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mercoledì 28 luglio 2021

Il ricordo di un grande artista

Il pittore Mario Bardi con Presicci
IL SICILIANO MARIO BARDI

E IL SUO AMORE PER MILANO


Aveva lo studio in una casa di

ringhiera di corso Garibaldi, al

piano terra del primo cortile.

Coltissimo, aveva fatto mostre

dappertutto. All’apparenza un

po’ ruvido, con i coinquilini era

generoso e disponibile.

 

 

Franco Presicci

Casa di ringhiera di corso Garibaldi
Ho uno scrupolo, di cui non riesco a liberarmi. Mi prende quando meno me lo aspetto. 

Riguarda Mario Bardi, il pittore siciliano che aveva lo studio in una vecchia casa di ringhiera di corso Garibaldi, all’angolo con via Moscova, dove si ricordano le cannonate del 1878 di Bava Beccaris contro il popolo in rivolta per l’aumento del prezzo del pane. Più volte Mario mi aveva mandato a chiamare tramite sua nuora, amica di mia nipote, ma io in quel periodo non avevo tempo neppure per pranzare e rimandavo. Poi seppi che era volato oltre le nuvole. Non potevo immaginare: credevo volesse darmi la notizia di una mostra personale; invece…

El vicerè, olio di Bardi

 

Ci legava un’amicizia sincera e affettuosa; e quando andavo a trovarlo, prima ancora che bussassi mi diceva: “Franco, entra”: conosceva il mio passo. Dopo i convenevoli mi mostrava le sue ultime opere, un vicerè con il capo in ombra o un cardinale anch’egli con la sommità non ben definita: entrambi erano rappresentanti del potere. Una mattina, continuando a dipingere, fece una specie di viaggio a ritroso: “Dove sono nato io, il Paese in cui ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ai tempi era stata la sede di re e di vicerè. Per ragioni storiche note e ignote l’impronta dell’età barocca era prevalsa su altre di epoche pure più antiche e illustri. E quell’impronta si era perpetuata nel tempo, sia nell’aspetto delle cose che nel carattere degli uomini”. Poi si fermò, depose il pennello e scrisse una decina di righe su un foglio. “Può essere l’inizio di ciò che voglio scrivere in una paginetta del mio catalogo della prossima mostra”. Poi mi donò due litografie per ringraziarmi di un lunghissimo articolo che gli avevo scritto e pubblicato con molti accenni al barocco.

Litografia di Bardi
In seguito mi dette un olio che troneggia nella mia stanza dei libri: una rosa rossa, che colpisce chiunque entri in casa mia. “E’ di Mario Bardi”, dico con orgoglio. Un collega mi propose di vendergliela e gli risposi scherzando che non aveva abbastanza soldi. Non me ne priverei neppure se fossi ridotto in povertà. Mario mi verrebbe in sogno con l’indice puntato e l’accusa d’ingratitudine. Andare da lui per me era anche occasione di arricchimento culturale. Una mattina mi riferì una sua scoperta di tracce di una colonna del Cinquecento in un angolo della casa che lo ospitava; e mi portò quasi per mano sul posto. Poi picchiò con le nocche alla porta dello studio dello scultore toscano Nado Canuti, altro nome illustre, ci presentò e mentre mi mostrava le enormi opere che quasi toccavano il soffitto, dandomi, alcune, l’impressione di pinne di pescicani, mi indicò gli altri artisti che operavano nella struttura con tre cortili, compreso Mario Ligonzo, giornalista de “Il Corriere della Sera”, che dopo aver lavorato per anni alla prima pagina del quotidiano di Taranto si era trasferito a Milano. 

Canuti nel suo studio
Dopo una mezz’ora di conversazione, salutammo Nado, che fece in tempo a dirmi che quei lavori avevano fatto parte di una mostra dedicata al figlio, intitolata “I racconti del padre”. Mario riprese il discorso iniziale: “Successivamente ho vissuto in altre città, spesso ugualmente e talvolta anche più ricche di testimonianze storiche e monumentali, ma dove il tempo ha camminato, e tanto”. Era nato a Palermo, nel ’22. Diplomato al liceo Scientifico aveva frequentato per alcuni anni la facoltà d’Ingegnera, che abbandonò per iscriversi all’Accademia di Belle Arti della sa città. Conseguito il diploma nel ’51, vinse una Borsa di Studio della Regione per giovani artisti. Ottenuta la cattedra all’Accademia di Belle Arti “Fidia” di Agrigento, passò ad Aosta, Torino, quindi a Milano. Consegui premi importanti, espose in molte mostre nazionali, sue opere presero la via di molte collezioni private. Disegnò mirabilmente i disastri del terremoto di Gibellina del ’68.

