Le foto sono di GERARDO e di VITO GIACOBELLI
L’ORDITO CON L’OLIVASTRO IN ANTIMO CALO’ E’ UN’ARTE
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Antimo Calò |
Bottega
a Uggiano Montefusco.
Realizza cesti, panieri, rivestiture
per
bottiglie di olio e di vino.
Ha ereditato
la bravura dal padre.
Conosce
bene le qualità delle piante
che forniscono i materiali
che
usa.
E’ sempre presente alla
“Sagra
du diavulìcchie ascquànde” di
Crispiano, svoltasi nei giorni scorsi.
Franco
Presicci
Alla “Sagra d’u diavulìcchie ascquànde” di Crispiano, architettata dagli “Amici da sempre”, ogni volta con novità di piatti e di iniziative collaterali, si fanno incontri interessanti. E’ lì che ho conosciuto oltre al professor Massimo Biagi, esperto mondiale di “habanero” e altre spezie della famiglia (purtroppo scomparso in questi giorni), e al dottor Giorgio Di Presa, specialista di erbe e persona di grande simpatia, il cestaio Antimo Calò, di Uggiano Montefusco, angolo tra Manduria e Sava.
Era seduto accanto al suo banco all’imbocco di una strada stretta e a serpentina, impegnato in una trama di vimini che sviluppava in cestino. La gente passava, vi si assiepava, intasando il passaggio di fronte a una cappella antica molto visitata; e Antimo, il capo chino, le mani abili, veloci, l’aria indifferente allo spettacolo che offriva. Non capita più tutti i giorni vedere un artigiano intento a realizzare un manufatto sotto gli occhi di tutti.
Era seduto accanto al suo banco all’imbocco di una strada stretta e a serpentina, impegnato in una trama di vimini che sviluppava in cestino. La gente passava, vi si assiepava, intasando il passaggio di fronte a una cappella antica molto visitata; e Antimo, il capo chino, le mani abili, veloci, l’aria indifferente allo spettacolo che offriva. Non capita più tutti i giorni vedere un artigiano intento a realizzare un manufatto sotto gli occhi di tutti.
La grotta |
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Cesti su treppiedi |
Ammirevole. Tra il pubblico, tante persone venute come me da fuori, un giornalista del luogo, Nando Perrone, di “Manduria Oggi”… Tutti, dopo gli applausi più che meritati, hanno sgranchito le gambe facendo la spola dai panieri appesi ad alti treppiedi ad altri allineati su un tavolo, dove troneggiava una bottiglia per il vino o l’olio rivestita da una trama di lentisco, elemento che si usa anche per opere d’intarsio. Ne ho visti altri, di cestai, non molto lontano da qui. Un ultranovantenne - titolare di un laboratorio piccolino e scarsamente illuminato – avaro d’informazioni, scostante, brusco, occhi fulminanti, come avesse di fronte non un giornalista, ma un ladro di segreti professionali. Un altro, una decina di anni in meno, sottile, sorridente, seduto in un vicolo sulla soglia di casa con la coppola in testa, braccia incrociate, gambe accavallate, fra diversi esemplari di canestri, con la speranza di catturare un compratore, ottenendo solo scatti fotografici da sistemare in archivio o da pubblicare su un giornale. Antimo, invece, è spontaneo, cordiale, disponibile, ospitale, premuroso. Spiega, si entusiasma, nelle risposte parte da lontano, somministra dettagli, snocciola tutta la sua competenza, coinvolgendo chi gli sta di fronte, convinto che questo mestiere, nato con l’uomo, non si disperderà come quelli dell’arrotino, dell’ombrellaio, dell’impagliatore di seggiole, del riparatore di vasi lesionati o rotti… Allo scopo dà lezioni a tanti giovani, che lo ascoltano quasi con devozione. Ne ha, di cose da dire, a cominciare dalle origini di questa attività, dalla passione che spinge a praticarla, dalle caratteristiche del materiale necessario...
