Pagine

Print Friendly and PDF

mercoledì 7 aprile 2021

LE BANDIERE DI SAN SEVERO

Franco Presicci

Zio Luigi
Difficile dimenticare gli anni trascorsi a San Severo, in un quartiere periferico, con una vietta che sfociava in quella principale, diretta, a destra, alla villa e a sinistra al liceo classico Matteo Tondi. Ero ospite in casa dei miei zii Luigi e Donatina, entrambi generosi e acuti, con una grande apertura verso chi poteva spiegare il significato degli avvenimenti più rilevanti, avendo potuto frequentare solo la terza elementare. Lo zio una lettera la scriveva, ma per il destinatario, che poi era mia madre, era difficoltoso interpretarla. Mio zio aveva una sessantina d’anni, un volto duro, rugoso, segnato dalle lunghe fatiche sui campi, i capelli bianchi e bruciati dal sole, bianchi pure i baffetti, gli occhi accesi e penetranti. La zia, piccolina, paziente, ma battagliera con misura, era innamorata degli animali: aveva una gallina, Palmira, e due cani, Nerone e Ruscitto. La prima zoppicava, era quasi cieca, ma faceva ancora le uova, depositandole in un recipiente di terracotta a forma di cono mozzato (a Taranto è “’u limme”). Lo zio la esortava a metterla in pentola, e lei gli ricordava che quando stavano male Palmira se ne accorgeva e scodellava ogni giorno un uovo che doveva tenerli in forza.

Ruscitto era più vecchio del bipede: cisposo, sempre accucciato in un angolo, rantolando. La zia lo proteggeva riconoscendogli il merito di aver tirato la bicicletta per venti chilometri al giorno da casa alla Zamarra (e ritorno), il nome della zona in cui Luigino aveva la terra concessa dall’ente riforma negli anni 50: mezza versura, che aveva dovuto dissodare con enorme sforzo per mettere a dimora le barbatelle. La bici era tirata da Nerone, che aveva sostituito Ruscitto, e marciava carica anche degli attrezzi sul manubrio e di Donatina seduta dietro. Quando tornavano, verso le 19, ci sedevamo a tavola, bordata di piatti di pasta con fagioli o lenticchie o ceci, o di brodo vegetale o di “fave e fogghie”, a volte seguite dalle rane che lo zio aveva catturato nella mattinata o dalle “ciambrachelle”, le lumachine che si raccoglievano sulle festuche, o dai lampascioni dissotterrati dallo stesso zio, già troppo anziano per i caporali che all’alba sceglievano i braccianti da portare al lavoro in campagna. Lo zio si rivolgeva a loro quando alla Zamarra non aveva impegni e non doveva andare a giornata da un padrone che lo conosceva. Poi loro andavano al forno di Nicolino, che aveva sposato la figlia, mia cugina Leletta, una ragazza molto dolce, di poche parole, buona, bassina, bella.

Nicolino era cacciatore e in un locale dietro al forno teneva i conigli: quando aveva voglia di metterne uno sul fuoco si appostava e acciuffava il primo che metteva la testa fuori dal buco scavato tra le fascine dalle stesse bestiole. Dalla caccia rientrava spesso con il carniere pieno; e organizzava una cena invitando amici e parenti, ai quali faceva gola la volpe. Ed era una festa tra “recchietèdde, vino buono, battute di spirito, brindisi, barzellette mai ardite, applausi.

Zii Luigi e Donatina

Verso le 23 gli zii tornavano a casa con una panciuta ruota di pane che diffondeva profumo su tutto il tragitto. Zia Donatina, come tutte le donne del quartiere, che mi chiamavano “’mbà Franchine” o “srudè”, credeva a fatture, ectoplasmi e altre cose del genere. Una mattina mi svegliai con il mal di testa, e non dissi nulla perché soprattutto lei si sarebbe preoccupata. Ma siccome aveva un intuito fortissimo mi domandò che cosa avessi. Saputo il motivo, sentenziò: “’A fascine, Sande Martine”, il santo che veniva invocato, a mo’ di scongiuro, dopo il buongiorno, ogni volta che si metteva piede in una casa o si faceva un complimento a qualcuno. E da esperta prese un piatto, lo riempì d’acqua, vi versò due gocce d’olio, che rimasero compatte come occhi inquietanti: la prova della “fascina” che mi aveva colpito, e recitò delle frasi con il solo movimento delle labbra. ”’Na criature, incontrandoti, ha detto: ‘Quant’è bello! Vedrai che in tre giorni starai bene: tre giorni, perché con l’emicrania hai dormito”. Avrei voluto consultarmi con padre Matteo, un frate cappuccino dalla cultura immensa, che andavo spesso a visitare in convento, nella sua cella con la finestra che si apriva sulla villa e lasciava entrare gli urli dei bambini che si rincorrevano.

