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mercoledì 13 settembre 2017

Francesco Colucci, poliziotto riservato


Prefetto Francesco Colucci


SOMIGLIAVA A ERCULE POIROT

PER LE SUE MANIERE MISURATE







Ha fatto tutta la sua carriera a Milano

in via Fatebenefratelli e in piazza San

Sepolcro, alla Criminalpol. Nominato

questore, è stato a Bergamo e a Lecce.

Ha conosciuto tutta la mala milanese.

E, se ne parla, non fa mai nomi. Come

non ne facevano Plantone e Nardone.






Franco Presicci

Il prefetto Colucci in un disegno
Da poliziotto era più vicino a Ercule Poirot, sempre misurato e gentile, che a William Murdoch, che quando perde la pazienza non ci mette molto a prendere per il bavero le pellacce. Francesco Colucci, andato in pensione da prefetto, le staffe non le ha mai perse. Può aver alzato i toni della voce, a volte, ma mai le mani. Tanto che chi al termine di un interrogatorio prendeva la via per San Vittore lo salutava con rispetto. Il mondo della malavita milanese per lui non aveva misteri: conosceva capintesta e gregari; rapinatori e biscazzieri; magnaccia che lottizzavano i marciapiedi dissanguando le falene; bidonisti e rapitori... Insomma si è trovato di fronte a ogni tipo di malacarne. Ma ne parla di rado. E quando, sollecitato, si decide a farlo, maschera i nomi, schiva i particolari e non parla mai in prima persona. Se gli capita di accennare, per esempio, a un esponente della banda Vallanzasca o del clan dei catanesi, smantellato dal suo stesso capo, pentitosi poco dopo il suo arresto nel confessionale di un magistrato severo e di grandissima cultura ed esperienza, liquida l’argomento con poche parole. Gli chiedo di Angela Corradi, che dopo aver attraversato da giovane un tratto di malavita, si è fatta suora laica, confessa di non avere dubbi sulla sua conversione.
Colucci,Caracciolo e il giornalista Costantino Muscau
Da cronista la incontrai più volte, Angela. Una sera degli anni 80 mi dette appuntamento in un bar della Comasina; mi guidò in una stanza semibuia in fondo al locale, fra sguardi biechi e sospettosi placati dalla sua presenza; mi regalò una medaglietta con l’immagine della Madonna, che conservo ancora, e si aprì. “Prima che tu me lo domandi te lo dico io: è stato Gesù a bloccarmi e a traformarmi. Degli sconsiderati avevano offeso alcuni miei compagni che stavano in galera, e io volevo vendicarli. Mi misi in tasca una pistola e mentre stavo per afferrare la maniglia della porta sentii come un fiato: ‘Dove vai con quel cannone?’. Era Lui, il Signore.
Ferdinando Oscuri a destra
Fu per me una folgorazione. Mi confezionai il saio e da allora la preghiera è la mia pratica quotidiana”. Con Francesco Colucci ci vediamo spesso, a Milano o a Laino, un piccolo paese del Comasco a 700 metri d’altezza. E lo stuzzico a tavola o quando ci sediamo sul piazzale per vedere i cervi che pasteggiano e le volpi. Gli ricordo il 16 agosto del 1984, giorno in cui da Milano pilotò i suoi uomini appostati davanti a una villa a Misano di Rimini, presa in affitto da due luogotenenti del clan che scuoteva allora la città, e chiarisce: “Non furono presi subito, perché si pensava che sarebbero stati raggiunti dal principale. E siccome quello non arrivava, partì l’ordine di acciuffarli”. Alla fine di settembre, alle 3 del mattino, venne decapitata la banda e svuotato il covo del Tebano. Accenno anche a quello strano personaggio che dopo essere stato testimone di un maxiprocesso alla mafia a Palermo faceva il portoghese nel capoluogo lombardo, soggiornando negli alberghi di lusso per squagliarsela alla chetichella. Basso, magro, impermeabile bianco, “rolex” d’oro e dita inanellate. Una faina. Venne a trovarmi al giornale e cercò di rifilarmi una “bufala”.
Le prime auto della polizia nel '44
Francesco Colucci ha in testa un’antologia di indagini e catture; ma cede all’insistenza del cronista impiccione solo se i pezzi di memoria che è invitato a rispolverare non sono sbiaditi. La “banda del buco”? Era composta da specialisti della fiamma ossidrica. Venivano da Roma. C’era un volpone che si faceva assumere dalle ditte produttrici di casseforti, carpiva i segreti e se ne serviva per colpi clamorosi. Nessun tipo di forziere resisteva alla sua destrezza. Una volta, dopo un accurato sopralluogo, la consorteria prese in affitto un locale adiacente a una gioielleria, forò il punto della parete a cui, nella stanza del tesoro, era appoggiato lo scrigno, ne bucò la spalla e via con il saccheggio. I nomi? “Quelli no”. Pazienza.
 
