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mercoledì 14 luglio 2021

La mia fonte di ricordi

 

LA VIA CARA AL MIO CUORE

OLTRE MEZZO SECOLO FA

Via Nettuno


Uno spettacolo quotidiano

visto anche dai balconi delle

case. Le persone, gli epiteti

i pettegolezzi bonari, gli usi,

i negozi. Con il passare degli

anni la strada ha cambiato

faccia. 

 

Franco Presicci

Il popolo di via Nettuno, via collocata tra la Capitano Egidio Giusti e la Fratelli Melloni, alle Tre Carrare, si é da anni assottigliato. Cancellati anche i negozi, quei pochi che c’erano: il tabacchino di don Damiano, un signore anziano burbero, ma generoso (ha lasciato il posto a una specie di minuscolo supermercato); la salumeria “d’a francaveddèse”, all’angolo con via D’Alò Alfieri; l’elettricista Quatraro, padre e figlio, che vendeva lampadine e spine; e più recentemente il laboratorio di Michele, che aggiustava le macchine per cucire, soprattutto marca Singer. La stessa strada ha cambiato volto: quasi tutti i vecchi stabili a suo tempo sono stati demoliti per costruire al loro posto palazzi di cinque o sei piani che hanno ingoiato tutto lo spazio superfluo, su cui noi ragazzi praticavamo la “livoria”, un gioco che prevedeva il lancio di due palle d’acciaio verso un ferro rotondo saldato su un chiodo conficcato nel terreno, “a scìgghie”, che bisognava attraversare per conquistare un punto. Eravamo in tanti a trastullarci su quel “campo”, e non solo con la “livoria”. I più bravi assumevano atteggiamenti spavaldi e si contendevano il titolo di campione. Li ricordo tutti. Non era tra questi Pierino Lincesso, che abitava in uno stabile di fianco al mio (al numero 8), in un appartamentino con una loggetta che dava sulla strada e sembrava un palco di un teatro. I genitori vi si sedevano e ammiravano lo spettacolo che si svolgeva in quel tratto. 

Marino Ceci
Estraneo a quelle competizioni erano Marino Ceci, cinque anni meno di me, che quando è diventato grande si è trasferito in via Regina Elena. Amante della musica, virtuoso del pianoforte, poi docente di notevoli virtù culturali e didattiche, tanto che per i suoi ex alunni è ancora un modello da imitare. Lo era anche Gino Gattinari, studente al Liceo Classico “Archita” in piazza della Vittoria, intelligenza viva, ottimi voti anche all’Università di Bologna, dove si laureò in medicina disattendendo i desideri della mamma che lo voleva professore. Aprì uno studio de in via Giusti, dove aveva trasferito l’abitazione e dopo anni è deceduto nella sua nuova casa dalle parti di piazza Sicilia. La notizia della sua scomparsa mi procurò molto dolore, perché Gino era un caro amico di gioventù, mi veniva a trovare a casa tutte le sere, rimanendovi fino a tardi (se ne andava solo quando vedeva i miei occhi chiudersi a intermittenza come le lampadine dell’albero di Natale). Era sempre ben vestito, corteggiato, spiritoso, senza mai la voglia di dimostrare il sale che aveva in zucca. Al liceo, con rappresentanti di altre classi, confezionò un giornale. Quando il preside, che non era ancora Massafra, lo lesse, redarguì tutti, meno Gino, a cui dette come premio 3 mila lire, per la scrittura, giudicata agile e brillante, e per l’argomento scelto. Non era uno sgobbone, Ma nella sua libreria convivevano Pirandello, Papini, Palazzeschi, Croce, Sciascia, Prezzolini…

