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mercoledì 19 febbraio 2020

Quando la polizia racconta


Controlli di polizia
VITA E IMPRESE DEI MAIGRET 

DI VIA FATEBENEFRATELLI



Non si dimenticano i nomi di
di Plantone, Caracciolo, Oscuri,
Jovine, Pagnozzi, Colucci, Serra,
che hanno dato il meglio di sé,
acciuffando trafficanti di droga,
spacciatori, assassini…





Franco Presicci

C’è stato un lungo periodo in cui ho frequentato i corridoi e le stanze dei commissariati e della questura; e lì, intrattenendomi con amici, capitava che la loro memoria mi elargisse episodi di malavita grande e piccola. Come quella che si svolse una notte dalle parti del Corvetto, dove un magnaccia bassino e in carne urlò a alle sue “protette” di darsela a gambe perché aveva avvertito la presenza di G., cintura nera di lotta giapponese, che lui non aveva mai visto di persona.

Il maresciallo Oscuri
Il questore Lucio Carluccio
Ma una voce alle sue spalle lo fece sussultare: “G. sono io”: il poliziotto era noto in tutta Milano come il Dondina ai primi del Novecento e in servizio al commissariato di zona. Trascorrendo le notti più sulla strada che a casa, sapeva che l’omino gestiva una batteria di “falene” e cercava di coglierlo sul fatto. Conosceva molto bene il mondo della mala milanese, non solo macrò, ma anche spacciatori di droga spietati, soprattutto quelli che operavano in via Odazio, al Giambellino; e spesso faceva buona pesca. Un giorno – ero presente, appostato dietro le persiane di una portineria per osservare l’andamento del mercato - al segnale delle sentinelle, il traffico subì una scossa: era arrivato G., che, nonostante il fuggi-fuggi, con i suoi colleghi impacchettò tre donne, molto attive nel traffico. Alcuni giorni dopo un altro amico mi parlò di un lenone che accompagnava la sua “protetta” all’idroscalo e per esibire il suo potere era solito accendere la sigaretta con un biglietto da diecimila.

Il prefetto Achille Serra
Poi c’era Ciccillo, bell’uomo, sempre vestito all’ultima moda, una specie di duro dello schermo, che bazzicava le sale da ballo di lusso per fare conquiste. Individuata la preda, la coltivava per mesi e, quando quella affrontava il discorso del matrimonio, lui esponeva le proprie difficoltà, prima fra tutte quella del portafoglio. Le altre – diceva - potevano essere superate, bastava un po’ di buona volontà, ma il denaro non avrebbe potuto trovarlo all’angolo della strada. Però, se lei, con un pizzico di coraggio, decidesse di smaltire qualche notte sotto un fanale, i soldi sarebbero arrivati a pioggia. Lei era dapprima riluttante, anzi sdegnata, ma alla fine accettava. Con questo sistema il lestofante era riuscito a creare un gruppo di cavalline. 
Il prefetto Mario Jovine
Nel’85, Guido Gerosa, vicedirettore e capocronista de "Il Giorno", mi dette l’incarico di scrivere una serie di articoli, intervistando “detectives” che avevano lavorato o lavoravano a Milano, per farmi raccontare la loro carriera, le fatiche compiute per individuare gli autori di delitti, rapine, spaccate di vetrine, borseggi fatti con tecniche mirabolanti, furti colossali…. Chieste le dovute utorizzazioni, andai a Venezia a conversare con Mario Jovine, che allora era questore nella Serenissima; quindi incontrai Mario Nardone (questore a Como), Achille Serra, Antonio Pagnozzi, Francesco Colucci, Vito Plantone (questore di Catanzaro), Antonio Fariello (questore a Torino), Enzo Caracciolo (questore in pensione), Lucio Carluccio, Ferdinando Oscuri, Nino Giannattasio….
Questore Enzo Caracciolo



Quando andai l’ispettore Ugo Brignoli, 43 anni, di Varzi (Pavia), persona squisita, disponibile, ospitale, che aveva tanta nostalgia degli anni passati alla Buoncostume con il vicequestore Enzo Sciscio, intelligente intraprendente, inflessibile, di Stornarello, in provincia di Foggia, la mia messe fu più cospicua. Mi disse, per esempio, che una notte alle due, su un’auto civile “io e un collega stavamo facendo un giro e di perlustrazione, quando un giovane dalla faccia da bambino ci chiese un passaggio.

