici. Lì studiava, passeggiava, meditava nella “recondita libraria” (che sicuramente si era portato con sé), rivedeva le proprie opere, scrisse L’”Itinerarium siriacum”, dettagliata guida dei pellegrinaggi in Terrasanta, che non gli servì per la paura che aveva del mare; coltivava l’orto e ammirava “i deliziosi paesaggi”, ricchi di fontanili e marcite ancora oggi intatti. E come il poeta latino Orazio desiderava essere sepolto sulle sponde del fiume Galeso a Taranto, ammirato anche da Virgilio…,Petrarca desiderava concludere i propri giorni nella “solitudine di Linterno”.
La ricerca della tranquillità fu una costante dell’autore del “Canzoniere”, che aveva ritenuto di averla trovata a Vauclouse (Avignone), a Selvaplana (Parma), ad Arquà, dove morì la notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374. La peste lo costrinse a lasciare Milano nel 1360 per Padova; raggiunse poi la Serenissima, che le regalò una casa a condizione del lascito della biblioteca; fece ritorno a Milano per conoscere la nipote Eletta e per incontrare il duca Galeazzo; e poi ancora nel 1368 per le nozze a Santa Maria Maggiore di Violante Visconti con il principe Leonello di Clarence, figlio di Edoardo III, i cui festeggiamenti si svolsero proprio alla Linterno, con la partecipazione dei più noti rappresentanti delle corti europee.
I fratelli Bianchi non si sono soltanto battuti, assieme agli “Amici della Linterno”, per la conservazione di questo patrimonio prestigiosissimo, ma hanno anche cercato documenti, lettere, incunaboli, mappe…per ricostruire la storia della cascina e ogni particolare delle giornate milanesi di Petrarca. E hanno trasfuso il materiale raccolto in diversi volumi pubblicati in bella veste tipografica. Hanno anche scovato e conservato la campana del 1753 caduta dal campanile; raccontano le leggende, come quella della statua dell’Ecce Homo, che, se fosse rimossa dall’oratorio per collocarla altrove, provocherebbe guai seri. E tengono viva, soprattutto Angelo, la memoria del “pret de Ratanà”, all’anagrafe Giuseppe Gervasini, un sacerdote criticato da molti, venerato da tantissimi e apprezzato anche dal cardinale Shuster.
Nato a Sant’Ambrogio Olona nel 1867, don Giuseppe abitava in due locali spogli proprio a due passi dalla Cascina Linterno, precisamente al civico 194. Aveva solo due tonache, una per tutti i giorni e l’altra, unta e spiegazzata, per la festa. Era un orso e parlava sempre in dialetto. Ma era a disposizione della gente, curava con le erbe officinali e non si faceva mai pagare. Era lunatico, scorbutico, volgare, redarguiva severamente le donne che lo celebravano come taumaturgo. Ma – dice Angelo Bianchi – aveva un dono di Dio; e io sto facendo in modo di metterlo nella giusta luce”. Morì il 22 novembre del ’41 e venne sepolto al Cimitero Monumentale, dove tutt’oggi sono una folla quelli che vanno a pregare sulla sua tomba e a deporre foto e fiori accanto al crocifisso, che gli fu rubato e restituito.
Di Don Giuseppe si raccontano storie straordinarie: per esempio quella del bambino che aveva dolori alle gambe che gli impedivano di camminare. I dottori si dichiaravano impotenti; e la nonna Rosa andò dal “pret”, che allora stava in piazza Fontana, e lo supplicò d’intervenire. Lui la rassicurò: “Torna a casa, la tua creatura si muove meglio di te”. Faceva camminare controcorrente nei fontanili chi soffriva di dolori artritici; e dava ai bambini la frutta fatta ammuffire. I postulanti arrivavano da lontano, anche dalla Svizzera, e parlavano di miracoli.
L’episodio del tram – ricorda Angelo Bianchi – è famoso. Un giorno mentre a passo lento don Giuseppe andava verso la fermata del tram contrassegnato con il numero 34, il manovratore, forse per fargli uno scherzo, forse perchè spazientito, mise in moto, ma dopo qualche metro il mezzo si fermò per …”aspettare il reverendo”, che, salendo, disse: “Adess va pur”. Da quel momento quella fu ribattezzata “fermata Gervasini”.
