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mercoledì 5 gennaio 2022

Attraverso i sogni e i ricordi

La Dogana

VOLI DA MILANO A MARE PICCOLO

SULLE LAMPARE E I PESCHERECCI

Nessuno lascia Taranto con leggerezza.

La sofferenza è affievolita dalla speranza

che ci sarà il giorno del ritorno. Per molti

quel giorno non arriva. Altri dimenticano

la culla, imparando il dialetto del luogo che

li accoglie.

 

Franco Presicci

Penso alla mia città e mi si affollano i ricordi: a volte pallidi, confusi; altre volte limpidi. Gli stabilimenti balneari “Nettuno”, “Lido Taranto”, “Lido Venere”, lambito dal fiume Tara, Praia a Mare, Lido Bruno, entrambi sulla strada per San Vito; quella spiaggia, deserta, isolata, senza arredi senza rotonde, dove un giorno, frugando fra le alghe, catturai due “suènne”, granchi dalle chele sottili e dal carapace peloso, sonnacchioso e lento. Mi vengono in mente personaggi, ambienti, situazioni, luoghi scomparsi, stravolti, irriconoscibili per ci rimpatria.

La chiesa del Sacro Cuore
Ecco “‘u Mèe”, che vendeva le caramelle, seduto su una sorta di banchetto da calzolaio davanti all’Istituto per periti industriali Righi; il carbonaio di via D’Alò Alfieri, che vendeva anche il petrolio, uno spilungone sempre in piedi addossato alla porta come una cariatide; il ragazzo che novellava sulle notti del padre trascorse in duelli rusticani, mentre tutti sapevano che “Turiddu” quelle notti le passava a letto a sognare; la signora Manuela, severa custode della figlia inquieta e pronta a scatenare un putiferio se intercettava uno sguardo ambiguo; la signora dalle fattezze poco armoniose, che quando usciva con la sua nidiata era accolta dalla cantilena “Brutos, Brutos”, inscenata da un manipolo di discoli che si ispiravano all’etichetta di una formazione musicale e comica famosa negli anni 50. Non dimentico la figura “d’u ‘mbaghiasègge’”, che spuntava con una bisaccia a tracolla piena di giunchi e attrezzi da lavoro. 

Nicola Giudetti
Non gridava, le massaie lo aspettavano stando al bancone, gli affidavano l’arredo, lui si sedeva su uno sgabello e impagliava il fondo e se necessario anche la spalliera .“Memìne”, che, facendo “’u munezzàre”, veniva evitato pur essendo un’ottima persona, passava, salutava e proseguiva verso la sua casupola nella campagna. E quel tale, sempre on il cappello sulle ventitrè che glorificava il figlio “ingegnere”, in verità solo fuoricorso, poi scoperto con il capo chino oltre il banco di un ufficio postale. Un giorno, vantandosi con mio zio Dionigi e criticando mio cugino che era ancora all’università, ottenne questa risposta: “Scusa, ma non hai patate da pelare a casa tua?”. In verità la risposta, tradotta in dialetto, aveva ben altro suono.

Angolo di Taranto vecchia
Scartabellando nella memoria ritrovo altri personaggi: il solito Marc Pòll, “’A vuè ‘a schedìne?, No’, allòr’ accàttete ‘U Panarijdde””, simpatico, pacioso, rughe profonde, coppola in testa, basso, sottile come un’anguilla, maratoneta (faceva chilometri al giorno per vendere la speranza di cambiar vita); e il giovanotto, magro e in equilibrio instabile, come una festuca (avevamo sempre timore che un colpo di vento lo buttasse a terra), botta e risposta faceva la somma, la sottrazione, la divisione, la moltiplicazione, la radice quadrata di numeri complicati. Sempre calmo, sereno, sorridente, buono. Abitava nel portone di fianco alla salumeria di “don” Peppe Marzo, che aveva un figlio chirurgo e nel cassetto una lunga lista di debitori con la tessera annonaria. Il mio carissimo amico Ruggero Ruggeri (non c’è più da tempo), all’epoca studente al quinto anno del liceo scientifico, che fece in bicicletta il tragitto Taranto Bari e al punto d’arrivo, multato perché scoperto sdraiato su una panchina, disse ai poliziotti che per lui era un piacere pagare data la cortesia con cui gli era stata contestata l’infrazione. Dopo il diploma si guadagnò il grado di tenente assegnato alla caserma Picca di Bari e lo vidi seduto sul sellino posteriore di una Lambretta con le maniche della giacca della divisa arrotolate. Tornò alla vita civile per disamore di quella militare e si laureò in economia e commercio.