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Un angolo della masseria |
“L’Arte del cestaio – dice - appare semplice, ma non lo è. Si deve prima di tutto cercare ciò che serve, scortecciarlo, esporlo all’aria per stagionarlo, rimetterlo a bagno…”. Un’arte, che deriva da un’intuizione, probabilmente dovuta all’osservazione degli intrecci di alcune piante, come l’edera, o dei nidi degli uccelli... L’ebbero per primi i contadini, che, nelle stagioni morte, fabbricavano contenitori per il trasporto della legna da ardere, di semi, frutta appena raccolta, e per conservare il cibo. Usavano elementi che elargiva la natura, tra cui polloni di olivastro (detto anche ligustro), che spuntano sugli zoccoli dell’ulivo millenario, saraceno… La cesteria, che all’inizio non era un mestiere, ha preceduto la ceramica e anticipato la tessitura, com’è dimostrato da non pochi reperti archeologici.
La palombara |
Ai giorni nostri è svolta ovunque, non soltanto nel nostro Paese. In Puglia, regione ricca di artigiani noti e apprezzati nel mondo, fa parte delle tradizioni e anche della storia. Nostri corregionali si sono ritrovati al castello di Montorio (Verona) il 24 e il 25 aprile, al simposio nazionale dei cestai, per confrontarsi e proporre gerle, fiaschi, ceste, cestini, canestri…, eseguiti con virgulti della palma da datteri, il giunco, il melograno, verghe di salice, rafia…, preferendo ciò che si trova nel luogo in cui si vive. Un mestiere magro, che non assicura grossi guadagni. Tra l’altro ha subito la concorrenza della plastica. Chi non ricorda Gino Bramieri, negli anni 60 e 70, che, nel “Carosello” televisivo, alla domanda: “E mo’?” rispondeva: “E mo’ Moplen”, zompando con tutto il suo volume su una valigia fatta con quella novità. Ma la cesteria, sostiene chi sa, non è stata sconfitta. Ha soltanto allentato i passi. La si vede infatti rinascere, specie in Calabria. Da noi, Antimo Calò ce la mette tutta per incrementarla. “Il mestiere – parole del maestro - richiede grande volontà, pazienza, sforzi notevoli soprattutto per la realizzazione dei fondi grandi. Con l’uso di pochi attrezzi: il coltello, il falcetto, il punteruolo”. Antimo, Antimino per parenti e amici, non pone barriere se scruti nella sua vicenda personale.
Anzi. “Da piccolo acquisii i rudimenti seguendo mio padre. Cestaio era anche mio nonno, e cestai mio zio e mio fratello”. Una dinastia, insomma. “Papà, scomparso sei anni fa, arrivò ad avere ordini di 100 pezzi in una volta. E anch’io prima del Natale scorso, per Pino Caramia di Martina Franca, ho fatto 60 ‘panari’ per le confezioni-regalo del capocollo della città dei trulli. Per i miei manufatti – ribadisce sciogliendo un quesito - uso il lentisco, pianta arbustiva con foglie sempreverdi; e anche l’olivastro e la canna”. Non si dedicò subito all’ordito con fibre vegetali. Obbedì a un’altra passione, quella per la falegnameria; e si attrezzò convenientemente, battezzando “il mio bel locale, che conservo ancora”. Fino a 15 anni fa ha maneggiato pialle, sega elettrica e morse. Poi ha ceduto al richiamo dell’arte paterna, facendo la felicità del “vecchietto”, che desiderava vedere almeno uno dei suoi tre figli in questa secolare attività e tramandarla. “E sono contento di esercitarla.
Mi dà soddisfazioni, non mi stanca muovere ritmicamente le mani, come fa il sarto con il filo e l’ago”.
Il luogo della dimostrazione |
Alla masseria Palombara, che è al centro di un parco di 100 ettari costellato di ulivi, mandorli e palme, e si articola in ambienti riposanti e ariosi, ha forse dato il meglio di sé, tra l’altro esibendosi su uno spazio enorme dominato dalla torre, antica costruzione, rimessa a nuovo, che dà il nome al complesso.
Per raggiungerlo siamo stati ingoiati da una grotta con tracce dei tempi andati e subito restituiti alla luce. Al termine, scatti di macchine fotografiche, ronzii di telecamere e un rinfresco offerto dai titolari della masseria, Fabiola Dantona e Angelo Lippolis, con delizie della casa e nettare versato da una fanciulla cortese ed elegante. Un bel pomeriggio, in cui Antimino Calò non ha celebrato se stesso, ma l’eredità lasciatagli dal padre, rappresentante di un’attività degna di essere inserita nell’elenco della prestigiosa Fondazione Cologni dei mestieri d’arte accanto al vignaiolo.
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