La dogana
Si poteva permettere tutti i libri preferiti: il papà aveva alle dipendenze maestranze che sfoltivano i boschi, a Policoro, ricavandone carbone che stoccava in un grande deposito credo in via Aristosseno, di fronte allo stabile di un altro amico, Mario Filomarino, che vendeva gli uccelli in via Pupino. Mai visto tra il pubblico della “livoria” neppure il giovane Belloni, che abitava al secondo piano del palazzo quasi di fronte al mio: frequentava il Conservatorio e già suonava da maestro il violino. Di fianco al suo stabile sorgeva una casetta lillipuziana preceduta da un giardinetto con un cancello sulla strada. Uno dei figli, di cui non ricordo il nome, aveva acquistato le scarpe per il “tip-tap”, di cui era molto appassionato e si vedeva già in una sala ad esibirsi come virtuoso professionista. Un giorno con altri tre o quattro compagni di gioco facemmo un pic-nic a base di sedano, olive, pane e melanzane sott’olio su un prato in fondo a via Dante. La sera il futuro artista ci dette un saggio di quel ballo e alla fine lo applaudimmo senza capirci niente. Ho appreso in seguito la storia della tap dance. Al numero abitava 2 abitava la signora Magenga, una bravissima infermiera che veniva chiamata da tutti per ogni problema. Ebbi un foruncolo a un dito, che mi procurava molto dolore, e mia madre di notte andò subito ad avvertire la donna dei miracoli (si fa per dire). “E’ maturo”, esclamò riferendosi all’infiammazione, e m’infilò un ago nell’indice. Il figlio, un ottimo ragazzo, si trasferì a Venezia, dove – mi scrisse – esercitava l’arte del prestigiatore. 
Scuole elementari Acanfora

Enrico, nipote di don Damiano, ereditò il tabacchino del nonno, ma lo spostò all’angolo con via Dante, dirimpetto alle scuole elementari Acanfora. (le avevo frequentate anch’io, avendo come maestra la dolce signora Carrozzo, che abitava in corso Umberto). Enrico aveva troncato gli studi di chimica all’università di Bari, per intraprendere subito il lavoro, sostituendo la mamma, una gran signora che tutte le volte che mi vedeva entrare per acquistare il sale per la nonna mi chiedeva come andassi a scuola; e io dribblavo perché quel mio percorso era accidentato. Poi il negozio passò in altre mani e di Enrico non seppi più nulla. Via Nettuno aveva tante belle ragazze. Fra queste, Lisetta, che abitava al numero 14; le figlie di Schirano, una famiglia numerosa con abitazione di fronte alla mia. Il papà, persona seria, onesta, buona e disponibile, in testa sempre un cappello nero a falde larghe, a suo tempo arruolato per necessità nella milizia come mio suocero. Nei pomeriggi d’estate la famiglia si sedeva fuori a conversare anche con altri della via: Gilda, Soccorsa... a godersi l’atmosfera tranquilla. Le auto erano poche, le carrozze di più. Rare le liti, rarissimi gli scontri, che finivano a “tarallùcc’e vvìne”. I ragazzi ogni tanto programmavano, per passatempo, una sassaiola contro quelli delle vie vicine, stabilivano l’orario e studiavano la strategia, ma il giorno della battaglia non arrivava mai. I pettegolezzi circolavano a ritmo di valzer. Una fanciulla usciva alle 9 di sera ed entrava nell’auto del fidanzato in attesa? Subito: “Addò vè’ quèdde a quèst’òre de nòtte? Ma averamènde s’hà’ revutàt’u mùnne. Fàce bbuène Salvatore ca ùse màzze e panèlle cu le fìgghie. Otre ca càpa pàcce accùme dìcene”. 

Vendita di frutti di mare in dogana
Bastava un gesto, un comportamento, un’abitudine, un “tic”, una modo di camminare per appiccicare un’etichetta: “Segaròne” fumava il cubano; Celluzze era grasso e quindi “’A bòtte”; Franchine, avendo i capelli ricci, “Rezzetjidde”; Pascàle non appariva molto sveglio? “Mènza meròdde”; “Memìne era “Nàs’a puperùsse”; Colìne “Maulòne” perché alto; Menechìne “‘nu tàppe” perché basso; Giuannìne, amante degli scherzi, “’u Cegghiòne… (i nomi di battesimo sono naturalmente di fantasia, per rispetto delle persone). Anche il paese di provenienza suggeriva un nomignolo: Giuànne u’ Musciagnèse” era di Mesagne; Penùcce, “vurtagghièse”, di Grottaglie. Mechèle, che frequentava via Nettuno, ma apparteneva a un’altra via, era di Roccaforzata e qualcuno gli dedicò dei versi: “D’a Ròcche mo’ tu’ è scìse ‘nzign’a Tàrde p’acchià cume se dice ‘a pàgghia bbòne/ e mmèce de sazìzze, sùgne e làrde te pegghiàte ‘nu furbòne … ”. Se uno studente disertava i banchi, il padre minacciava: “Je te mànne a carescià’ a còffe da Giuànne ‘u Musciagnese”. E il ragazzo continuava a inanellare “felùne”, cioè a marinare la scuola. Un bell’assortimento.

