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mercoledì 5 febbraio 2020

In via Magolfa, sul Naviglio Grande


Alda Merini con Graziana Martin
QUOTIDIANO PELLEGRINAGGIO

AL RICCO MUSEO ALDA MERINI



Ci sono mobili, oggetti, documenti,
fotografie, appunti della poetessa:
la sua camera da letto, la scrivania,
il pianoforte, gli scialli, la macchina
per scrivere, persino il rossetto.










Un biglietto della Merini
Franco Presicci

La Magolfa è una via antica, di origine longobarda, tranquilla, riposante, attraversata da una vetusta roggia inaridita.
Vi si erge una chiesetta dedicata alla Madonna del Sasso o del Sangue, un tempo frequentata dagli spazzacamini che dalla Val Vigezzo scendevano a Milano una volta all’anno per togliere la fuliggine ai camini; e la sera si riunivano nell’oratorio per sentirsi più vicini al focolare di casa. L’immagine della Madonna è una copia di quella di Re - paesino in val Vigezzo - che nel 1492 sanguinò copiosamente. Un tempo nella via c’erano case di ringhiera, dove gli abitanti erano, come in tutte le altre, solidali, passavano ore insieme, stendevano i panni sul filo steso tra un ballatoio e l’altro, dai quali conversavano, confidandosi gioie e dolori. 

Camera da letto
Oggi, al numero 32, due passi dal Naviglio Grande, in uno stabile che ospitò una tabaccheria con bocciofila, si apre la “Casa delle arti-spazio ‘Alda Merini’”, che ha come presidente Vincenza Pezzuto e soci del direttivo Diana Battaggia, Ave Comin, Daniela Girardoni, Gianfranco Carpine, Stefania Polonara, Barbara Bellazzi, Mara Sansonetti. Alla casa si accede tramite un giardino con pergolato e un bar-caffetteria. Al piano terra, una sala in cui si svolgono convegni, conferenze, concerti, mostre di pittura, letture di poesie, presentazioni di libri… Si fa anche teatro. ”Sere fa Emanuela – mi dice Carpine - la figlia maggiore di Alda, ha presentato il libro Intitolato ‘Alda Merini, mia madre’”, pubblicato dalla casa editrice Manni. Con parole emozionanti, Emanuela ha delineato un ritratto della poetessa, i suoi rapporti con le figlie, con la gente, coinvolgendo i presenti. A lei Alda aveva dedicato una poesia: ”I tuoi occhi verdognoli/ sempre a spiarmi nella notte/ i tuoi occhi azzurro lacrime/ i tuoi occhi vertiginosi/ mi hanno promesso mille bandiere/ e mi hanno dato mille sconfitte/ però sei una collina dolce amara…”. Emanuela parlava, a dieci anni dalla scomparsa di Alda, davanti a un pubblico numeroso, eterogeneo, attento: non soltanto la gente del Naviglio Grande, delle vie e viette vicine al canale; dell’alzaia Naviglio Pavese, che inizia la sua corsa dalla darsena. 

Graffito che raffigura Alda Merini
Tutti ansiosi di conoscere la vita più privata dell’amata Alda, la cui immagine domina la parete di un palazzo a un tiro di scoppio dalla fermata di Crocetta della metropolitana “gialla”. L’ha eseguita un autore di graffiti accanto ad altri, tra cui Einstein. I cittadini vi si fermano ad osservare, e commentano la dolcezza di quel volto. “Era bella”, dice qualcuno. Torno al 32 di via Magolfa. Al primo piano è alloggiato il museo, con tanti oggetti appartenuti alla poetessa del Naviglio, come Alda veniva indicata: la porta d’ingresso della sua abitazione, il letto, la scrivania, il comodino, gli scialli, le borse, la poltrona, il pianoforte, la macchina per scrivere, le collane, la radio, persino il rossetto, e documenti, fotografie, appunti trovati sul tavolo o appesi alle pareti… Gianfranco Carpine descrive i locali, e m’informa sull’attività dell’Associazione e sull’arredo del Museo: “La prima è nata nel 2013; l’anno successivo, vinto il concorso indetto dal Comune per la gestione della struttura e del patrimonio che accoglie, ci siamo dati da fare per realizzare l’idea. Siamo tutti volontari e realizziamo le iniziative con passione e premura. Paghiamo di tasca nostra le bollette e le spese di manutenzione“. 

Il Naviglio Grande
Le persone li premiano seguendoli, partecipando, parlandone per sensibilizzare gli assenti. E’ vero che l’atmosfera sul Naviglio Grande è cambiata: una volta erano tutti una famiglia, i pittori, i galleristi, il fabbro, i maestri argentieri, l’artigiano specializzato in cornici, come ricorda il grande acquafortista Gigi Pedroli nelle sue divertenti canzoni in dialetto meneghino. Ciononostante, la Casa di via Magolfa vanta una media di 500 visitatori al mese. Molte le scolaresche, di ogni tipo e grado. Ad ogni telefonata mi sono sentito rispondere: “Chiamiamo noi appena terminato il giro dei ragazzi”. E puntualmente si è presentata la voce di Carpine, che è rimasto all’apparecchio oltre un’ora per soddisfare tutte le mie curiosità. E poi l’ho raggiunto mentre era in macchina verso Firenze. 
La porta di casa Merini
Gianfranco Carpine mi ha fatto la storia della Casa delle arti e del Museo quasi con gioia, dettagliatamente, soffermandosi sui suoi incontri con le figlie della Merini: oltre a Emanuela, Flavia, Barbara, Simona. “Emanuela è figlia di Ettore Carniti, professione panettiere e parente del famoso sindacalista Pierre, dal ’79 all’85 segretario generale della Cisl. Quando la Merini uscì dall’ospedale psichiatrico il marito morì, a 53 anni…”. Durante la guerra Milano visse giornate convulse: la paura delle bombe che cadevano sulla città, facendo disastri, crollarono i Filodrammatici, la Scala, La Galleria, Santa Maria delle Grazie, il Fatebenefratelli, piazza San Fedele, via Gesù, largo Richini, villa Pirelli... Tutta il tessuto urbano straziato. Le bombe colpirono anche il convento di clausura della Visitazione in via Santa Sofia (non si dimentica la figura del prefetto Marziali affranto davanti a un asilo ridotto in polvere). La gente cercava di correre via da quell’orrore. La stazione Centrale era gremitissima; i treni, tradotte con sedili di legno detti carri-bestiame, anche. La Merini decise di rifugiarsi con la mamma e il fratellino appena nato, Ezio, nella campagna del Vercellese, in una cascina della zia. Per vivere fece la mondina, ma senza risolvere del tutto il problema della fame. 