Il prefetto Pagnozzi
L'ispettore Ugo Brignoli























E lo prendemmo a bordo perché qualcosa di lui ci aveva insospettiti. Lo facemmo sedere sul divanetto posteriore, e mentre stavamo per chiedergli i documenti, la radio ci segnalò un tipo sui vent’anni, jeans scuri e camicia bianca, che con un coltello aveva rapinato una coppietta. Era proprio quello che si trovava dietro di noi! Lo perquisimmo e gli trovammo l’arma”. Ma Brignoli preferiva parlarmi delle sue indagini nel campo dei trafficanti di droga, di una particolare. “Era il 1978, mese di giugno, dipendevo dal commissario capo Enzo Portaccio. Venimmo a sapere che un gruppo di trafficanti di morte nei pressi di Milano era andato in Libano a trattare grosse partite di droga, prendendo contatti con un personaggio del luogo, poi venuto in Italia per perfezionare il contratto. Costui, aspetto da professionista, elegante, colorito olivastro, furbo come una volpe, si era sistemato in uno dei più costosi alberghi meneghini.
Nelle indagini entrarono anche gli agenti della Dea (Drug enforcement administration), l’organismo americano sempre occupato a fiutare droga e trafficanti, e uno di loro s’inserì fra i trafficanti, italiani e stranieri, fingendo di essere un acquirente. Non tardammo ad appurare che i compratori avevano già preso una notevole quantità di hascisc ed erano pronti a venderne 300 chili per 230 mila dollari. Il denaro doveva essere consegnato al forestiero in albergo. Al poliziotto infiltrato i trafficanti chiesero di trovare un furgone, con il quale si doveva prelevare la sostanza stupefacente in una località non precisata. Disponemmo quindi un servizio nell’albergo. Il furgone si mosse alle 8 di sera, seguito da due auto che fungevano da staffetta. Gli uomini a bordo erano molto vigili: si fermano in vari bar con la scusa di dover prendere un caffè, ma in realtà per controllare se qualcuno li tallonava. A Cantù si fermarono: uno dei trafficanti si mise al volante, sostituendo il poliziotto infiltrato, e si arrivò verso una cascina isolata, in mezzo alla campagna. Ci appostammo, sentimmo rumori come di sacchi che venivano gettati a terra e cani che abbaiavano rabbiosamente. 

Il maresciallo Gino Giannattasio
Tutt’intorno non c’era anima viva. Al momento opportuno, facemmo irruzione nella struttura e prendemmo la banda di sorpresa”. Ho ancora in mente le parole del maresciallo Nino Giannattasio, un gentiluomo che parlava con tono sommesso. Era di Lanciano, in provincia di Chieti. Aveva 64 anni. I colleghi della questura lo definivano il Maigret di via Fatebenefratelli. Pensava spesso all’omicidio avvenuto il 26 gennaio del ’66 a Porta Genova, vittima un ex panettiere. Il caso fu risolto in dieci giorni. Fu lui a condurre le indagini, con altri sottufficiali. “Ho ricordi limpidi di quel fattaccio. In questura venne la zia del sospetto assassino e tentò di abbracciarlo. Ma lui la respinse, mantenendo un atteggiamento freddo”. Un assassino scoperto in così poco tempo è un risultato esemplare, osservai. “Beh, qualche altro lo abbiamo preso addirittura dopo poche ore. 

Il prefetto Colucci

Per me è molto importante la costanza: le prove si dissolvono, la memoria viene a mancare, l’assassino fa in tempo a inventarsi tutti gli alibi possibili”. Giannattasio, di assassini ne aveva cercati e pescati tanti. Ma non se ne vantava. E non amava parlare di sé. Mi disse soltanto poche frasi della sua biografia: “Fatta la guerra in Jugoslavia e sul fronte greco-albanese, fatto prigioniero dai tedeschi l’8 settembre ’43, scappai dopo quattro mesi, giunsi a Milano, dove mi arruolai in polizia”. Arrestò grossi calibri della mala e gregari; interrogò noti mafiosi rispediti in Italia dagli Stati Uniti: uno in particolare che oltreoceano veniva considerato secondo soltanto a Vito Genovese, capo di Cosa nostra. Lo vide l’ultima volta quando da una clinica privata i giudici lo trasferirono in un paesino delle Marche, dove morì. Giannattasio aggiunse che aveva visto spuntare l’hascisc a Milano. “La cocaina era già un problema, ma a sniffare erano circa in 150. L’eroina non circolava ancora”. E mi saluto ricordando un omicidio che turbò profondamente Milano: la vittima era Simonetta Ferrero, uccisa con decine di coltellate all’Università Cattolica del Sacro Cuore, il 26 luglio ’81. Giannattasio era uomo sensibile, riservato, acuto, rispettoso. Come Enzo Caracciolo, siciliano, intransigente, la cui severità, all’epoca in cui dirigeva la squadra mobile (anni 70) era proverbiale. Non aveva orari. Arrivava in ufficio anche a mezzanotte, improvvisamente. Era colto, ma non lo dava a vedere. Amava la pittura. Apprezzava quella di Filippo Alto, l’artista barese, che operava a Milano e d’estate a Figazzano, nei pressi di Locorotondo. Tante colonne di via Fatebenefratelli (Caracciolo, Plantone, Giannattasio, Oscuri, Fariello, Nardone, Jovine, lo stesso Giannattasio…) non ci sono più. Ma hanno lasciato un segno indelebile nella polizia milanese.







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