I questori Catalano,Jovine,Plantone,Caracciolo,lo scrittore Olivieri e Pagnozzi nell'87
Dalla capitale venivano anche “quelli della gomma a terra”. Scesi dall’aereo a Linate, andavano a piazzarsi di fronte a una banca, uno entrava, individuava il cliente che prelevava una somma rilevante, usciva dietro di lui e lo segnalava ai complici, che, appena il malcapitato si metteva al volante, con mossa fulminea azzoppavano l’auto e, nel momento del cambio della ruota, compivano il “volino”: si impossessavano del malloppo. La questura ai tempi di Colucci aveva segugi di ottima qualità, a cominciare da Enzo Caracciolo, capo della Mobile. Con lui Vito Plantone, giovane commissario; Ferdinando Oscuri, detto il maresciallo di ferro, Petronella, Farenga, Imbriano…, Nino Giannattasio, che convocò ripetutamente un pezzo grosso della mafia italo-americana, con alloggio a Milano, per sapere come si guadagnasse da vivere, non riuscendo mai a far breccia nei suoi silenzi sull’argomento.
Oscuri,Bonanno,Gino Cervi,Caracciolo,Plantone
Il personaggio li interrompeva solo per declinare le generalità; e li spiegava con un’esperienza fatta negli Stati Uniti, dove era finito al fresco per aver sbagliato di un giorno la data del suo ingresso nel Paese. “Vi ero stato portato dai miei genitori quando ero ancora in fasce e un errore così era giustificabile. L’Fbi pensò invece che fossi in malafede e provai l’onta della cella”. “Quante notti – riprende Colucci - abbiamo passato in via Fatebenefratelli. La malandra non ci dava tregua. Il 28 ottobre ‘76, per un’intera giornata, il sottufficiale Gaetano Imbriano assediò, con soli due agenti, cinque banditi armati, che dopo aver fatto una rapina all’ospedale di Niguarda si erano rifugiati in una villetta di Palazzolo Milanese, acquistata da uno di loro”. E segue il furto nella filiale della Banca provinciale Lombarda di piazza Diaz, il 20 maggio dell’84.
  
I questori Caracciolo e Plantone

Colpo miliardario studiato nei minimi particolari. I malviventi s’infilarono nell’istituto di credito il venerdì pomeriggio e lavorarono tutto il “week end”, abbattendo la parete del “caveau” con un mostro meccanico montato sul posto, dove la polizia trovò scarpe, stivali, guantoni da operaio, lampade portatili, bottiglie d’acqua “Panna”, confezioni di “Enervit”… Gli autori dell’assalto vennero scoperti in una settimana, mentre stavano prendendo il largo. Tanti gli omicidi di cui l’investigatore si è occupato, risolvendoli nel giro di poche ore. Tra cui quello che ebbe come vittima una signora inglese nel centro storico. Il responsabile del fattaccio un giovane di 22 anni. Carpii il nome e quello della via in cui abitava, ma non il numero civico; e dovetti fare una lunga scarpinata, di sera, palpitando per l’ora che incalzava, con il fotografo Gaetano Montingelli, consultando centinaia di citofoni. La maratona si concluse davanti a un casermone popolato forse da oltre duecento persone. I “grilli” erano quasi tutti muti e accecati, e non rimaneva che compensare la sconfitta con un caffè al bar di fronte, dove invece incontrammo la fortuna nei panni di un vecchietto simpatico, arzillo, loquace, forse anche un po’ brillo, bassino, sottile, sui 70 anni, che sentendo nominare il ragazzo sussultò.
Caracciolo,Pagnozzi,Colucci
Era il fidanzato della figlia. Ci precedette nel suo tugurio, dove riempii il taccuino, mentre Montingelli riproduceva tre o quattro foto. Quando Mario Nardone era capo della Mobile ebbe in Colucci un valido collaboratore. “Ogni tanto – ricorda - era lui che mi dava la dritta. E mi diceva: ‘Chiste è ‘nu fetènde, vall’a piglià’. Mi invitava a pranzo o a cena nella sua abitazione di via Tortona e mi parlava di lavoro. Mi rivelò che quando era impegnato in un caso difficile invocava il padre, che era stato questore”. Il vice di Nardone era Mario Jovine, che terminò la carriera come prefetto di Bologna. “Penso spesso con affetto a Vito Plantone. Lo rividi dopo tanto tempo quando ero al timone della questura di Lecce in una cena nella casa di campagna di un amico a Martina Franca. Grande poliziotto, intelligente, scrupoloso, riservato, umano, e capace, come Jovine, di animare le serate in compagnia”. Promosso questore, Vito fu destinato a Catanzaro…. Ricordi Antonio Pagnozzi?”, mi chiese. Come no? Il grande Antonio, bravissimo dirigente della Mobile e della Criminapol e poi questore e prefetto. “Detective” acuto, tenace; persona ammirevole, esemplare. Francesco Colucci è rimasto in ottimi rapporti con tanti suoi ex colleghi; e ha nostalgia di via Fatebenefratelli. Uomo generoso, sincero, affabile. Nato ad Atripalda, provincia di Avellino, nel ’43, prese la laurea in legge, entrò in polizia nel ’68, a Milano alla fine dello stesso anno, servizio di leva e poi sempre nella città del Porta, sino alla nomina di questore. Ha concluso la carriera nella veste di prefetto.














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