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mercoledì 27 settembre 2017

In “Jère ‘na vòte…Martine”



LO SCRITTORE MARTINO SOLITO

ESPLORA LA VITA DI UNA VOLTA




Martino Solito nel suo studio

Un libro interessante che ricorda i costumi, gli usi;   i mestieri, dal maniscalco al vasaio; i negozi, i mulini; la fillossera che affliggeva le viti; i matrimoni; le galline fuori degli usci;
il divieto del podestà di stendere i panni sulla
strada; la tavola dei braccianti.             L’autore, che è anche poeta, in dialetto e in lingua, racconta un passato a tanti sconosciuto. 
Le bellissime illustrazioni sono di Mariella Spinosa






 

Franco Presicci 


E’ una galoppata nel passato il libro “Jère ‘na vòte… Martine” di Solito, corredato da immagini di vita familiare realizzate con abilità e finezza da Mariella Spinosa: una famiglia raccolta attorno al camino; una giovane che lava il pavimento, inginocchiata come in preghiera; nonne al telaio o intente ad alimentare la fiamma sotto la pentola; braccia al lavoro nella vigna; un carretto carico di botti; il cavallo sull’aia; ragazze con anfore sulla testa protetta dal cercine… E’ molto interessante, e attrae, la fatica di Martino Solito, che di professione fa l’enologo e il geometra e nelle ore libere scrive in prosa e in poesia, in vernacolo e in lingua.

Copertina del libro di Martino Solito
“Jère ‘na vòte…Martine”, in dialetto tradotto in italiano, offre tantissime informazioni sui tempi andati, evocando lontane atmosfere, personaggi, usi, costumi, “con occhio attento ed impietoso, senza cedere al sentimentalismo…”. Allora la città era diversa, più tranquilla e riposante. L’avvisatore acustico, spesso rabbioso o impertinente e irritante, blasfemo, installato sul volante delle auto, era strumento ancora da inventare; in città circolavano i traini e nelle campagne si sentivano il raglio dell’asino e il nitrito del cavallo, oltre al canto del gallo che dava la sveglia. Solito racconta con ricchezza di dettagli la civiltà contadina e il suo lento scomparire; la nascita dell’attività industriale; il cambio delle abitudini e della mentalità. E osserva con amarezza, come nella poesia “Paese mio”, gli ampi spazi fagocitati dall’avanzare del cemento; il vecchierello “stanco di andare sotto la fascina”, e “chi siede sull’uscio per godere il fresco della sera e narrar storie antiche ai fanciulli di questa terra ricca di miseria”. Rappresentazione che andava in scena nel centro storico, dove case, “nchiostre”, vicoli, fontanelle, spiazzi… erano, e sono, elementi di teatro. Qualche atto di quel testo si svolge ancora, ma, se per licenza concessa dal Signore, il patriarca potesse alzare la testa, non riconoscerebbe più il luogo in cui trascorse la sua esistenza. A quei tempi la città era piena di braccianti e artigiani, le strade erano pavimentate con masselli di pietra; la fillossera affliggeva le vigne; le galline cantavano nelle gabbie fuori dai bassi; le massaie sciorinavano i panni sulla strada, abitudine poi troncata dal podestà Davide Carrieri, incurante del malumore delle interessate, che dovevano anche rispettare l’ordine di non tenere animali in casa. Il sabato davano il bianco alle facciate e tiravano a lucido la parte del marciapiedi antistante… Erano aperti tanti negozi, e laboratori: osterie, che per insegna avevano un ramo d’edera appeso; pizzicherie, che non negavano il credito a chi non disponeva di molti mezzi; mulini (i più antichi in piazza della Cipolla e delle Erbe).
Asini di Martina Franca
I cestai, il più noto “Raffaele il panieraio”, intrecciavano vimini in più angoli. In via Taranto lavoravano i carradori e i maniscalchi; in via Massafra i vasai. Nelle feste non si gozzovigliava: si andava ad ascoltare la messa e poi in piazza la banda che suonava sulla cassarmonica. La candelora era la fiera degli animali. Per acquistare gli asini, che a Martina erano dei campioni, e tali continuano ad essere i pochi esemplari rimasti, arrivavano da altre regioni e addirittura da oltreconfine. Per chi nasceva in una casa contadina i problemi comparivano con i primi vagiti: le mamme dovevano dare una mano ai mariti nei campi e li seguivano con il neonato in braccio, parcheggiandolo “sott’a ‘nu ceppòne”. Quando il marmocchio cresceva, qualche giorno di scuola, se era fortunato, e poi la zappa o l’incudine o la pialla. Se faceva il bracciante, si alzava all’alba e rientrava al tramonto. A mezzogiorno, un pezzo di pane fatto in casa e portato al forno a legna per la cottura…