Gianni Rotondo

Ah, spesso vedevo arrivare Gianni Rotondo, destinato a fare strada come giornalista de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Veniva a visitare una signora anziana spesso seduta sulla soglia di casa: forse la sua futura suocera. Allignavano anche le leggende. C’era chi giurava di aver incontrato “’u lupannàre”; e chi ne aveva sentito l’ululato provenire dall’androne del numero 7. Ne parlava anche una signora alta, sagoma da gemella Kessler, passo da danzatrice classica, sui cinquant’anni, un po’ “snob”, che nelle serate in cui si riuniva il parentado raccontava di aver assistito ad una seduta spiritica e di esserne uscita terrorizzata: il tavolo era saltato e ricadendo si era spezzato una gamba. Tutti stavano ad ascoltarla tremebondi. Tante persone se n’erano andate all’altro mondo ed era facile trovare anime da convocare, Immagino mèste Fiorènze, “c’u bànche de falegnàme indr’o purtòne, sèmbe chijne de farfùgghie”; mest’Andònie, c’a tenève cu tùtte l’onevèrse; Cerùcce; Ronzìne, àbbele a fa’ ‘u presèpie; Osvalde, ca facève ‘u sucanchiòstre… Zio Dionigi ascoltava in silenzio e mi dava l’impressione di non gradire. Anche quando la signora Lina, donna forte, ma mite e concreta, mai sedotta dalle credenze popolari, giurò di aver visto l’aùre far capolino dall’armadio e salutarla sventolando la mano. 

Dino Abbascià e Nico Blasi

Zio Dionigi
Cose che si raccontano la sera di Natale seduti intorno al braciere con la pedana. Mi viene in mente il maestro martinese Oronzo Carbotti, che scriveva di tradizioni, usi e costumi antichi di Martina Franca sull’interessantissima rivista diretta da Nico Blasi, “Umanesimo della Pietra”; e al giorno in cui mi portò in una scuola elementare e mi presentò il direttore, che affermava di aver abitato nella mia via proprio di fianco al mio caseggiato. Ma per quanto sollecitasse la mia memoria, questa non trovava riscontri. Solo dopo una mezz’oretta si aprì un varco. Il ricordo più limpido riguarda zio Dionigi, il mio faro. Nell’agosto del ‘75, l’Associazione produttori di biciclette indisse un concorso sul prodotto, che prevedeva due vincitori e un “velocipede” per tutti quelli che avessero pubblicato un articolo sull’argomento. Partecipai con il racconto di un fatto accadutomi all’età di 15 anni. Ogni lunedì d’estate lo zio tornava dal week-end trascorso con la famiglia a Martina nella campagna sul Chiancaro, una zona incantevole e riposante. Arrivava a Taranto alle 7 con un treno della Sud-Est tirato da una locomotiva a vapore e alla stazione prendeva il pullman dell’Aeronautica, dove lavorava. Mi offri di andarlo ad aspettare io con la sua bici, orgoglioso di poter fare qualcosa per lui; e dovetti insistere molto, dato che lo zio temeva che durante il percorso potessi avere un incidente. Alla fine riuscii a convincerlo e il lunedì successivo pedalai fino alla dogana, nella città vecchia, dove si ruppe la catena. Non sapevo che cosa fare. Erano le 6 e si aprì un deposito, chiesi aiuto e mi fu risposto che solo uno del mestiere avrebbe risolto il problema, e non in poco tempo. Cercai di arrangiarmi ma peggiorai la situazione, sporcandomi di grasso anche la faccia. Quando lo zio mi vide arrivare a piedi, le mani tra manubrio e sella, s’impressionò perché da lontano scambiò il grasso per sangue, e mi venne incontro correndo. Io quasi piangevo e quel sant’uomo mi rincuorò. Pubblicai l’articolo e conquistai il “trofeo” (Ugo Ronfani si piazzò onorevolmente al secondo posto dopo Gianni Granzotto con un articolo sulla Rivoluzione cinese fatta in bicicletta). Lo rivedo, lo zio, che il pomeriggio stava spesso affacciato al balcone della sua casa al primo piano di via Nettuno 10 ad osservare il via-vai. Era nato in via Nettuno e lì morì all’età di 66 anni, uno dopo il pensionamento .










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