 

Ugo Ronfani

La rosa di Bardi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Uomo coltissimo. Una sera lo invitai a cena a casa mia, dove gli feci conoscere Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”, di cui fino a qualche anno prima era stato corrispondente da Parigi, professionista noto e stimato per il suo vasto patrimonio culturale. Nella capitale francese aveva intervistato Joan Rostand, Jean Paul Sarte, Simone de Beauvoir… ; aveva scritto libri (sui palcoscenici di Parigi, su monsignor Lefèvre…) ed era direttore di “Sipario”, rivista di teatro molto diffusa. Davanti a un piatto di orecchiette con le cime di rapa discussero degli argomenti più vari e tutti li ascoltammo pendendo dalle loro labbra. Veleggiavano senza fermarsi da un lido all’altro, Ugo a volte con dolci suoni francesi.

Parlavano di barocco, di stucchi siciliani, di chiese gotiche, di art-nouveau, e della casa di ringhiera di corso Garibaldi 93, su cui si ventilavano idee di un destino poco rassicurante come quello di sostituirla con un centro residenziale. La prima volta che ci misi piede era forse il 1975. Ero già informato delle sue vicende passate, avendo distillato vino dalle bottiglie di Paolo Valera, scrittore stile carta vetrata, caustico, intransigente, che oltre alle cannonate di Bava Beccaris del 1848 parla di corso Garibaldi con “i suoi quaranta fabbricati sporchi ed ulcerati, loschi, insidiosi per quel povero disinformato che avesse messo il becco in quell’intestino”.

Mario Bardi
Sarà stato così, il corso, ai suoi tempi, ma credo che l’avesse ridotta a quel modo la sua penna arrabbiata (“absit injura verbis”). Certo aveva avuto vicino vie poco raccomandabili come quella Dei Guast, per niente decorosa anche per la locanda del Berrini, frequentata da “locch” e da elementi della “ligera”. Ma erano robe di altri tempi. E guai se qualcuno ne faceva cenno al custode del civico 89, soggetto a una fierezza incrollabile. Non faceva altro che vantare degli artisti famosi che vi avevano avuto lo studio. Indicava uno stanzone del cortile e faceva il nome di Pablo Picasso. “Picasso???”. “Sì, Picasso. Non capisco la vostra meraviglia. “Di certo – precisò un signore che si era fermato avendo sentito la contesa – qui hanno concepito le loro opere artisti come Tallone, Alciati, Solenghi, Ferraguti-Visconti… E non potete immaginare quante fanciulle dai corpi statuari venivano a posare per quelle tavolozze prestigiose”. Mario Bardi confermò. Solenghi imbastiva feste chiassose, ma senza ombra di orge. Nella casa di ringhiera in cui il mio amico aveva lo studio al piano terra del primo cortile regnava il silenzio. Vidi entrare una signora un po’ in carne, due borse della spesa in mano, abito nero, passo stanco, capelli bianchi, “il marito in attesa di me al cimitero”, rassegnata, originaria della Trinacria. 

Chechele Jacubino
Mi avvicinai, scambiammo due parole e mi disse che ogni tanto indugiava davanti alla finestra dello studio di Bari per vedere emergere sulla tela figure e nature morte. “E’ una brava persona, sa? Sembra burbero, ma quando ti parla ha un sorriso affabile”. Proprio sul tetto di Mario Bardi un aiuto regista di Dario Fo aveva allestito uno spettacolo alternativo; e tutti gli inquilini ad assistere dalla ringhiera, con bandiere stese lungo il filo dei panni da asciugare. Bardi ne era contento; e ancora una volta mi parlò delle colonne che per lui testimoniavano l’antica dignità di convento della casa. “La torre campanaria dà sul cortile del 91”. Gli piaceva questo scenario. “Sto più qui che a casa mia, Vieni, facciamo due passi”. E m’introdusse negli altri due cortili, legati da una specie di corridoio semibuio. Mi fece salire su una scala erta, imbrigliando la mia paura che mi cadesse un mattone sulla ghirba al primo starnuto. Era una giornata di pioggia e di vento. Nell’altro cortile signoreggiava un grande fico con le sue belle foglie spesse e ruvide. Mi venne in mente la Bibbia, dove, quando i nostri due progenitori si videro nudi, cucirono alcune foglie di fico per coprirsi l’essenziale, dando l’idea ai pittori del Seicento, che rivestivano di frasche gli arditi artisti del Rinascimento. Lo ricordai a Mario, che intanto pensava al pugliese Chechele Jacubino, che, innamorato della sua Apricena, seduto sotto quell’ombrello si faceva immortalare dal suo corteo di fotografi. “Non sai quanta gente è passata per questa casa di ringhiera. Era di una donna ricchissima e affascinante. Frequentava i salotti dell’alta società. Poi finì qui in due locali con la sola compagnia di una domestica che alla sua morte vendette tutto. Un paravento Liberty è quello che vedi nel mio studio”.






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