Martino Solito
Martino Solito, studio in via Verdi, un passo dallo stradone e da piazza Roma, in cui si erge il seicentesco Palazzo Ducale, delinea con garbo e con stile limpido tutti i momenti della vita magra di una volta: la dote per il matrimonio (per i più poveri tre capi di vestiario, due cappotti, cinque lenzuola, due coperte… il sacco da letto portato da lei; la paglia per imbottirlo da lui… ); le ore per la preghiera, i giochi (la campana, la lippa, la trottola, il giro d’Italia, lo schiaffo, la pietruzza…), praticati in strada la domenica e nelle altre feste. Gode, Solito, ad esporre anche i cibi e i modi di prepararli. “La panzanella era la regina dell’estate…”. “I boleti velenosi si curavano prima di mangiarli”. “L’orcio dei fichi secchi stava in tutte le case”... I pidocchi si moltiplicavano con l’arrivo del caldo; il concerto delle campane annunciava una festa, un funerale, l’Ave Maria, il Vespro, mezzogiorno, ed erano rintocchi autentici, prodotti dal batacchio che ritmava nella pancia del calice rovesciato, mentre oggi la fa da padrone un registratore.
Disegno di Mariella Spinosa
Insomma in “Jère ‘na vòte…Martine”, sapientemente illustrato, come detto, da Mariella Spinosa, diplomata all’Istituto d’Arte di Monopoli, putignanese abitante a Locorotondo, Martino Solito, 72 anni, culla in Valle d’Itria, oasi spettacolare benedetta da Dio, riscopre la città della memoria in tutti i suoi aspetti e la illustra come un nonno ai nipoti seduti attorno al camino la sera di Natale. Conosco Martino Solito da diversi anni. Nelle mie frequenti rimpatriate nella città dei trulli e del Festival, sono andato a trovarlo spesso nel suo studio e ho conversato con lui non solo del suo impegno di poeta e scrittore, ma anche di Martina e del suo fascino. E’ uomo sereno, pacato, rispettoso delle idee altrui. Quando è invitato a parlare dei suoi scritti lo fa come se appartenessero ad altri. Non usa enfasi, rifugge dalla retorica, non fa paragoni con l’attività degli altri. E’ ospitale, cordiale e ha un sorriso benevolo. Ha collaborato ai periodici martinesi; con alcuni interventi è presente in “Voci della Valle”, di monsignor Corrente, pubblicato da Schena, noto editore di Fasano (scomparso nel 2004), che per costruire il suo opificio affrontò tanti sacrifici, lavorando fino a dodici ore al giorno. Nato nel ’25, era spiritoso e intelligente, e usava dire che non poteva morire perché all’inferno avevano fatto il pieno. Papa Wojtyla volle conoscerlo e lo ricevette in Vaticano. Ebbe premi prestigiosi e una laurea “ad honorem”.

Martino Solito ammira la Valle d'Itria
Curò con passione “Lo scudo”, il primo periodico pugliese; la stampa delle arringhe di Alfredo De Marsico, che fu un principe del foro; nell’83, a tempo di “record”, pubblicò gli Studi di cultura francese ed europea in onore di Lorenza Maranini, committente l’Università di Pavia…Martino Solito discute volentieri di queste formiche pugliesi e della sua città, che piacque subito a Cesare Brandi. Quando venne la prima volta in questo splendore il docente rimase colpito “dall’armoniosa distribuzione della città, come un teatrino settecentesco, dove si sentisse musica gustando sorbetti. E musica si faceva”. Lo scrisse in un magnifico volume, “Martina Franca”, edito nel ’68 da un grande martinese amico di Paolo Grassi e del critico Pierre Restany, dello scrittore Dino Buzzati, del poeta Raffaele Carrieri…: Guido Le Noci, titolare a Milano della famosa Galleria d’arte “Apollinaire”, in via Brera, che fece conoscere all’Europa tanti pittori d’avanguardia.

Trulli di Martina Franca
“E’ davvero incantevole, un gioiello, Martina. Baciata dalla luce, ricca di colori”, diceva il pittore barese Filippo Alto, che la dipingeva nel suo studio estivo di Figazzano e in quello milanese di via Porro Lambertenghi. “Non ho avuto il piacere di conoscere personalmente quest’artista, ma ho visto qualche suo quadro”, mi ha confidato un giorno Solito. Io presentai una sua mostra postuma a Cisternino, allestita dalla moglie, Ada. Ogni tela un inno a Martina, in una sintesi armoniosa: una “’nchiostre”, la loggia di un palazzo storico, una casa incappucciata insieme attraversati da un tralcio di vite; una ringhiera spanciata e una finestra a mo’ di cornice ”legate” da un ramo d’ulivo. Martina non è più quella di una volta, la sua popolazione si è infoltita, i contadini sono quasi scomparsi, tanti mestieri pure; nei “passaturi” non si odono più gli strilli dei bimbi; le vicine di trullo non vi si raccolgono più per chiacchierare; qua e là cupole e muri a secco hanno bisogno di un restauro; sugli alberi raramente friniscono le cicale, ma continua a dare gioia a chi la visita. Martina Franca è sempre una magia. Chi la vede una volta ha il colpo di fulmine e non resiste all’idea di tornarci.




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