Altro particolare camera
Dopo tre anni, al termine del conflitto mondiale, che aveva imposto paura, coprifuoco, lutti, mercato nero, la distribuzione delle patate regolata dalla tessera annonaria come il pane, le fughe al ricovero antiaereo all’ululato della sirena…, tornò a Milano a piedi e prese alloggio in ripa Ticinese 47, perché anche la sua casa era stata devastata dagli ordigni. “Lei – aggiunge Carpine - aveva 15 anni, era nata in viale Papiniano 57”, dalle parti del carcere di San Vittore. Il nostro interlocutore, che il 18 febbraio a Roma, nella sede del Cnr (Comitato nazionale delle ricerche), terrà una lezione sulla Merini, sa tutto di lei. “Era una donna straordinaria – esclama - con vedute strane. Sul naviglio parlava con tutti, con gli artisti e con la gente comune. Aveva frequentato il salotto di via Del Torchio (fino al 1865 contrada del torchio oleario, perché anticamente possedeva uno di quegli strumenti utili agli oleifici: n.d.a), nella casa di Giacinto Spagnoletti, dove conobbe Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini, Maria Corti, Padre Maria Turoldo, Salvatore Quasimodo… 
Gigi Pedroli
Davanti a queste personalità recitava le sue poesie, che Spagnoletti pubblicava nella rivista “Paragone”. E proprio nella casa di Spagnoletti - che era nato a Taranto – conobbe anche Giorgio Manganelli, traduttore, scrittore, critico letterario, che considerava uno dei suoi padri, con Montale e Quasimodo (aggiungendo in una bellissima intervista per Stampa Alternativa-Mille lire, curata da Gudo Spaini e Antonella Baldi: “Mah, direi che la mia paternità è al femminile. La psichiatria perlomeno è ambivalente”. Nella stessa intervista afferma che non le piaceva, pur rispettandola, la collega Emily Dickinson perché a suo dire molto amata da Michele Pierri, poeta prolifico (ricordiamo soltanto “Ritratto di donna”), che la Merini sposò il 6 ottobre dell’84 nella chiesa del Santissimo Crocifisso della Bimare). 
Pezzo di parete dietro la camera
Sono tante le manifestazioni che la Casa di via Magolfa organizza per ricordare la Merini, della quale mentre scrivo ammiro una foto in cui è al fianco di Graziana Martin, titolare con il fratello Paolo del famoso negozio “Abbigliamento militare e lanseria Martin Luciano” sul Naviglio, grande appassionata di musica, assidua frequentatrice della Scala e dell’Arena di Verona, amica dell’étoile Luciana Savignano, che mi regala un “flash”: “Ero seduta a un tavolo del bar “Ponticello” quando notai Alda che mi osservava da un tavolo di fronte. Poi lei mi si avvicinò, mi sorrise e mi disse: 'Sei una persona che mi piace'. Poi venne in negozio e mi espresse il desiderio di vederci e bere un caffè insieme. L’ho rivista tante volte. Mi raccontava di sé con il desiderio di essere ascoltata. Sapeva leggere nell’anima delle persone. Era speciale. Ma era incostante. C’erano giorni che non usciva da casa. Quando un amico puntò l’obiettivo verso di noi, fu lei ad appoggiarmi la mano sulla spalla, pur non amando essere ripresa”. Alla fine della conversazione ho chiesto a Carpine se i figli del primario traumatologo dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto, Michele Pierri, poeta solitario e schivo, come lo definisce Spagnoletti, che “fu salutato agli inizi da Betocchi e Pasolini", si fossero mai fatti vivi in via Magolfa, e mi ha risposto di no. “Mai visti né sentiti”. E non sa nulla del tempo in cui la poetessa dei navigli villeggiò a Crispiano, la cittadina dall’aria tersa e pulita in cui i tarantini, sfollati dalla città per scampare ai bombardamenti, si rifugiarono. Ho ancora in mente i palloni frenati che danzavano sulle nostre teste. Avevo 12 anni.









N.d.R. : In foto il villino Valente, in via Piave n. 26, a Crispiano, dove la Merini, negli anni di permanenza a Taranto, trascorreva qualche giornata estiva di relax.







Sul sito "Notizie ed eventi Associazione" (block notes con penna) la relazione di Silvia Laddomada "Alda Merini: la poetessa degli ultimi", riferita all'incontro di martedì 21 gennaio 2020

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