L’11 maggio 1892, ordinato sacerdote, i parenti, i vicini e i simpatizzanti allestirono un banchetto sontuoso. Ma lui non si presentò, e non chiese scusa. Anche per questi comportamenti alcuni lo scansavano, e i dottori si irritavano sempre di più, fino ad accusarlo di esercizio abusivo della professione. L’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari lo sospese “a divinis”, probabilmente non per l’uso della medicina empirica, ma per l’appoggio morale da lui dato alle proteste dei contadini contro il padrone dei terreni che comprendevano il borgo e la cappellanìa, allora retta appunto da don Giuseppe. Il possidente inviperito si rivolse alle autorità ecclesiastiche, che, adottato il provvedimento, non vollero argomentarlo: “La vera ragione la sapremo nel 2011, perché così vuole la Chiesa”. Chiuso. Ma la soddisfazione di chi odiava il prete durò poco: otto mesi dopo fu decretata la “restitutio in sacris”, che non fece indietreggiare un parroco ostile a questa decisione; e il cardinale Schuster gli fece una tiratina d’orecchie. Don Gervasini aveva 31 anni e 11 di messa.
Era anche benevolo, specie con i ragazzini che gli rubavano il vino. Se ne accorgeva e guardava dall’altra parte. Tutt’al più a volte somministrava al colpevole uno scappellotto, senza dirgli il motivo.
Aveva trascorso l’infanzia in via Borsieri, vicino al cimitero della Moiazza, allora frequentata da “locch” (malavita) e “gainatt” (ubriaconi). E nessuno avrebbe immaginato che sarebbe diventato un personaggio famoso come erborista, guaritore, alchimista, benefattore. Un uomo tra storia e mito. Cacciò urlando una vecchietta che, in cambio del “rimedio” ottenuto, si ostinava a consegnargli un pacchetto: “Mi de sciarpett ne porti minga!”. Come faceva a sapere – si chiese la gente - che la confezione conteneva una sciarpa? E c’è l’episodio della figlia di un lattaio che stava male e i medici non sapevano che pesci prendere.
Il padre salì sul carretto che utilizzava per trasportare il burro e andò dal “pret”, che lo stava aspettando sulla soglia, per dirgli che la cura ce l’aveva proprio lui sul cassone del mezzo: “Devi cospargere il burro sul corpo della ragazza e vedrai che starà bene. Bastò una settimana. Un santo? Per chi lo cercava, lo era.
La ricerca della tranquillità fu una costante dell’autore del “Canzoniere”, che aveva ritenuto di averla trovata a Vauclouse (Avignone), a Selvaplana (Parma), ad Arquà, dove morì la notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374. La peste lo costrinse a lasciare Milano nel 1360 per Padova; raggiunse poi la Serenissima, che le regalò una casa a condizione del lascito della biblioteca; fece ritorno a Milano per conoscere la nipote Eletta e per incontrare il duca Galeazzo; e poi ancora nel 1368 per le nozze a Santa Maria Maggiore di Violante Visconti con il principe Leonello di Clarence, figlio di Edoardo III, i cui festeggiamenti si svolsero proprio alla Linterno, con la partecipazione dei più noti rappresentanti delle corti europee.
I fratelli Bianchi non si sono soltanto battuti, assieme agli “Amici della Linterno”, per la conservazione di questo patrimonio prestigiosissimo, ma hanno anche cercato documenti, lettere, incunaboli, mappe…per ricostruire la storia della cascina e ogni particolare delle giornate milanesi di Petrarca. E hanno trasfuso il materiale raccolto in diversi volumi pubblicati in bella veste tipografica. Hanno anche scovato e conservato la campana del 1753 caduta dal campanile; raccontano le leggende, come quella della statua dell’Ecce Homo, che, se fosse rimossa dall’oratorio per collocarla altrove, provocherebbe guai seri. E tengono viva, soprattutto Angelo, la memoria del “pret de Ratanà”, all’anagrafe Giuseppe Gervasini, un sacerdote criticato da molti, venerato da tantissimi e apprezzato anche dal cardinale Shuster.