Qualche mese dopo, dell’emicrania rimase vittima mio cugino Michele, che era davvero un bel ragazzo, allegro, spiritoso, conquistatore. Zia Donatina avviò il procedimento di rito, ottenendo il risultato desiderato. Due coincidenze non fanno una prova, pensai. Ma tacqui per non far dispiacere a quella santa donna, che mi voleva un bene grande, tanto che se uno si permetteva di dire una parola poco gradevole su di me allora, sì, che eruttava l’Etna (senza far danni). Oggi, ricordandola, ho l’impressione che per lei fossi una specie di mito. Credendomi impermeabile a certi racconti, mi descriveva un fantasma che ogni tanto l’aveva infastidita.

Zio Luigi
Era il tardo pomeriggio di una domenica, quando, seduti sul piccolo balcone di casa, in via Venere 2,informandomi sulla storia della famiglia deviò: “La notte si metteva ai piedi del letto e mentre Luigi russava lui mi chiamava, sottovoce. Io non avevo paura e stavo zitto per non svegliare tuo zio. Lo supplicavo, premendo l’indice sul naso, di sparire e quello rimaneva lì a fare il buffone. Poi si trasformava in una specie di filo di nuvola e si dileguava”. Ma chi? Di chi stai parlando? “Di Vincenzo, diventato spirito perché morto in un incidente stradale. Una sera turnamme da ‘u furne de Necoline e Lelette, Luigino salì per primo e io stavo ancora sulla soglia del soprano, quando Vincenzo tentò di strapparmi il pane dalle mani; io gli imposi di smetterla: ‘Che te ne fai della pagnotta? I fantasmi non mangiano’”. Lo zio sentì e le domandò che cosa stesse succedendo. “Niente, Luì’, è Vincenzo ca tène ‘a capa freske”.

L’avevo sentita tante volte parlare di questo fantasma burlone, che cominciai ad averne paura. Una sera ero solo in casa a studiare e sentii un passo pesante sulle scale. “Chi è?” – chiesi ripetutamente fino ad urlare -, e non avevo risposta; mentre il passo procedeva. Allora afferrai una pertica, di quelle che bacchiano le ciliege, e mi preparai all’attacco; e quando la tenda si gonfiò ebbi l’impulso di sferrare il colpo, ma apparve la testa di uno che conoscevo, sordo come una campana, che cercava lo zio. Abbassai l’arma, da utilizzare eventualmente solo per sgomentare l’altro.

La sera di un Capodanno, credo del ’53, andai a letto presto con un po’ di malinconia; e quando smisero di crepitare e tuonare i fuochi di artificio avvertii un rumore quasi impercettibile sotto il letto. Pensai a Vincenzo e la paura m’irrigidì. E così rimasi per un bel po’, resistendo ai pruriti che si spargevano dall’alluce alla pancia, quasi a volermi costringere a rivelare la mia presenza al fantasma: perché chi poteva essere se non lui? Improvvisamente mi feci coraggio, sollevai la coperta e, sorpresa, vidi Palmira accomodata “indr’u lìmme”. Mi alzai, presi ancora il bastone, pronto a compiere un gesto inconsulto. Ma arrivò Ninuccio, un altro dei miei sette cugini, che mi fermò il braccio. “Faccio io”. Ma scoppiammo in una risata e Palmira corse con andatura ballerina verso lo sgabuzzino (né io né lui avremmo avuto l’audacia di farle fare la fine di Maria Antonietta di Francia, sposa di Luigi XVI).

Ninuccio aveva trent’anni, dieci più di me; ed era un bonaccione. Di ammogliarsi non ne voleva sapere: in ogni donna che gli veniva indicata trovava un difetto: una troppo magra, un’altra troppo grassa, un’altra ancora aveva gli occhi da pesce morto, la quarta i denti da cavallo. “Devi mettere su casa”, cantilenava papà Nicola, il padre di zia Donatina, che aveva lavorato per una vita trasportando botti senza contributi. E a 80 anni vendeva a domicilio l’acqua che succhiava dalla fontanella di uno spiazzo vicino 200 metri. Un viaggio, 10 lire. Ogni volta litigava con sua figlia sul numero dei trasporti; e poi si mettevano d’accordo.

