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mercoledì 21 aprile 2021

Persone e cose di una volta

 

UN VIAGGIO NELLE VIE DI TARANTO

DAL BORGO ALLA CITTA’ VECCHIA


La parrocchia del “Sacro Cuore”,

le voci degli ambulanti scomparsi,

i personaggi, i luoghi, i mari Picce

e Granne, piazza Fontana, i vicoli:

“’na passiàte d’a mamòrie”

 

 


Franco Presicci

Da ragazzo frequentavo la parrocchia del Sacro Cuore di Gesù, che aveva un’entrata secondaria in via Giusti, mentre la facciata era in via Giovan Giovine. Don Pietro, l’economo, mi preferiva nel compito di accompagnare i morti; e una volta mi tirò le orecchie perché avevo disobbedito alla sua raccomandazione di portare con me soltanto la Croce e non anche l’asta, che nelle altre occasione la sosteneva. L’avevo nascosta sotto la veste nera e la cotta bianca da chierichetto, estraendola all’avvio del corteo. 

La chiesa del Sacro Cuore

La croce sull’asta mi dava più visibilità. Eravamo, credo, nel ’43. Mi piaceva andare in parrocchia. V’incontravo gli esploratori, gli aspiranti, un gruppo di fedeli più grandi; giocavamo a ping-pong, facevamo le prove delle recite… E servivamo messa. A volte compariva “’nu ‘ndrascione” (ragazzo filiforme), “’na ‘ndicchie muccùse”, cioè col muco che gli colava, che non assisteva mai alle funzioni: palleggiava in un angolo del sagrato; per divertimento tirava a corda delle campane, che era subito dopo la porta di un corridoio che dal sagrato portava anch’esso alla sacrestia e inventava storie che raccontava a due fedeli zitelle, bassine, capelli innevati, carine, brave, simpatiche e ingenue, non interessate “a le zelamìende”, quale che fosse la fonte. Avevo più che il sospetto che “u uagnungìedde” facesse galoppare “’a fànfere” proprio per prendere in giro le due donne. Una sera don Giovanni, un santuomo, appreso che avevo la febbre e stavo a letto, venne a farmi visita. Un amico, cercandolo in chiesa, incontrò il burlone, e quello gli disse che era da me a darmi l’estrema unzione. Non reagii con gesti apotropaici nè affrontando il soggetto. Me ne potevo uscire con una battura, per esempio: “Stòch’angor’acquà”, ma decisi di lasciar perdere. Tutte le domeniche e qualche volta la sera veniva una persona in giacca e cravatta, riservata, solitaria, sempre con la testa in giù e – mi disse chi abitava vicino a lui -, con parecchi problemi in casa e fuori, una sorta di monsù Travet, il protagonista del film del ’45 di Mario Soldati con Carlo Campanini, Gino Cervi e Alberto Sordi, tratto da una commedia di Vittorio Bersezio. 

Filippo Alto
Beh, improvvisamente era stato visto vestito in modo dimesso mentre con un bastone dotato di una specie di chiodino all’estremità inferiore mentre raccoglieva “le mezzùne” delle sigarette. La fonte? Lui, “’’u berbànde”, che oggi vedrei fra i cinque amici del film di Mario Monicelli con Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin…, che facevano scherzi a volte anche crudeli. Neppure un cinquantenne basso e magro che marciava verso la merceria che stava all’angolo tra le vie Giovan Giovine e D’Alò Alfieri (non lo avevo mai visto in parrocchia), si salvò dai ghiribizzi “de ’stu malalènghe”. “Ma quìdde jè scritte ‘a cunghrèche de san Martine”, disse sottovoce a poca distanza da me. Ignoravo questa istituzione e, curioso com’ero, chiesi notizie in giro senza avere risposte. Alla fine un conoscente anzianotto, che aveva un negozio in via Mazzini, m’illuminò: “La moglie lo ha sostituito e così lui è entrato a far parte del sodalizio, nella realtà inesistente, che accoglie quelli che sono venuti a trovarsi nella stessa condizione. “E più non dimandare”. Al termine della cerimonia serale, deposi l’incensiere nell’armadio e mentre mi toglievo veste e cotta, raccontai ad un amico quest’altro chiacchiericcio. Don Franzoso, altra pasta d’uomo, colse al volo le mie parole e mi dette una lezione: “Se nel tuo cammino trovi un sasso aggiralo”. E mia madre, che la sapeva lunga: “Se pìgghie de pònde tutte le pètre, no t’acchie cchiune”. Da allora per me tutte le parole “de le dìcia-didìce” sono “farfùgghie”, quelle falde di legno che escono dalle feritoie delle pialle e volando si arricciano nei laboratori dei falegnami.