La Concattedrale
Scrisse anche un “giallo” pubblicato da Garzanti. Il fratello Marcello diventò operatore culturale di alto livello e l’altro, Ninuccio, veterinario. Ed emerge immancabilmente il professore delle mdie, ottimo insegnante, ma incapace di pronunciare correttamente il mio nome: diceva Peticci, quando mi doveva interrogare; e nei rimproveri: “Petì’, tu no vu tudià, va’ fòre”; e quello di italiano e latino che indossava sempre gli stivali e ci insegnò, per fermare nella memoria i tempi di alcuni verbi che intervenivano per aiutarne altri nelle parti mancanti, ci ripeteva: “Dic duc, fac, ferre, mìette màne a le cultèlle e se no fòsse pe’ fio fis t’accedèsse a te e a ijsse”. Era simpatico e severo. Non come quello che alle elementari puniva le marachelle con colpi di bacchetta che coloravano le mani di rosso. Le storie si avvicendano e salta furi quella del ragazzo che, massacrato di botte dal padre per aver rotto il vetro di una finestra, stava accosciato sul marciapiede in terra battuta dietro l’angolo di casa, attorniato da un gruppetto di compagni di strada, che gli consigliavano di procurarsi un po’ di ceci, di buttarli nel pozzo di “mest Rònze” e di tornare a casa tranquillo. 

A destra il muraglione
I ceci non produssero l’effetto pronosticato. Alla mia età il passato riemerge, brutto o buono che sia stato. E mi fa sentire come un attore alla ribalta con il suggeritore acquartierato nella buca del teatro. Di teatro ne ho fatto. Ai Salesiani, di Taranto e di San Severo, alla parrocchia di San Francesco, a quello del Sacro Cuore ... Qualche applauso l’ho avuto, ma di quelli che non si risparmiano ai ragazzi, anche se sono pessimi dilettanti.”. A tratti rivedo il Teatro Comunale di San Severo affollato in ogni ordine di posti per la commedia “Mister Brandi”, del maestro La Pietra, messa in piedi con alcuni compagni del liceo classico “Matteo Tondi” e Tina De Marco delle Magistrali. Il pubblico, numeroso, contava anche elementi venuti, più che per assistere alla recita, per fischiare e fare confusione. Un po’ di teatro l’ho dunque fatto. Anche in tivù. Tanti anni fa in una trasmissione di un’antenna privata milanese (tra il pubblico moltissimi pugliesi) sulla chirurgia estetica domandai ad una delle esperte se si potesse fare qualcosa per rendermi bello. La risposta fu diplomaticamente deludente, ma stimolai mote risate con saporite battute di spirito. Una sera di Carnevale a Telereporter alcuni amici buontemponi mi organizzarono uno scherzo, presenti anche cantanti famosi, tra cui Achille Togliani e l’artista lirica Magda Olivero. Mi fecero chiamare al microfono dal conduttore, il maestro Siani, che mi domandò se mi piacessero le donne e fissando la mia pancia aggiunse che con quella sporgenza non avrei potuto avere molto successo. Gli risposi che secondo gli esperti proprio la pancia ha una carica di seduzione, tanto che io la coltivavo, pur non frequentando territori non consentiti. La signora Olivero mi regalò un “bravo” a microfono aperto.

Via D'Aquino
Stazione di Taranto
 

 

 

Sono saltato da Taranto a Milano. Anche i treni deragliano. E’ facile saltare di palo in frasca quando la memoria è fresca, a dispetto dell’età. Anche se i ricordi a volte giocano; li metti in fila e loro disertano, improvvisamente ricompaiono, tornano a nascondersi e si ripresentano, li riprendi, li rimetti al loro posto, mentre un altro cambia strada a sua volta. Baluginano come le luci dell’albero di Natale. 

Il Castello dal ponte girevole
E visti da lontano sono tutti belli. L’importante è non farsi prendere dalla tentazione di voler riacciuffare il tempo che se n’è andato. Nessuno può tornare indietro, se non con i ricordi. Non posso più tornare con le mie gambe al Mar Piccolo di oltre mezzo secolo fa o alla spiaggia dello stabilimento Santa Lucia, quella degli arsenalotti, dove mi stendevo a pancia in giù sulla battigia lasciandomi accarezzare dall’acqua o sulla rotonda sbirciando le onde attraverso gli spiragli del tavolato. L’ho cercato, quel luogo, nelle mie rimpatriate estive. Ma era stato sepolto dal cemento; e non ci sono più le persone con cui mi accompagnavo per fare il bagno. Tanti angoli di quella Taranto li rivedo su Facebook nelle fotografie o nelle cartoline d’epoca che postano Antonio De Florio, Carmen Adamo, Enrico Vetrò e tanti altri. Attraverso quelle immagini di via Anfiteatro, di piazza Maria Immacolata, via D’Aquino, piazza della Vittoria, la Sem, il cinema Rex che fu divorato dalle fiamme, il cinema Paisiello, il cinema Odeon, i tram che attraversavano il ponte di ferro, piazza Castello, Mar Piccolo… ritrovo un po’ la mia città di una volta. Quelle immagini sono spettacolari, ristoratrici, storiche. Vengono da raccolte private fatte da cacciatori della Taranto di un tempo perduto.





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