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mercoledì 20 giugno 2018

Il baritono Giuseppe Zecchillo


 
FACEVA I QUADRI CON LA PASTA

RIVESTITA DI VERNICE DORATA
 

Gli amici lo indicavano come il

re o il sindaco di Brera, e lui ci

giocava. Alla cerimonia funebre

di un noto rigattiere molto amato

nel quartiere, nella Chiesa di San

Marco fece suonare l’”Ave Maria”

a un violinista della Scala







Franco Presicci

Per gli amici era “il re di Brera” o il “il sindaco del quartiere”. E lui la prendeva a ridere, perché era burbero, ma sapeva anche essere spiritoso. Un giorno lo sorpresi in via Fiori Chiari mentre osservava gli operai che sistemavano la pavimentazione. “Sto controllando i lavori”, esclamò, ovviamente scherzando.     Il baritono Giuseppe Zecchillo era battagliero, ostinato.
Zecchillo a Trani
Il 7 dicembre del ’65, serata di apertura della stagione scaligera, con la “Forza del destino” diretta da Gavazzeni, dal loggione piovvero centinaia di volantini di protesta e i giornali scrissero che la manifestazione era stata pilotata dal cantante, che Giuseppe Barigazzi nel suo libro “La Scala racconta” definisce “il contestatore numero uno del teatro lirico italiano”. Poi nel 1990 entrò nel consiglio di amministrazione della Scala in rappresentanza degli artisti. Sosteneva di essere contro la politicizzazione del teatro lirico. “Voglio restare sulla barricata del sindacato per combattere assieme ai miei colleghi”. Uno spirito effervescente a dispetto del suo aspetto da frate cappuccino. Non entro nel merito delle sue lotte, a volte anche spettacolari, come quella volta in cui per protesta si presentò in piazza tutto vestito di bianco con i titoli dei giornali che parlavano di lui attaccati su giacca e pantaloni. Aveva 270 opere in repertorio e mietuto applausi in tutti i maggiori teatri del mondo. Era generoso, disponibile.
Zecchillo al Circolo della Stampa
Nel gennaio del 2003 morì, in seguito a un incidente stradale, Domenico Lamantea, il rigattiere di Brera amato da tutti i milanesi, fu Zecchillo a far suonare alla cerimonia funebre nella chiesta di San Marco l’”Ave Maria” da un violinista della Scala. Oltre che baritono Giuseppe Zecchillo era autore di quadri realizzati con la pasta: spaghetti, tubettini, mezze maniche, pennette, poi cosparsi di porporina… ottenendo risultati affascinanti. Fece una mostra in un noto ristorante ambrosiano con il titolo “Quadri in oro… Zecchillo”, e calamitò tanti appassionati, compreso Vincenzo Buonassisi, gastronomo ed esperto di musica leggera, che incontrai al Festival di Sanremo nel ’67, anno della perdita di Luigi Tenco e del successo di Annarita Spinaci con “Quando dico che ti amo” (sarebbe arrivata seconda, se la giuria presieduta da Ugo Zatterin, insediandosi, non avesse eliminato la classifica). A proposito della mostra, Buonassisi scrisse che l’autore non cercava successi di moda, anzi sceglieva sempre le strade più difficili, come quando si battè per i cantanti meno fortunati”. E Valerio Dehò: “Le sue opere, in cui la superficie… viene invasa da paste alimentari diverse ricoperte di vernice dorata, sono delle divertite provocazioni che riecheggiano temi e motivi delle avanguardie storiche e della Pop-Art, soprattutto in considerazione dell’elemento consumistico legato agli oggetti scelti. L’uso della vernice enfatizza la provocazione dandole significato di monumento, di permanenza, di durata…”. E lo stesso artista: “Mi ritengo discepolo di Piero Manzoni, non solo artisticamente…”. Andavo a trovarlo spesso nel suo studio di via Fiori Chiari, a Brera. A volte era lui che mi telefonava per mostrarmi un’opera terminata da poco; e di tanto in tanto mi accennava a quelle del suo amico Piero Manzoni, deceduto all’età di 30 anni. “Questo studio era suo e i suoi quadri li ho ricevuti da lui. Quindi nessuno può suscitare dubbi sulla loro autenticità”. Intelligente, colto, aveva sempre mille idee. Un giorno, mentre, seduto dietro alla lunga scrivania senza la presenza della segretaria, parlava dei suoi progetti, e all’improvvido mi disse. “Dammi una mano: sto cercando una casa produttrice di pasta disposta a sponsorizzare una mia esposizione”.
Zecchillo nel suo studio
Lo accontentai ma tutti i pastifici mi risposero, con cortesia, che la pasta è fatta per essere mangiata, non per finire sotto una patina di vernice. Non interessavano ai pastai quelle vedute a volte cosmiche che Zecchillo otteneva accostando, sovrapponendo, incrociando linguine e bucatini. Lo studio era pieno di tele e di cornici. Era un ambiente raccolto, con una scaletta che portava a una stanzetta che prendeva luce da una finestra affacciata sul locale più grande. Lo vedevo spuntare da lì e immaginavo che si accingesse a una predica. Amava la compagnia e invitare gli amici al ristorante. Il locale preferito era il “Rigolo” di largo Treves, vicino al “Corriere della Sera”, dove avemmo come commensale anche la moglie del tenore Giuseppe Di Stefano, che mi parlò del libro che aveva scritto su Maria Callas, promettendomene una copia; e un noto soprano coreano. Una sera a cena eravamo al tavolo da soli. Accanto a noi un noto onorevole che ogni tanto si alzava, salutava un avventore appena entrato e tornava ad accomodarsi, sussurrando all’orecchio della moglie l’identità della personalità. Peppino stranamente cedette alla mia richiesta di aprire la sua biografia, precisando che l’avrebbe sorvolata, riservandosi di rispolverarla con più calma un’altra volta.
Presicci, Zecchillo, il tenore Tagliavini
“Cominciai a dipingere a 18 anni circa, prendendo lezioni private di disegno e pittura per alcuni anni. All’inizio i miei quadri erano figurativi e s’ispiravano al mondo del teatro lirico (camerini di cantanti, orchestre, palcoscenici, palchi... Feci alcune mostre nelle gallerie e nei “foyer” di alcuni teatri. Riuscii a vendere, ma solo nell’ambito del teatro lirico, acquirenti colleghi, scenografi, melomani. “Avevo successo perché bravo? – mi chiedevo – o perché i miei temi interessavano solo quelle categorie? Provai turbamento. Analizzai i miei prodotti e mi accorsi che nelle mie pennellate c’erano qui De Pisis, lì Carrà. Ciò mi fece pensare a Schoemberg, che, come si sa, scrisse che, componendo in maniera tonale incontrava Beethoven, Schuman…”. Proseguì: “Volendo camminare da solo, inventai la dodecafonia. Misi da parte colori e pennelli e presi a incollare sulle tele scarti destinati alla discarica: vecchie chiavi, rasoi, pennelli da barba, tappi, forbici, lattine, che ricoprivo “doro” per esaltare l’oggetto che sorgeva a nuova vita. A poco a poco dal… rottame arrivai alla pasta. Così ho risposto alla tua curiosità”.
Quadro di Zecchillo