L'assucapànne
A proposito, ce n’era uno, “mèste Fiorènze, nell’androne del palazzo vicino al nostro. In un localino di fianco a lui lavorava “mest’Andonie”, un calzolaio con il deschetto, che mi è rimasto nel cuore, anche se burbero, lagnone e dispettoso. Non ci voleva attorno. Appena ci vedeva mettere sulla strada le pietre a mo’ di porta per il gioco con la palla di pezza, urlava. “Scè’ sciucàte a ‘n’òtra vànne. Acquà no ve vògghie, vacabònde!”. A volte urlava anche se le “’semenzelle” gli cadevano a terra; o se non trovava “a sùgghie”, uno degli attrezzi del suo mestiere. “Ce jè, Andò’, ssèmbe ‘nguiatàte stè’?”, gli domandava una brava donna, paciosa e sempre indaffarata per i suoi cinque figli, che abitava dirimpetto, sull’altro lato della strada. E lui brontolava: “Cum’a ciucculatère sus’u fuèche”, la macchina per il caffè, quando la bevanda arriva quasi all’orlo. Di gente che gridava allora ce n’era tanta, ma per motivi diversi.

Il poeta Alfredo Petrosillo
Per esempio, quelli che esercitavano un mestiere ambulante, come il calderaio; lo stagnigno; “’u conzagraste”; l’”ammuèlafuèrbece”, l’arrotino; “’u ‘mbagghiasègge”, il riparatore di sedie; “’u ‘mbrellàre” e quello che vendeva le pampanelle, quagliato che veniva consegnato avvolto nei pampini: si presentava alle 7 del mattino e cominciava il giro dall’angolo con via Dante della mia strada, all’epoca silenziosa e tranquilla, senza tutte quelle auto che la occupano oggi, riducendola a “’nu strìttele”. “Pampanè’, accattàteve le pampanèdde!”. E le massaie accorrevano, comperandone due, tre, quattro, tanto erano buone. Un paio di volte la settimana compariva “’u ‘nghiappacàne”. Appena lo vedevamo con il suo trabiccolo, se c’era nei dintorni una bestiola cercavamo di nasconderla, senza mai fare in tempo. Quello gli infilava la testa nel cappio e lo metteva nella gabbia. Allora noi battevamo le mani, per dirgli: “Bel coraggio hai avuto!”, e lui faceva il braccio ad ombrello. “’U conzalùme” e il venditore di petrolio a 12 soldi al litro non passavano più: era arrivata la luce elettrica e i lumi erano diventati soprammobili o oggetti da barattare “c’u pezzàre”. Che tempi, quelli! D’inverno si subiva un freddo cane e durante il giorno stavamo vicino al braciere; e chi non aveva il braciere usava un vecchio bacile. Ma bisognava stare attenti per evitare che la vicinanza esagerata allo scaldino poteva provocare “le jàmm’a sazìzze”.