Nato a Sant’Ambrogio Olona nel 1867, don Giuseppe abitava in due locali spogli proprio a due passi dalla Cascina Linterno, precisamente al civico 194. Aveva solo due tonache, una per tutti i giorni e l’altra, unta e spiegazzata, per la festa. Era un orso e parlava sempre in dialetto. Ma era a disposizione della gente, curava con le erbe officinali e non si faceva mai pagare. Era lunatico, scorbutico, volgare, redarguiva severamente le donne che lo celebravano come taumaturgo. Ma – dice Angelo Bianchi – aveva un dono di Dio; e io sto facendo in modo di metterlo nella giusta luce”. Morì il 22 novembre del ’41 e venne sepolto al Cimitero Monumentale, dove tutt’oggi sono una folla quelli che vanno a pregare sulla sua tomba e a deporre foto e fiori accanto al crocifisso, che gli fu rubato e restituito.
Di Don Giuseppe si raccontano storie straordinarie: per esempio quella del bambino che aveva dolori alle gambe che gli impedivano di camminare. I dottori si dichiaravano impotenti; e la nonna Rosa andò dal “pret”, che allora stava in piazza Fontana, e lo supplicò d’intervenire. Lui la rassicurò: “Torna a casa, la tua creatura si muove meglio di te”. Faceva camminare controcorrente nei fontanili chi soffriva di dolori artritici; e dava ai bambini la frutta fatta ammuffire. I postulanti arrivavano da lontano, anche dalla Svizzera, e parlavano di miracoli.
L’episodio del tram – ricorda Angelo Bianchi – è famoso. Un giorno mentre a passo lento don Giuseppe andava verso la fermata del tram contrassegnato con il numero 34, il manovratore, forse per fargli uno scherzo, forse perchè spazientito, mise in moto, ma dopo qualche metro il mezzo si fermò per …”aspettare il reverendo”, che, salendo, disse: “Adess va pur”. Da quel momento quella fu ribattezzata “fermata Gervasini”.
L’11 maggio 1892, ordinato sacerdote, i parenti, i vicini e i simpatizzanti allestirono un banchetto sontuoso. Ma lui non si presentò, e non chiese scusa. Anche per questi comportamenti alcuni lo scansavano, e i dottori si irritavano sempre di più, fino ad accusarlo di esercizio abusivo della professione. L’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari lo sospese “a divinis”, probabilmente non per l’uso della medicina empirica, ma per l’appoggio morale da lui dato alle proteste dei contadini contro il padrone dei terreni che comprendevano il borgo e la cappellanìa, allora retta appunto da don Giuseppe. Il possidente inviperito si rivolse alle autorità ecclesiastiche, che, adottato il provvedimento, non vollero argomentarlo: “La vera ragione la sapremo nel 2011, perché così vuole la Chiesa”. Chiuso. Ma la soddisfazione di chi odiava il prete durò poco: otto mesi dopo fu decretata la “restitutio in sacris”, che non fece indietreggiare un parroco ostile a questa decisione; e il cardinale Schuster gli fece una tiratina d’orecchie. Don Gervasini aveva 31 anni e 11 di messa.
Era anche benevolo, specie con i ragazzini che gli rubavano il vino. Se ne accorgeva e guardava dall’altra parte. Tutt’al più a volte somministrava al colpevole uno scappellotto, senza dirgli il motivo.
Aveva trascorso l’infanzia in via Borsieri, vicino al cimitero della Moiazza, allora frequentata da “locch” (malavita) e “gainatt” (ubriaconi). E nessuno avrebbe immaginato che sarebbe diventato un personaggio famoso come erborista, guaritore, alchimista, benefattore. Un uomo tra storia e mito. Cacciò urlando una vecchietta che, in cambio del “rimedio” ottenuto, si ostinava a consegnargli un pacchetto: “Mi de sciarpett ne porti minga!”. Come faceva a sapere – si chiese la gente - che la confezione conteneva una sciarpa? E c’è l’episodio della figlia di un lattaio che stava male e i medici non sapevano che pesci prendere.
Il padre salì sul carretto che utilizzava per trasportare il burro e andò dal “pret”, che lo stava aspettando sulla soglia, per dirgli che la cura ce l’aveva proprio lui sul cassone del mezzo: “Devi cospargere il burro sul corpo della ragazza e vedrai che starà bene. Bastò una settimana. Un santo? Per chi lo cercava, lo era.
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