Un pomeriggio di freddo e di neve Papà Nicola ci trovò tutti attorno al braciere con la pedana; e tra una fumata e l’altra mi pregò di scrivere al governo perché si decidesse a dargli la sospirata pensione. “A te risponderà, sei istruito e hai voce in capitolo: ie so’ pèchere”. Antonio, per scherzare, lo provocò: “Papà Necò’, che pensione ti devono dare se non hai mai lavorato?”. Il vecchietto, alto e asciutto, la faccia copiata da Thomas Milian, depose la pipa con il cannello di canna ricurvo e lo ragguagliò: “Io ho fatto “’u carreamandegna “pe’ tand’anne”, ho anche combattuto su cima 11 e cima 12 e mò faccio l’acquaiolo…”. Antonio replicò, ma il duello fu interrotto dall’arrivo di mbà’ Cicce, sosia di Bernard Blier, un pastore che a volte aveva problemi per qualche pecora anarchica che, disubbidendo ai suoi ordini, entrava nei fondi altrui brucando le foglie degli ulivi. L’uomo ventilò una frase del poeta latino Publio Ovidio Nasone; e siccome aveva scritto dei versi con evidenti orme carducciane, me li dette da leggere. Lo accontentai, mentre Antonio e papà Nicola riprendevano la schermaglia.

Li invitai al silenzio e dissi a papà Nicola: “Credimi, io non conto niente; se mando una lettera al capo del governo, o si perde in qualche ufficio sotto montagne di corrispondenza o finisce subito nel cestino. Per dimostrarti che ti voglio bene al massimo ti posso radere la barba e potarti i capelli”. “Allore tu sì’ varvìere, studè. Quande mestìere face?”’ – sbottò. Tacqui. Il giorno dopo si ripresentò e occupò una poltroncina con i braccioli monchi. Presi forbici, rasoio, sapone e pennello e mi misi all’opera. Sbagliai il taglio della chioma e Antonia venne a protestare: “C’ha fatte? Mariteme mo’ pare ‘nu sacrestane”, gridò da giù. “Perché i sacrestani so’ brutti?”, le risposi; e lei si ritirò borbottando.

Ogni venerdì un conoscente che aveva un pollice diviso in due, invitava una decina di giovani abitanti di quell’agglomerato di case basse, dalle facciate screpolate, i pavimenti con le bretelle allentate (almeno così erano i nostri, forse risalenti a prima della costruzione dell’Episcopio, nel 1633… scherzo), in un groviglio di vie strette e corte, illuminate come ai tempi del lume a petrolio, smontava il letto e metteva in moto il giradischi. In una di queste occasioni ebbi l’idea di portare con me papà Nicola, che più volte pretese di mettere sul piatto una mazurka o un valzer, mentre noi preferivamo il ballo della mattonella. Gli altri giorni eravamo piacevolmente inondati da “Buongiorno tristezza”, vincitrice nel ’55 del Festival di Sanremo cantata da Claudio Villa e Tullio Pane. Il testo era tratto dall’omonimo romanzo di Francoise Sagan.

All’epoca frequentavo l’oratorio dei salesiani e, durante una passeggiata, il parroco, don Stanco, mi affidò la creazione di una filodrammatica, visto che disponeva di un piccolo teatro. L’idea mi piacque; e, avendo acquisito qualche nozione grazie a don Lasorella ai salesiani di Taranto, m’impegnai nelle prove di una commedia che prevedeva la presenza di un vecchio che non doveva dire una parola, standosene seduto a un tavolino con un bicchiere e una bottiglia di vino. Per me l’uomo giusto per questo personaggio era papà Nicola e lo coinvolsi. Senonchè, poco prima della conclusione dell’ultimo atto, urlò: “Ma qua il vino è finito, io me ne vado”. Alzò i tacchi e uscì di scena. Il pubblico credette che la battuta facesse parte del copione e applaudì.

Città di San Severo-Sede Municipale

Per me gli anni di Sanzevire, tra l’altro città d’arte, capitale del vino, dotata di edifici storici dall’architettura leggiadra, con gente bravissima e lavoratrice, furono felici. Avevo molti amici; al liceo professori preparatissimi, fra cui Nino Casiglio, che scriveva libri, uno pubblicato da Rusconi, De Rogatis, De Gennaro, Maggi… Il preside, Mancini, era severo, ma per me aveva tolleranza e simpatia, tanto che quando al Teatro Comunale, dove si erano esibiti Giacomo Rondinella, Guglielmo Inglese e varie compagnie importanti, allestii con alcuni compagni di scuola una recita, “Mister Brandi”, autore il professor La Pietra, lui era in prima fila. Ero simpatico anche al preside dell’Istituto Magistrale, Ceci, che il sabato mi metteva a disposizione un’aula, per dar modo a studenti volenterosi e preparati di confrontarsi su temi del giorno e non solo. Feci anche un giornale, ma qualche giorno prima dell’uscita tolsi la mia firma di direttore, perché i collaboratori si erano intestarditi a pubblicare un fondo che non aveva a che fare con lo spirito del foglio.