Braciere
Prima di andare a dormire si sistemava sotto le coperte “’u scarfalìette”. Per volere di mia madre, non parlavo mai il dialetto, perché da lei e da tantissimi altri era considerato volgare. Quando i miei anni si sono moltiplicati, mi sono accorto di aver perduto un tesoro. E ho cercato di ritrovarlo. A stimolarmi fu un lontano parente che ogni tanto veniva a farci visita. Aveva fatto la terza elementare, era nato nella città vecchia, dove viveva, e diceva “schife” per barca, “’mbòte” per petto, “pezzetìdde” per piccola pizza; “pezzecarèdde” per bambina. Intuì che non capivo e mi chiese: “Ma tù’ sì’ de Tàrde o nòne?”. Se il vernacolo mi era quasi estraneo, non meritavo di dirmi tarantino. Lo diventati come “’na còzze ‘nguraddàte”, leggendo i poeti (splendide, fra le tante toccanti la poesia di Diego Marturano “’U relògge d’a chiàzze”; e quella di Alfredo Lucifero Petrosillo “’U travàgghie d’u màre”), la grammatica di Claudio De Cuia e tutti gli altri libri necessari, rimanendo incantato dai suoni, dalle armonie della parlata della mia città. E continuai anche quando venni al Nord per fare il mestiere che avevo sognato. 

Il cav. Antonio Mandese
Piero Mandrillo
Il detto “lontano dagli occhi lontano dal cuore” a me non si addice, non avendo mai voltato le spalle “al mio luogo dell’anima; anzi, all’età di ottant’anni, cioè sette anni fa, ho preso a scrivere, bene o male non so, filastrocche in vernacolo raccogliendone parte in un libro, in cui tra l’altro scorrono tanti personaggi da me conosciuti, da “ze’ Necole”, che passava con il carretto carico di frutta e verdura, a Catàvete, “ca vennèv’u gràtta-gràtte”, ridendo e sorridendo; a Marche Poll, Amedeo Orlolla, che faceva non so quanti chilometri al giorno, arrivando anche a Crispiano con qualche passaggio, proponendo “’U Panarjidde”, un periodico satirico pubblicato dalla tipografia Leggeri (sede di fronte a piazza coperta) e in alternativa la schedina del totocalcio.
E mentre scrivevo s’imponevano tanti autori di teatro (Bino Gargano, per esempio, Marturano, Majorano, lo stesso Petrosillo…), scrittori: Giacinto Peluso, professore di lingue straniere e autore di opere importanti; lo scultore Nicola Carrino, che prese parte anche alla Biennale di Venezia e restaurò la fontana dell’omonima piazza, nella città vecchia; Nicola Caputo, i cui libri sulla storia, le tradizioni, gli usi, i costumi, le feste…della Bimare sono letti e riletti; Piero Mandrillo, docente d’italiano, giornalista e saggista; Franco Sossi, direttore del periodico “Il Rostro” e consacrato critico d’arte, che aveva la stima di Palma Bucarelli, direttrice della Galleria d’arte moderna di Roma.
E pensavo anche all’Oratorio dei Salesiani, davanti al quale si apriva uno spazio polveroso e accidentato che scendeva verso il mare, dove sulla scogliera catturavo i granchi. Un giorno, in una delle mie rimpatriate, domandai a un passante notizie di quel sentiero e la risposta mi colpì: “Stè’ sott’a quidde palàzze, addà”. Di Taranto, spesso mi vengono in mente i venditori ambulanti, le due fedeli del “Sacro Cuore”, le “cozzarùle indr’a le vàrche a Mare Picce”; la Fiera del Mare, il Premio Taranto e il Premio Rinascita, le ronde in via D’Aquino; il cavalier Antonio Mandese, papà di Nicola, titolari della “Casa del Libro” nella via dello struscio, oggi un salotto; l’onorevole Agilulfo Caramia, che abitava nel fungo di cemento che si erge maestoso sul lungomare; don Stefano Ragusa, di Martina Franca, che era parroco della chiesa di “Saneminghe”, da dove esce la Madonna il Giovedì Santo; l’amabile, generoso, eccezionale professor Alfonso Pesiri, direttore di una scuola per corrispondenza per marinai che si affacciava sul ponte girevole… E ricordo la volta che Mario Mazzarino, undici anni più di me, mi volle come protagonista in una commedia, “Il ribelle”, rappresentata nel teatrino della chiesa di San Francesco. Rividi Mario una sera di oltre una quarantina di anni fa nella casa di campagna di Filippo Alto, a Figazzano. E qui mi fermo, altrimenti il viaggio nel tempo non finirebbe più. Quando parlo della mia città, del mio dialetto, dei miei concittadini di una volta divago, mi dilungo, perdo il filo e mi commuovo.












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