Me lo ripetè durante una mostra collettiva nel bar dell’angolo a Brera, dove mi vide fissare un quadro e mi chiese: “Ti piace?”. Si alzò, lo staccò dalla parete e me lo regalò. “A proposito, quali sono stati i tuoi maestri?”. “Mi sono riconosciuto in Tristan Tzara, Duchamp, Fontana, soprattutto in Piero Manzoni …”. Conobbi Zecchillo nel ’64 al Festival Del Clown dedicato a Grock, nel salone delle Feste del casinò di Campione d’Italia, dove con la sua solita eleganza e cortesia il grande Enzo Tortora si prestò a farmi da interprete per l’intervista al leggendario clown Charlie Rivel. Intanto il baritono se ne stava un po’ in disparte, non per superbia. Una mia collega mi domandò: “Sai chi è? Il baritono Giuseppe Zecchillo, un po’ rompi, ma geniale”. Arrivò con la sua “troupe” il telecronista Romano Battaglia e iniziò il suo servizio facendo uscire la testa di un pagliaccio da un trombone. “Bella idea”, commentò Zecchillo”. E avviammo una breve conversazione sulla manifestazione e sull’inventore e organizzatore Pino Corrente che aveva da poco concluso la sua collaborazione con Dino Villani. “Ho quarant’anni – diceva Pino – e voglio intraprendere un percorso da solo”. E già accennava a un Festival dei giocolieri, da ambientare in un teatro di Bergano, presentatore Pippo Baudo. Andò in scena due anni dopo.
Il Bar Giamaica, oggi
Incontrai nuovamente Zecchillo un paio di anni dopo. Motivo, un’intervista per il settimanale “Il Milanese”. Mi elencò subito i cambiamenti che il quartiere andava subendo. “Scompaiono negozi storici, ritrovi … ”; e ricordava figure illustri, che si riunivano al Bar Jamaica , dove Benito Mussolini, allora direttore del “Popolo d’Italia”, ogni mattina si faceva preparare il cappuccino dalla signora Lina. Inaugurato nel giugno del ’21, era dotato di macchina per scrivere e macchina per il caffè espresso. Uno dei clienti più assidui era il critico e storico della musica Giulio Confalonieri, amico dei “clochard” e autore di un libro sulla categoria: “I barboni di Milano”, Nuova Accademia editrice. Di Confalonieri il pittore cantante era amico. Me lo presentò negli anni Sessanta, quando in un altro suo locale, sempre a Brera, aveva scoperto una botola che portava a un ambiente sottostante e per battezzarlo invitò, oltre al musicologo, Nanni Svampa, Roberto Brivio, Lino Patruno e Gianni Magni, non ancora famosi come “Gufi”. Giuseppe Zecchillo non c’è più da qualche anno. Rimasto vedovo, si era iscritto al Circolo Volta, dove mi invitò a cena senza poter mantenere l’impegno.






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