La domenica prima delle Palme, su incarico del professore di religione, don Giuseppe Stoico, che era anche rettore del Seminario, in tutte le chiese, nelle ore di punta, feci un discorso su “Cultura e potere” di un quarto d’ora per celebrare l’Università Cattolica. All’ultimo, nella Collegiata, alle 18, assistette il vescovo Orlando.

Studiavo e leggevo molto. Quando nel ’55 uscì il libro “Baroni e contadini” di Giovanni Russo, lo divorai, colpito soprattutto dal capitolo sulle “Bandiere di San Severo”, che “indicano le cantine dove il paese custodisce la sua ricchezza, quel vino che vengono a caricare sulle grosse autobotti le ditte piemontesi che lo trasformano in vino di lusso e di esportazione. San Severo è infatti uno dei maggiori centri produttori di vino della Puglia”.

Nicola Quatela
Verso le 20 andavo in piazza, dove si aprivano l’edicola, il cui proprietario, credo si chiamasse Milone, mandava notizie sulla città alla Rai; e il cinema Patruno, dove vidi “Totò sceicco” e “Bellezze al bagno”. In piazza incontravo sempre amici o compagni di scuola, con i quali imboccavo la via che scendeva verso quella dello struscio, a quell’ora sempre affollata di persone sedute al bar o intente a fare la ronda o dirette al cinema “Excelsior”, di fianco al convento dei cappuccini.

Tra gli amici, Palmuccia e Tommaso, ottantenne lui, che abitavano nel sottano di fianco a quello di Nannina, sorella di mia zia (quasi sotto di noi), e quando passavo davanti alla loro porta mi bloccavano: “’Mbà Franchì’, salipce so, volete favorire?”. Oppure: “Guarde ce bedde ‘sti ciambracùne , racculte da me”. Entrambe le pietanze mi adescavano e qualche volta accettavo, più volentieri quando le monacelle affogavano nel sugo. Un giorno di Pasqua fui invitato a pranzo da un lontano parente che mi voleva come aiuto di suo figlio, liceale in difficoltà con la grammatica greca. E mi fece gustare l’agnello con i piselli preparato dalla moglie e la “scarcella”, ciambella costellata di coriandoli di zucchero e pennellata con tuorlo d’uovo anche sulle “sbarre” di pasta che imprigionavano due cocchi.

Mi capita spesso di pensare a San Severo, ai miei zii, ai miei cugini, dei quali è rimasto soltanto Zarino, il più piccolo, che vive in Francia; a Tonino Vassallo, che studiava con me e che per anni ho cercato invano; a padre Matteo, che mi somministrava consigli che ancora oggi tengo a mente; ai ragazzi che giocavano sulla strada al Tarantino, che si faceva lanciando ognuno una moneta di metallo verso un muro (vinceva chi si avvicinava di più alla mèta, acquisendo il diritto di prendersi tutte le altre); all’uomo con il carrettino che vendeva i fichidindia, 10 una lira, aperte al momento e da mangiare sul posto; al gatto estraneo alla famiglia che saltò sulla “scrivania” che lo zio mi aveva fatto fare da un suo amico con le tavole ricavate da alcune cassette per la frutta, e mi graffiò un paio di libri di scuola appena acquistati con i soldi mandatimi da mia madre. E gioisco per la notizia di questi giorni della cittadinanza onoraria che San Marco in Lamis ha dato al mio amico Francesco Lenoci, docente all’Università Cattolica.

A proposito, mio zio si chiamava Quatela; aveva smarrito la sorella, Angela, mia madre, durante il terremoto di Messina del 1908 e l’aveva ritrovata 40 anni dopo, grazie ad un reduce di guerra, per combinazione lontano parente di Taranto.

Saluto dunque con amore, San Severo, che non rivedo da tantissimi anni. Ma di questo paese che mi accolse con affetto ricevo tante informazioni, foto e video (li più recente sulla festa “d’a Madonne d’u Succurse”) da un altro Quatela, mio cugino Nicola, che faceva l’antiquario, è sposato e ha una bellissima nipotina.

FESTA DEL SOCCORSO

(Festa “d’a Madonne d’u Succurse”)



 VIDEO REALIZZATO DALL'ASSOCIAZIONE SAN SEVERO TERRA DEI FUOCHI

SU MINERVA NEWS(sito www.associazioneminerva.org)

La Divina Commedia: INFERNO (Ciacco-6° Canto/ Farinata-10° Canto) di Silvia LADDOMADA


 

 

 

 

 

 


Nessun commento:

Posta un commento